Attualità

Era impressionante il numero delle persone con mutilazioni che si incontravano per le strade delle città tedesche fin quasi alla fine degli anni Cinquanta. Quelle ferite rimarginate grossolanamente, le amputazioni risolte con vistose protesi, facevano pari con i ruderi carbonizzati di edifici pubblici e privati ancora in piedi, recintati, già in parte pietosamente ricoperti di erbe selvatiche. Una ferita piú vasta e profonda lacerava da Nord a Sud il Paese e lo divideva in due, segnata dai cavalli di Frisia, da reticolati giganteschi, sotto l’occhio vigile delle torri di controllo. Rari ponti e viadotti scavalcavano quel solco nella terra grassa e nera dove misteriosamente nessuna vegetazione allignava. Neppure gli uccelli vi si posavano. Ma gli occhi sí. Vi cadevano gli sguardi perduti e spenti di chi, sbarcato dalle corriere, si portava ai limiti della barriera di confine e lungamente indugiava ad osservare la cupa stria desolata. E pure lo strazio, l’urlo, erano interiori. Non suoni di sorta si udivano, né singhiozzi. Lacrime scorrevano sui volti impietriti di alcuni, dentro un terribile silenzio. Non venivano neppure scambiate parole di solidarietà e di comunanza nella pena. Ogni cuore un’isola a sé di angoscia e rimpianto.
E non meglio stavano gli inglesi. Le loro città erano meno sfigurate dai bombardamenti, ma uguali apparivano i segni della guerra nei corpi e piú ancora nelle anime. Il terrore degli oscuramenti, il sibilo dei missili V1 e V2 tedeschi, lo straniamento delle migrazioni forzate, e dopo il conflitto il razionamento, le tessere annonarie, le lunghe file, un’economia all’osso nel pubblico e nel privato. Ristrettezze a austerità protrattesi persino piú a lungo che nella stessa Germania. E il grande Impero cominciava a sfaldarsi, iniziando dall’India.
Gli altri vincitori, i russi, nascondevano dietro la propaganda di regime inedia, morti e rovine. Ovunque, sia nei Paesi vincitori che in quelli dei vinti, l’Italia tra gli altri, un relativismo morale compensava le frustrazioni, l’illecito prosperava offrendo scappatoie di sopravvivenza, il male si generalizzava in prassi quotidiane accomodanti. Alla pietà si sostituiva il cinismo. E sotto la luce della realtà che si veniva scoprendo, ulteriori efferatezze e stermini di delineavano, denunciando fino a qual punto la civiltà europea aveva tradito le sue radici ideali, religiose, morali, espressive e filosofiche.
Ma le guerre non si esauriscono con la fine delle ostilità sul campo, con gli impegni a rispettare nel tempo i patti di non-aggressione e belligeranza. Le guerre, terminando, sono come un malo frutto che si apre lasciando cadere dal suo baccello i semi da cui germineranno le guerre future, senza soluzione di continuità. Anche se in apparenza vige la pace tra i popoli, sottopelle corre la tragica filigrana della rivalsa e della vendetta, si alimenta dei suoi stessi umori, cresce, erompe e deflagra.
Questo perverso meccanismo, l’Europa sembra averlo finalmente capito, ed è stanca di lutti, rovine, amputazioni e ferite alla terra, alle opere della fatica umana, stanca di ricostruire e restaurare, Sisifo impotente e logoro. Ha acquisito la coscienza di chi non vede piú nei conflitti la soluzione ai propri fallimenti, ed è disposta ad ammetterlo e a correggersi, finalmente umile dopo tante velleità imperialistiche e impennate utopiche di dominio sul mondo.
Eppure, in questi ultimi tempi di una guerra combattuta altrove e per volontà di forze che ancora non hanno maturato quella saggezza derivante dalla sconfitta e dalle abdicazioni, l’Europa è stata accusata di codardia, renitenza, mancanza di determinazione alla libertà e alla giustizia. Chi formulava tali accuse disquisiva in termini speculativi, sillogistici, strategici, combinando equazioni e paralleli storici. E non ha capito, o non ha voluto capire, che come sempre per il passato, l’Europa conduce le fila della civiltà. Ma non lo fa ormai piú con le fanfare e le cariche di cavalleria, non indossa piú le sgargianti divise dell’epica militaresca, troppo rapidamente tramutate in sudari, non adopera il frasario ridondante e futile della retorica. Finalmente l’Europa si predispone a indicare al mondo i valori che la futura civiltà universale dovrà adottare e praticare se intende veramente salvarsi: i Lumi del sapere, la volontà di ben operare, temperati dalla carità evangelica. L’Europa, per intenderci, di Albert Schweitzer e di Madre Teresa.
Peccato che si sia perduta una buona occasione per dare inizio a questa nuova etica di comportamento, preferendo all’impegno silenzioso e proficuo, alla mediazione e alla disponibilità negoziale, il rombo dei cannoni e il fragore delle bombe. All’utilità comune la rovina di tutti. Poiché è ormai chiaro che nessuno, meno che mai i vincitori, trarranno benefici materiali dalla guerra che è appena terminata. Se è vero come è vero che superbombe e missili costano migliaia di dollari al pezzo, e se come sostengono alcuni esperti si è trattato di un conflitto per il petrolio, ci si chiede legittimamente quanti barili di greggio si sarebbero potuti comprare dagli iracheni con l’equivalente investito in ordigni distruttivi.
Quanto poi all’intento dichiarato di voler eliminare con la guerra un tiranno, vien fatto di considerare come la tirannia sia una manifestazione epidermica, la spia di un malessere cellulare profondo di una società e di un popolo, e piú generalmente parlando della razza umana. Asportando la massa tumorale con un’operazione chirurgica quale è un’azione bellica, non si estirpa il male alla sua radice, anzi, si rischia che esso velocemente si propaghi per metastasi a tutto l’organismo sociale nella sua dimensione planetaria globalizzata. E ciò che è peggio, si perde consapevolezza di quanto e in che modo tutti i popoli e i governi del mondo abbiano contribuito con i loro giochi di potere, le loro omissioni e assenze, a fomentare la nascita degli stessi mostri autocratici di cui vogliono poi sbarazzarsi con i bombardamenti a tappeto.
E se come terza ipotesi causale del conflitto vogliamo infine adombrare nei vincitori i progetti di egemonia politica, di sfere di influenza territoriale, di garanzie di sicurezza per amici, alleati e satelliti, vale lo stesso principio applicabile alle motivazioni mercantili del conflitto: l’economia cosí come l’egemonia si gestiscono bene soltanto se procedono di pari passo con l’ergonomia, che è, nonostante il termine di recente attualizzato, una prassi antica, secondo la quale l’acquisizione del consenso avviene salvaguardando la dignità e l’incolumità di chi s’intende sottomettere al proprio dominio, o piú umanamente e civilmente uniformare al proprio modello di società, presupponendo che sia migliore di quello che s’intende rimpiazzare.
Piú verosimilmente, però, le motivazioni economiche e strategiche sono soltanto un alibi di comodo per giustificare la non mai sopita propensione di una certa umanità adrenalinica all’esercizio bellico. La “crudele giga”, per dirla col poeta, l’unica danza gradita ai deliri dell’ego dominante, cadenzata dal coro degli urli e delle maledizioni, dai suoni orchestrati dei macchinari e congegni di morte. Su tale sinistra musica le coppie avvinte nei feroci corpo a corpo.
La cosa piú inaccettabile di questa letale ipocrisia è che si chiama la Divinità a dirigere il ballo, a benedirne i passi e le coreografie. Ma Dio è lontano, quando l’uomo si uccide. Si eclissa. Attende che la creatura di carne, sangue e spirito si risvegli dal brutto sogno, e rinsavisca.

Teofilo Diluvi