Botanima

Sciami irrequieti di uccelli ormai pronti alla partenza, cadono foglie senza vita, la terra indossa le gramaglie d’autunno. Scarmigliata e folle, un’ombra percorre veloce, ansimando, questo grigio scenario. Nel libro V delle Metamorfosi cosí Ovidio descrive l’affanno di Cerere, ovvero Demetra, partita alla ricerca della figlia, la fanciulla Core, la Persefone dei Greci, la Proserpina dei Romani:

Cercava Cerere invano la fanciulla
percorrendo angosciata terra e mare,
né l’Aurora né il Vespero la videro
mai riposarsi…
E per vincere il buio della notte, la Dea ricava due torce dai pini dell’Etna, una per ciascuna mano, perché la ricerca mai s’interrompa fino allo spuntare del giorno che fa impallidire le stelle. Ancora, sempre, cercando l’amata figlia. Ma Persefone è stata rapita dal sovrano dell’Erebo, Ades, mentre coglieva fiori nel bosco dell’eterna primavera, presso il lago Pergo, in Sicilia, e ha finito con l’innamorarsi del suo rapitore, diventando regina dell’Averno. E per suggellare questa sua scelta di non ritorno nel mondo dei vivi ha rotto il voto del digiuno, che le consentirebbe di lasciare il mondo dei morti qualora lo volesse. Ha mangiato sette chicchi di una melagrana colta nel giardino di Ades, legandosi per sempre a lui e al mondo infero. Il dolore di Demetra è tale che Zeus, mosso a pietà per il triste fato della fanciulla, figlia anche sua, stabilisce che Persefone trascorra sei mesi con la madre nel regno dei vivi e sei con Ades nel regno delle ombre.
L’autunno segnava, nella tradizione mitologica greca, l’inizio di permanenza di Core nell’Ade, quale regina di quel mondo tenebroso, e del dolore della madre che per quel periodo la vedeva scomparire. Per consolare e ingraziarsi la Dea, alla cui tutela era affidata la fertilità della terra e la fecondità della donna, venivano celebrate in Grecia le Tesmoforie in onore di Demetra. Duravano tre giorni e coincidevano di norma con la seminagione. Si snodavano in processione per le città e i luoghi agresti trenodíe formate esclusivamente da donne biancovestite, che portavano in epifania le leggi scritte, che si diceva discendessero direttamente dalla dea, e che governavano le tradizioni civili e domestiche riguardanti il matrimonio e la prole. A tal fine, l’ultimo giorno delle celebrazioni veniva denominato “Kalligeneia”, ovvero della bella progenie. Canti, danze e tripudi connotavano quel giorno.
Il panteismo panico degli antichi vedeva la divinità in ogni elemento, in ogni fenomeno, e i miti erano allegorie e metafore del divenire del mondo, cosí come gli uomini contribuivano a formarlo diacronicamente, giorno dopo giorno, vicenda dopo vicenda. Vedevano uno spirito universale multiforme nei segni della natura, in particolare nelle piante e negli alberi. Nel santuario di Dòdona Zeus parlava dalle querce, le Muse dai salici dell’Elicona, Apollo si manifestava nell’alloro, Dioniso nell’edera e Venere attraverso il mirto. Jahvè, l’Io sono, parlò a Mosè da un roveto ardente. Gli antichi Egizi consideravano il sicomoro un albero posto al confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti, e vi facevano risiedere le divinità preposte al controllo delle anime durante il passaggio dalla realtà fisica a quella ultraterrena: Osiride, Maat, Anubi e Thot. La dea Nut, nel suo aspetto di albero della vita, nutriva invece i morti, affinché ottenessero il dono della vita eterna. Sotto l’albero di fico indiano, il pipal, sulla riva del torrente Nerajara, Siddharta, dopo aver attraversato i quattro stadi – concentrazione, lievità dell’anima, abbandono e imperturbabilità assoluta – raggiunse la bodhi, la suprema Illuminazione, divenendo Buddha e uscendo dalla ruota delle continue reincarnazioni, attingendo quindi al Nirvāna, la condizione che esenta l’anima dal ciclo di morte e rinascita.
Dal credere senza dubbi degli antichi, che vedevano la divinità in ogni cosa, si è arrivati al meccanicismo deterministico dei filosofi, che scorge soltanto processi chimici e fisici nelle manifestazioni della natura. Lo stesso Kant giunse ad affermare che proprio i fiori, la seduzione di Persefone, mostrano una bellezza figlia dell’inutilità, un essere senza scopo.
Secondo le risultanze della scienza positivistica, la straordinaria alchimia attraverso cui i fiori variano i toni cromatici delle corolle, emanando allo stesso tempo aromi inebrianti dai calici, non dipenderebbe dal segreto lavorío di fate e folletti, dalle dita angeliche di esseri elementari invisibili e alacri, bensí altro non sarebbe che una casualità di processi chimico-minerali legati alla simbiosi-osmosi tra vari elementi e organismi. Ma una scrittrice amante della natura in generale, e dell’Africa in particolare, la pensa diversamente: «Non è possibile – dice Karen Blixen – che una varietà cosí infinita sia necessaria alla economia della natura; deve essere per forza la manifestazione di uno spirito universale, inventivo, ottimista e giocondo all’estremo, incapace di trattenere i suoi scherzosi torrenti di felicità». Una divinità felice di creare, dunque, e perciò disposta a rendere felice anche la sua creazione piú raffinata: l’uomo.
Proprio nel continente africano, tanto caro alla scrittrice danese, le popolazioni hanno meglio conservato, attraverso credenze animistiche, la consapevolezza che forze sovrannaturali animano il creato, e piú di ogni altra cosa gli alberi. A Dar es Salaam, in Tanzania, un devoto e incessante pellegrinaggio dalla città e dalla regione circostante conduce uomini e donne fino a un gigantesco baobab, che dirama il suo corpo secolare, forse, dicono alcuni, millenario, in un angolo di Kenyatta Drive, poco distante dall’Oceano Indiano. Il poderoso leviatano vegetale ospita uno spirito benigno che emana energie taumaturgiche. I fedeli arrivano, si tolgono le scarpe prima di inginocchiarsi ai piedi dell’albero, il cui diametro supera i dieci metri, e, a occhi chiusi, chiedono grazie e guarigioni, per sé e per conto di altre persone impossibilitate a compiere direttamente tale devozione.
Piú un albero è vecchio, credono gli africani, piú grande è la possibilità che lo abitino spiriti potenti e propizi. Negli esemplari piú vetusti il durame interno si svuota, lasciando un’ampia nicchia dentro la quale i postulanti lasciano cibo e offerte votive. Fino a non molti anni fa, vi si ponevano le ceneri dei cantastorie, affinché il genio dell’albero rendesse immortale lo spirito di quei cantori che, attraverso la tradizione orale, avevano perpetuato la storia del proprio popolo.
Confusi alle turbe dei devoti che si recano a venerare il sacro baobab e a chiedere grazie e miracoli, ci sono anche eminenti politici, i quali prima delle tornate elettorali implorano sostegno per la loro candidatura. Torneranno per ringraziare l’albero in caso di successo nella consultazione.
Ma tanto ricco di meraviglie è il retaggio culturale africano da non poter ridurre incanti e incantesimi a un solo prodigioso emblema. Sul crinale tra magico e mistico, sottile al punto da consentire scambi continui tra le due dimensioni, ecco svettare il “Mariam Daarit”, che nell’idioma della provincia di Keren in Eritrea vuol dire “Il baobab di Maria”. L’albero mastodontico, che s’innalza trionfante poco fuori della città di Keren appunto, ospita nella cavità del tronco prodotta dall’opera dei secoli una cappella dedicata alla Madonna. L’eressero alcune suore missionarie verso la metà dell’Ottocento. Nel corso della Seconda Guerra Mondiale l’area dove sorge il Mariam Daarit venne a trovarsi proprio al centro delle operazioni militari condotte dai paesi belligeranti, la cosiddetta “guerra del deserto” tra gli alleati angloamericani e le forze dell’Asse. Per sfuggire a un bombardamento dell’aviazione britannica, alcuni soldati italiani si rifugiarono nella cappelletta del baobab, raccomandandosi alla Vergine Maria, la cui immagine era raffigurata nella statuina posta sul minuscolo altare. Una bomba colpí il baobab, ma albero e soldati rimasero illesi. Da allora, alla reputazione di positività botanica già acquisita dall’albero nella tradizione locale, venne ad aggiungersi quella di una sua virtú miracolosa dovuta alla presenza della cappella e della statua. Scattò una specie di sincretismo religioso spontaneo per cui venivano e vengono tuttora in pellegrinaggio al “Baobab di Maria” fedeli appartenenti a ogni culto e religione. Ne derivano pertanto inedite e a volte colorite commistioni di riti e pratiche devozionali, alcune tipiche dell’empirismo sciamanico. Capita di vedere numerose postazioni di cucine mobili con fornelli per preparare il caffè allestite nei pressi dell’albero. Le ragazze che desiderano sposarsi, o le maritate che non riescono ad avere un figlio, si danno da fare con le cuccume, e se uno dei pellegrini si avvicina e ne chiede una tazza, è segno che il desiderio formulato verrà esaudito e sarà matrimonio imminente e felice o prole sana e timorata di Dio. Soprattutto se la grazia viene richiesta in occasione della grande festa che si celebra ogni anno il 29 maggio, con inni, balli e giochi sulla radura di Keren, intorno al possente e sacro albero che, le radici affondate in una terra antica quanto il mondo, veglia sul geloso mistero della vita.
Qualche bella mente positivistica potrebbe commentare: «La solita superstizione dei primitivi, l’animismo tribale duro da sradicare. Venerare un baobab!». Che direbbero allora queste razionali intelligenze davanti allo spettacolo delle folle dirette da ogni parte d’Italia a Canneto Sabino, in quel di Rieti, per ammirare un veterano della flora europea, un ulivo vecchio di 1.500 anni. Tempo fa, il Presidente del Consiglio allora in carica, Romano Prodi, ha voluto posare per una foto ricordo davanti a questo vegliardo vegetale, dal fusto di oltre nove metri di diametro, tuttora in grado di produrre dieci quintali di olive ad ogni stagione. Vecchie glorie che non demordono!
Come il tiglio di Macugnaga, piantato dagli immigrati della regione svizzera di Walser intorno al 1260, quasi coetaneo dell’abete bianco della Verna che, si racconta, vide il poverello d’Assisi ricevere le stigmate. E il castagno di Camaldoli, che per non essere da meno ha raggiunto la circonferenza di dieci metri alla base. Nella cavità del suo enorme tronco i monaci ricavarono a suo tempo una cappelletta dove tuttora si riuniscono a pregare. In quegli eremi, gli alberi hanno avuto a che fare con le orazioni e la santità, mentre a Sant’Alfio, alle pendici dell’Etna, con la potestà regnante e agguerrita: la regina Giovanna d’Aragona si riparò con tutto il suo seguito all’ombra di un castagno alto e fronzuto, che per questa sua eccezionale prestazione tutelare venne e viene tuttora chiamato “dei cento cavalli”.
Gli alberi proteggono dunque gli uomini. Il pacato respiro di uno solo di essi produce ossigeno bastante alla vita di trenta individui. Sereno, armonioso metabolismo che trae dal sole la propria vivificante energia. I boschi sacri degli antichi furono i primi templi. Dai boschi i nostri antenati trassero nutrimento e materia per erigere le loro civiltà urbane, nei boschi si rifugiarono, per sottrarsi alle prevaricazioni dei potenti e ritrovare se stessi, rinascere alla vita in piena libertà e dignità. I Wandervögel dell’epopea romantica, riscoperti da Hermann Hesse, i Waldgänger di Ernst Jünger che, ribellandosi ai guasti e ai ricatti della civiltà materialistica e coartante “passavano al bosco”, ritornavano cioè a un rapporto ancestrale con la natura e con quel grande spirito che pervade ogni cosa, e di cui sempre piú spesso l’uomo smarrisce l’essenza.
Necessità di riconciliarsi con se stessi e con la divinità, ecco cosa ha spinto anche Julia Hill “Butterfly” a insediarsi sulla cima di una millenaria sequoia americana e viverci per due anni, lottando contro la Pacific Lumber Company, che voleva abbattere tutta la secolare foresta di sequoie per farne legname da costruzione. Coraggioso esempio di tree-sitting, che fa il pari, su un piano meno nobile ed epico, con il tree-climbing del Tarzan metropolitano, all’anagrafe Antonio Mollo, installatosi tra i rami di un tiglio secolare del Pincio, a Roma, eletto a sua dimora a vita. Julia Hill vuole salvare lo spirito cosmico e l’eredità naturale del mondo, Antonio Mollo la propria identità di uomo libero. Azione meditata quella della ragazza americana, atto disperato quello dell’uomo, che rifiuta la civiltà malata e contraddittoria. Una civiltà che noi tutti siamo riusciti a creare a spese del patrimonio di armonia e bellezza di cui eravamo stati dotati.
E forse questi tentativi di ritorno al nemus primigenio, nobili o maldestri che siano, ci meriteranno la misericordia divina, e dall’Ade tenebroso e gelido usciremo a riveder le stelle. Allora Core, la fanciulla della nostra innocenza recuperata, tornerà sulle rive del Pergo incantato, cogliendo fiori variopinti e odorosi nella frescura di un bosco dell’eterna primavera, come ben dice Ovidio sempre nelle Metamorfosi:
Un bosco fa corona alle sue acque,
da ogni lato le cinge con le fronde,
vela di Febo il fuoco e l’addolcisce.
Frescura danno i rami e variopinti
fiori produce l’umido terreno:
qui, dell’eterna primavera è il bosco
dove giocava a cogliere, Proserpina,
viole e gigli, e ne colmava cesti
e la sua veste ripiegata in grembo.

Leonida I. Elliot