Personaggi

Ogni civiltà vive delle reliquie e vestigia di quella che l’ha preceduta. Un lascito costituito sia dai valori etici, giuridici e culturali – vale a dire dalle virtú inerenti l’interiorità degli individui – sia dai valori che in qualche modo da quelle doti derivano, e che riguardano l’esteriorità e la materialità, valori realizzati in oggetti, manufatti, ordinamenti e strutture. Quanto piú lunga e intensa di avvenimenti risulta la storia di un popolo, tanto piú cospicuo è il legato che passa dalla sua civiltà a quella successiva. È però insito nell’ordine delle cose umane che la parabola di ogni epopea storica parta da un punto di primordialità, si elevi lentamente fino all’acme dello splendore, e poi spesso velocemente declini, deteriorando quei valori per cui un popolo aveva consegnato il proprio nome agli annali delle vicende universali. Occorre pertanto discernere quali valori siano da prendere a modello da una data civiltà, considerando gli uomini e le loro azioni in un certo periodo storico, estrapolato dall’intero arco esistenziale della civiltà da essi animata.
Capita però di essere condizionati dalle affinità morali quando si effettua l’operazione selettiva dei valori da recuperare da una civiltà passata, per cui si verifica che un’odierna società di goduriosi degenerati voglia prendere da quella romana soltanto i giochi circensi con le cruente carneficine, e non piuttosto le virtú del rigore morale, dell’austerità dei costumi, del culto familiare e di devozione alla divinità. Si preferiscono i rituali che vilipendono e persino annientano la vita a quelli che la promuovono e la difendono.
Eppure l’uomo opera e costruisce non per disfarsi nel nulla delle guerre e delle stragi, ma lavora a perpetuarsi, attraverso la prole, la creazione artistica, i dettami degli ordinamenti giuridici e le istituzioni pubbliche. Un istinto profondo lo spinge a cercare l’immortalità e, attraverso di essa, l’eternità, che è poi in definitiva la sua volontà di assimilazione al divino onnipotente. Essere non piú per una vita, per un ciclo storico, per una civiltà conclusa, ma essere per sempre, affidare il proprio segno alla vicenda cosmica perché resti impresso, indelebile, sul nastro della cronaca che tutto registra senza limiti spazio-temporali.
Il sogno dell’eternità, ma di cosa è fatto questo antico vagheggiamento umano? Per averne un assaggio, basta pagare 8 euro, quanto costa il biglietto d’ingresso al Palatino a Roma. Ora nel prezzo è inclusa anche la visita al Colosseo, ma si tratta di un sacrilego forfait. La Roma pastorale delle capanne, del fico ruminale e delle ninfe canore, costretta a convivere col ludus magnus nella crassezza brutale della lotta omicida, l’innocenza misterica promiscua alla paranoia della potenza aliena agli Dei.
Conviene dunque entrare solo al Palatino per la porta monumentale del Vignola, su Via di San Gregorio, faccia al Celio, lasciando il brulicame della folla accodata agli sportelli del Colosseo o impegnata ad accaparrarsi un centurione, un auriga o un reziario con rete e tridente, o meglio ancora un feroce gladiatore di borgata, per una foto ricordo sullo sfondo del piú grande e funzionale mattatoio che l’umanità imbestialita abbia saputo allestire nei millenni.
Varcato il portale, piegate a sinistra. Oltrepassati i resti dell’acquedotto Claudio, continuate per il viottolo ghiaioso all’ombra dei grandi pini. Vi troverete nel punto dove il declivio del colle fronteggia il Circo Massimo e il mistico profilo dell’Aventino, dove gli antichi àuguri traevano auspici dal volo degli uccelli. Qui, dai prativi d’erba folta e incontaminata, dai cespi d’alloro, mirto e aneto, svettando dalla verzura odorosa e umile di menta e nipita, festonati di acanto e viole del tufo, ecco levarsi al cielo percorso da cirri leggeri gli archi di Settimio Severo, nobile ossatura superstite del complesso termale che l’imperatore volle erigere sul colle del Palatio, sfruttando l’acquedotto Claudio e le varie e ricche sorgenti che sgorgavano nelle grotte delle Camène, fluivano per la Valle Murcia, finendo nel Tevere. Meglio venirci nel pomeriggio precoce, durante i mesi solari e caldi, quando la controra, sollecitata dallo spettro solare, apre magici spiragli. Il pulsare della città intorno è come il rombo di una cascata oltre il muro di una foresta primigenia, il vento soffia tra i laterizi scarnificati, agita i fichi selvatici sui vertici degli archi, scandisce mantra evocativi. Si crea un vuoto, un vortice, e l’anima vi si imbarca. State discendendo il fiume del tempo.
La vera bellezza non ha orpelli. Vive nella gloria dell’essenza archetipica che ne struttura le forme. Perduti gli stucchi pletorici e i marmi preziosi, lo scheletro di rovine come queste rappresenta il germe del sogno d’eternità che ne ispira l’ideazione e ne guida l’esecuzione. Raramente l’architettura romana classica ha saputo erigere opere edilizie tanto essenziali nella loro solennità, qui rese ancora piú grandiose dal contesto naturale che ne esalta lo slancio aereo e la purezza delle linee.
Settimio Severo non si fermò al complesso termale. Volle emulare Nerone che dal Colle Oppio aveva fatto digradare in terrazze fiorite la sua Domus Aurea verso la valle Velia, dove un flusso di acque sorgive alimentava un lago con uccelli rari e ninfee galleggianti. L’imperatore fece erigere un edificio portentoso, di sette piani, quanti erano stati i re e quanti erano i colli di Roma, e anche le Pleiadi, l’Orsa, i giorni della settimana, le sette meraviglie del mondo, oltre al chiaro riferimento al suo nome.

Una ideale ricostruzione del Septizonium di Settimio Severo

Lo chiamò per questo Septizonium, divenuto poi Settizonio, o Settizodio. Pochi anni prima egli aveva conquistato la Mesopotamia vincendo i Parti, e quindi era entrato in contatto con l’astronomia e l’astrologia dei Caldei. L’edificio evocava infatti le ziqqurat mesopotamiche, vere e proprie torri astronomiche. Niente di piú facile quindi che il Settizonio contenesse nei dati della sua struttura riferimenti alle simmetrie planetarie stellari, con richiami all’esoterismo cosmico, in quanto il sette è la combinazione fra il 3 (lo Spirito) e il 4 (la forma). Sul frontespizio campeggiavano nicchie arricchite da statue, dalle quali getti e cadute d’acqua animavano una congerie fantasiosa di spume e zampilli. Tutta l’acqua defluiva poi in un bacino artificiale posto fra il Palatino e il Celio.
Tale padre tale figlio, Caracalla, divenuto imperatore, volendo imitare il genitore fece costruire le sue grandiose terme proprio di fronte a quelle di Settimio.
Esaurendosi, ogni grande civiltà ingenera, negli eredi che ne raccolgono le spoglie e il testimone, una sindrome di “pagurismo”: il paguro, un granchio marino, entra nei gusci vuoti delle conchiglie morte, imitandone il comportamento e simulandone le funzioni biologiche. Estinguendosi, la civiltà romana lasciò un retaggio immenso di leggi, norme e consuetudini, collaudate e perfezionate per quasi un millennio. I vari popoli che erano stati suoi sudditi, vi attinsero a piene mani per i loro ordinamenti giuridici ma, con rare eccezioni, non ne carpirono lo spirito fondante, o mancò loro la sostanza morale per applicarle nella maniera giusta. Cosí fu per l’altrettanto sconfinato e pregevole patrimonio architettonico, edilizio ed artistico che, per l’ignoranza e l’oscurantismo dei governi laici e religiosi succeduti all’impero, venne demonizzato e per questo abusato e vituperato. I sarcofaghi vennero adoperati come abbeveratoi per il bestiame, colonne di porfido e marmo cipollino furono utilizzati come cariatidi e stipiti per taverne e negozi. Nel Medioevo il fornice mediano dell’arco di Settimio Severo al Foro, interrato a metà, ospitava una bottega di barbiere.
Accanto a questo, le famiglie nobili romane fecero man bassa in quella mirabile cava a cielo aperto per ricavare materiali pregiati al fine di erigere i propri palazzi. E la Chiesa non fu da meno per realizzare basiliche e conventi. Si dovette attendere il Rinascimento per avere una rivalutazione dell’eredità artistica romana. Calandosi nelle viscere dell’Urbe, pittori e scultori recuperarono la dovizia espressiva dei Romani per nutrire la linfa creativa delle loro opere.
Ma non sempre le antiche dimore e gli insigni monumenti dei fasti imperiali romani furono saccheggiati o destinati a usi e funzioni dequalificanti. A volte le famiglie patrizie della città, in continua competizione fra loro, quando non impegnate in vere e proprie lotte feudali, si arroccavano in torri e fortilizi ricavati dalle strutture di ville, complessi termali, anfiteatri e palazzi, che si erano conservati tanto integri da consentire una decorosa abitabilità che, con opportuni restauri e abbellimenti, poteva risultare persino sontuosa.
Alla potente famiglia dei Frangipane era toccato appunto il Settizonio, rimasto pressoché intatto malgrado dieci secoli di incuria trascorsi dall’anno della sua costruzione, 203 d.C. A quell’epoca, inizi del XII secolo, la casata, tra le piú potenti della città, possedeva già il Colosseo, il Palatino e tutta l’area intorno al Campidoglio fino al Teatro di Marcello. Mancava il Settizonio, di proprietà dei frati del convento di San Gregorio al Celio. Col tacito consenso di papa Lucio II, eletto nel 1144, Cencio dei Frangipane lo acquistò, assegnandolo poi per abitazione a suo fratello Roberto. Per sé adattò le domus del Palatino, con lusso e magnificenza. Qui teneva una corte fastosa, di cui faceva parte anche un leopardo, che girava liberamente per la sconfinata dimora. Finché un giorno, ripreso dall’istinto ferino, la belva sbranò una malcapitata e incolpevole serva.
Fu in quest’ambiente, governato da regole di sopraffazione e cinismo morale, che intorno al 1208 venne a vivere una creatura angelica, Jacoba de’ Normanni, sposando Graziano dei Frangipane, nipote di quel Roberto cui Cencio aveva assegnato il Settizonio. E poiché nel frattempo il nome dell’edificio, nel gergo popolare, era diventato “Settisolio”, o anche “Sette Soli”, la nuova domina, che ben presto si fece amare da tutti per le sue virtú, fu chiamata La Dama dei Sette Soli, o Jacoba dei Sette Soli.
Rimasta vedova nel 1212, con due figli, Giovanni e Graziano, Jacoba trasformò la sfarzosa dimora patrizia in un focolare di carità e devozione. E quando, proprio in quell’anno, San Francesco passò da Roma diretto in Terra Santa, Jacoba chiese di incontrarlo e lo invitò al Settizonio. Da quel giorno, l’amicizia tra la pia aristocratica romana e il Poverello d’Assisi si strinse a un tal punto che questi prese a chiamarla “frate Jacoba”, riconoscendo in lei quella virile forza di dedizione alla carità, che le faceva superare e vincere ogni ostacolo. Chiara, diceva il Serafico, era la dolcezza, Jacoba la forza, e volle che La Dama dei Sette Soli rimanesse nel mondo e non rinchiusa nella serenità meditativa di un chiostro.
Francesco venne a Roma diverse volte, e sempre Jacoba invitava lui e i frati che lo accompagnavano. Ma poiché il seguito del Poverello s’infittiva sempre di piú, ottenne che il convento di San Biagio, sulla riva del Tevere, venisse assegnato dal papa a Francesco e ai suoi confratelli. Da qui il nome San Francesco a Ripa che prese in seguito l’edificio.
Nel 1223 il Santo venne a Roma per l’ultima volta, per ottenere da Onorio III l’approvazione definitiva della Regola. In quell’occasione, i fedeli gli fecero dono di un agnellino. Non potendolo portare con sé, il Serafico lo lasciò alle cure della sua devota Jacoba. La donna lo allevò con tale amore, che l’animale la seguiva dovunque come un cane, persino in chiesa per le funzioni. E se Jacoba si attardava o indugiava ad alzarsi, l’agnello la scuoteva col muso fino a riconsegnarla ai suoi mille doveri.
Ottenuto il riconoscimento della Regola, Francesco fece ritorno ad Assisi. Le sue forze andavano affievolendosi. Il grande compito che la sua anima si era assunto era adempiuto. Jacoba seguiva con ansia da Roma lo spegnersi di quella luce che aveva rischiarato il mondo e portato molti uomini al pentimento e alla redenzione. Finché il male mortale ebbe il sopravvento, e Francesco scivolò nell’agonia, circondato dai frati e dai devoti accorsi da ogni dove alla Porziuncola. Poco prima aveva espresso il desiderio che qualcuno si recasse a Roma per informare Jacoba della sua malattia, e che venisse prima della sua dipartita. Ai messi incaricati di compiere il viaggio e l’ambasceria, Francesco elencò alcune cose che avrebbe desiderato che la sua amica gli portasse. Mentre la carovana stava per mettersi in viaggio, ecco arrivare Jacoba, spinta da un presentimento che l’aveva colta a Roma giorni prima. Recava con sé proprio le cose che il Santo aveva desiderato: un drappo color cenere per ricoprire la spoglia, un certo numero di ceri, un sudario da mettere sotto la testa, e infine alcuni di quei dolci di mandorla che lei usava preparare con le sue mani e offrire a Francesco quando lo invitava al Settizonio.
Dopo la morte del Santo, Jacoba tornò a Roma, ma due anni piú tardi, nel 1228, esauriti i suoi doveri familiari, ritornò ad Assisi, dove morí nel 1239 e fu sepolta nella Basilica dedicata al Poverello. Una sua immagine in abito di terziaria è dipinta in un affresco sbiadito che decora la sua tomba. Ma piú toccante è quella che la ritrae al capezzale del Santo agonizzante sulla nuda pietra, prima figura a destra nel dipinto del Bruschi sulla parete esterna della Porziuncola.

Domenico Bruschi «Transito di San Francesco»

Sul finire del 1500, Sisto V, il “papa muratore” fece demolire quello che restava del Settizonio, utilizzandone i materiali di risulta per vari edifici religiosi e civili, tra cui la Basilica Vaticana e il Palazzo della Cancelleria. Trentatré massi vennero impiegati come base dell’obelisco di Piazza del Popolo.
La dinastia dei Frangipane si è estinta, e la memoria di Jacoba dei Sette Soli è confinata nella leggenda. Ma proprio in questa, che è l’essenza della storia, vive l’anima vera degli uomini e il valore delle azioni che essi compiono per vincere il tempo e durare, immortali.

Ovidio Tufelli