La mosca bianca

Generale

La mosca bianca

Mauro Capasso provava orrore e disgusto per tutto ciò che era lurido, per questo odiava le mosche. Erano insetti immondi, perché nascevano da uova deposte su escrementi e materie in putrefazione. Da lí sciamavano portando con sé batteri e protozoi patogeni che poi diffondevano in giro, posandosi sui cibi, sulle ferite, sui bambini, trasmettendo cosí infezioni ed epidemie anche letali. Creature demoniache, da piaga biblica, questo era il suo giudizio globale in merito, e comunque, anche non volendo credere alla loro natura demoniaca, si trattava di insetti dannosi e maligni alla massima potenza, in forma esponenziale, un termine quest’ultimo che andava molto di moda e possedeva un senso onnivalente. Là dove l’uomo si lasciava andare, impigrendosi, evitando l’igiene e l’ordine, ecco le mosche fare la loro comparsa, come a dire: «Amico, quando tu disarmi e abbassi la guardia, allora arrivo io, e ti avverto che attraverso la mia subdola opera ti può capitare qualunque tipo di epidemia. Per questo, attento a te, io ti ho avvisato!».

Terrazza Caffarelli

Ricordava quella volta che aveva invitato a bere un caffè una bella ragazza americana incontrata ai Fori. Dopo uno scam­bio di complimenti e di notizie personali, tipo da dove vieni e cosa fai, famiglia, passatempi e letture preferite, si erano trovati simpatici, e cosí lui l’aveva pilotata su fino alla Terrazza Caffarelli, al Campidoglio: una vista mozzafiato, una vertigine di suggestioni sulle antiche rovine da un lato, il Teatro di Marcello, l’Isola Tiberina e tutto il mare dei tetti che ondulava nei toni piú vari, ma col rosso mattone predominante. E da quella massa di marmo, tegole e giardini pensili, emergevano torri e guglie, per chiudere lo spazio di fuga nella lontana cupola di San Pietro.

 

Come non rimanere estasiati a tanta imponente bellezza? E Jennifer, cosí si chiamava la ragazza americana, lo era, e lui si rendeva conto che a quel punto, vedendo lo sguardo di lei smarrirsi, e le labbra, prima tese, aprirsi in sorrisi sempre piú ampi e dolci, era certo che gli avrebbe concesso qualche avance. Vigile all’inizio, diffidente, come tutte le turiste straniere, specialmente quelle americane, alle prese con i corteggiatori indigeni, Jennifer aveva abbassato lo scudo, il ponte levatoio, ogni difesa insomma. Si sedettero dunque ad un tavolo quasi addossato al parapetto che delimitava il belvedere dalla parte del fiume. Colombi tubavano sui cornicioni e in cime alle colonne, tra i cespugli, altri uccelli noti e ignoti si posavano a racimolare briciole e semi. Un idillio.

 

«Vuoi un dolce insieme al caffè?» aveva chiesto lui, premuroso, nel suo modesto inglese.

 

E lei, annuendo con grazia, aveva risposto «Yes, please!».

 

Lui allora aveva fatto cenno a uno dei camerieri, che indossava una candida giacca con alamari e spalline dorate. Ma poiché l’elenco dei dolci disponibili sciorinato dal cameriere in un inglese peggiore del suo si era rivelato inafferrabile alla ragazza, l’uomo aveva consigliato di andare al banco presso la cassa e scegliere il tipo di dolce che gradivano. Si erano diretti allora al bancone dei dolci dove, sotto una cappa di plexiglass imitante il cristallo, erano allineate su tre ripiani varie qualità di torte: belle, promettenti, per tutti i gusti e le diete. Ce n’erano infatti anche alcune senza zucchero, o con dolcificante, e alla carota, al prezzemolo, insomma, c’era solo l’imbarazzo della scelta. E poi, dei cartoncini con didascalie in quattro lingue, spiegavano il tipo di torta e gli ingredienti che lo componevano. Tutto perfetto, si disse Mauro. Jennifer guardava, sorrideva, faceva commenti simpatici. Alla fine scelse una torta al cioccolato, con panna e fragole, la indicò al cameriere che si era tenuto disponibile in attesa accanto a loro.

 

Ricevuto l’assenso, stava per calare l’arnese di finto argento nella lucida e sontuosa patina del dolce, di un bel marrone arabescato di glassa e panna, quando da un angolo della bacheca refrigerata si mosse prima una mosca, che compí un volo esplorativo sulla fetta che il barman aveva appena tagliato, poi fu come se avesse eseguito la perlustrazione e, avendo trovato la preda all’altezza della situazione, chiamasse a raccolta le sue colleghe. Ne accorsero prima un paio, poi un gruppetto, alla fine sulla fetta si addensò un intero stuolo nerastro e famelico. Il cameriere si diede da fare per distogliere l’attenzione dei due ragazzi, pregandoli di accomodarsi al tavolo, dicendo che ci avrebbe pensato lui a portare la due fette di lí a poco. Jennifer era imbarazzatissima, e cosí Mauro, ma nessuno dei due ebbe il coraggio di dire la ragione dell’imbarazzo e del disgusto. Eh, sí, perché sul volto della ragazza americana il disgusto era evidente. Ma le cose peggiorarono una volta che si furono accomodati di nuovo al tavolo. Le due fette di dolce vennero deposte sul ripiano del tavolo trascinandosi dietro due scie di mosche agguerrite, che spiccavano ancor piú sul bianco immacolato della panna.

 

«Non possono fare qualcosa?» chiese con esasperazione la ragazza mentre col tovagliolo tentava di liberare la sua fetta dalle moleste creature. Che però ormai, in preda a un vero raptus predatorio, non avevano alcuna intenzione di mollare. Mauro tentò di imitare la ragazza e si diede da fare col suo tovagliolo, poi rivolse uno sguardo supplichevole al cameriere.

 

«Che volete – si scusò quello, costernato – col caldo e l’umidità…!» E anche lui cominciò a mulinare il tovagliolo sulle fette e intorno al tavolo, che a quel punto era una specie di faro in un mare in tempesta, assediato da ondate di marosi scuri petulanti e famelici.

 

Jennifer si alzò di scatto, poiché un gruppetto di mosche le si era impigliato ai capelli. Era diventata isterica, e dal tavolo si avvicinò al parapetto. Mauro temette che volesse buttarsi di sotto per sfuggire alle mosche. Ma la ragazza strisciò lungo il basso muro, imboccò l’arco monumentale dell’ingresso alla Terrazza, e Mauro la vide correre via giú per la discesa che portava a Piazza Venezia. Dopo pochi minuti la rivide distante, confusa alla folla che gremiva il marciapiede del Vittoriano. Non la rivide piú, benché la ricercasse il giorno dopo nella stessa zona. Gli toccò pagare il dolce. La direzione del locale disse che non era colpa loro se il Comune non aveva provveduto alla disinfestazione.

 

No, lui non amava le mosche. In qualche modo lo avevano sempre disturbato, innervosito per quella loro petulanza fastidiosa e subdola. Dopo anni, quando ripensava all’incontro andato storto con la bella americana, sentiva ancora la rabbia e il disgusto come se l’episodio si fosse verificato pochi minuti prima. Sí, Mauro veramente detestava le mosche. E nella stessa misura in cui provava avversione per esse, odiava i proverbi, le massime, gli adagi che riguardavano quegli insetti onnipresenti contro cui l’umanità aveva lottato da sempre, senza mai venirne a capo.

 

 

Mosca bianca

Pertanto, quando quella mattina nel suo ufficio, al sesto piano del palazzo dove aveva sede la società finanziaria per cui lavorava ormai da dieci anni, trovò, nella bacheca contenente le chiavi dei vari armadi del reparto, una mosca, due proverbi gli si accesero nella mente, in sequenza: “Non avrebbe fatto del male neppure a una mosca” seguíto a ruota da un altro: “Raro come una mosca bianca”. Il primo adagio derivava dalla sua natura di uomo mite, che appunto, sebbene provasse avversione per le mosche, mai ne avrebbe ammazzata una. Il secondo gli si formò nella testa quando tentò di buttare fuori dall’ambiente l’insetto. Era riuscito a catturarlo con un trucco che faceva da bambino. Aveva messo coricato di traverso un bicchiere di plastica in dotazione all’ufficio. Gira gira, la mosca, sedotta dalla trasparenza della plastica, ci era finita dentro. Mauro aveva rigirato svelto il bicchiere e poi, tappandolo con la mano, aveva raggiunto la finestra che dava sui tetti per far uscire l’intrusa. Ma era stato proprio allora che si era reso conto di avere a che fare con un’intrusa di riguardo. Prese dal cassetto una scatolina di plexiglass, la svuotò dei fermagli e vi ospitò la mosca, badando a non farla scappare mentre la trasferiva dal bicchiere. Chiuse la scatolina, lasciando solo un piccolo spazio aperto per l’aria, la poggiò sulla scrivania e si diede a studiare la prigioniera. Ma sí, non c’era alcun dubbio. Si trattava proprio di una mosca bianca, anzi bianchissima, e non dava ripugnanza, al contrario delle ordinarie sue colleghe della specie, scure, unte e pelose, frenetiche sempre. No, quella dentro la scatolina si comportava con un tratto compassato, quasi regale. E non era per niente tetra, anzi. Era di un candore niveo, quasi che avesse preso il bianco da un petalo di margherita o di magnolia. Ma in piú, esaminandola, Mauro notò che le alucce dell’insetto avevano un che della lucentezza opalescente delle perle, e iridavano a seconda della luce che le colpiva.

 

«Capasso, il direttore aspetta il ruolo statistiche». La voce del collega Mensurati lo distolse un attimo dal gioco di osservazione dell’insetto. Il collega faceva capolino dalla porta socchiusa. Vedendolo assorto a studiare la scatoletta, si avvicinò incuriosito alla scrivania. Inquisí: «Ma che stai facendo, adori una scatoletta di plastica?». Poi ammiccò con un sorrisetto di superiorità: «Cos’è, un’altra delle tue bizzarre manie? Fa’ vedere!». Capasso era ritenuto un eccentrico, un sognatore, in un ufficio dove si parlava solo di numeri e soldi, e negli intervalli di donne e pallone. Lui faceva eccezione, e tutti lo sapevano. «Giusto a te poteva capitare» disse il collega scuotendo la testa, ma con una certa vena di malcelata invidia. In fondo, proprio quel Capasso doveva imbattersi in una tale rarità zoologica? Aggiunse: «Cosa conti di farci?».

 

«Mah, vedrò. Intanto la porto a casa. La faccio vedere a mio figlio Albertino. Ama tanto gli animali!».

 

Il collega scosse nuovamente la testa. Dovette pensare: tale padre tale figlio. Portarsi a casa una mosca! Ma dove aveva la testa, Capasso? Con un tono indispettito, intimò: «Comunque, non dimenticare che devi compilare il ruolo statistico delle polizze, il direttore lo sta aspettando per chiudere il mese». Abbozzò un sorrisetto al vetriolo e riprese: «Sai che potresti fare? La porti al dottor Santinelli, quella mosca! Magari gli farà piacere sapere che un insetto tanto raro ha scelto proprio la sua agenzia per mostrarsi!».

 

«Ma… io questa me la porto a casa!» ripeté Capasso, e solleticò la scatoletta, come se volesse toccare la mosca e in qualche modo accarezzarla. La mosca infatti sembrava aver capito il significato del ticchettio del dito di Capasso e si era immobilizzata nella scatoletta, quasi ne godesse. Mensurati esibí una smorfia di commiserazione e disgusto. La mosca si mosse, zampettò contro le pareti della scatoletta, e le alucce sprizzarono strani barbagli madreperlacei sotto la luce della lampada sulla scrivania.

 

«E tu questo mi porti dall’ufficio, una mosca?». La moglie di Capasso, Irma, non si mostrò per niente dolce e comprensiva, al contrario. La vista di quell’insetto, per quanto, a detta del marito, rarissimo, cosa che a lei, donna pratica, non interessava piú di tanto, la indispettí. Il figlio Albertino, di dieci anni, si interessò invece molto alla scatolina che il padre aveva deposto sul buffet in camera da pranzo.

 

«E no, lí non ce la voglio, quella cosa rara!» aveva inveito la moglie. «La puoi mettere nel ripostiglio, o nel bagno di servizio… Qui proprio non ce la voglio, quella mosca indecente!». Da un po’ di tempo la moglie era diventata insofferente di tutto quello che lui faceva e diceva, e sembrava provare soddisfazione solo nel contrastarlo.

 

Intervenne Albertino: «Papà, la posso tenere in camera mia!». Il piccolo aveva duellato per alcuni secondi con la madre in uno scambio di sguardi, e infine la donna aveva ceduto dopo una stoccata di occhi imploranti come solo i bambini determinati ad ottenere l’impossibile sanno mettere a segno. Il piccolo aveva quindi aggiunto: «Cosí, domani la porto in classe. Forse servirà a non farmi piú prendere in giro dai compagni…».

 

Professore scienze

Albertino era un po’ grassoccio, con gli occhiali e un temperamento timido e introverso. Il padre, che lo amava molto concesse: «Va bene, ma mi raccomando, la riporti dopo le lezioni!».

 

Fu cosí che l’affare della mosca bianca s’ingrossò. Il professore di scienze fece una dotta e interessante lezione in classe. I compagni si accalcarono intorno ad Albertino e alla sua rarità, cancellando con calorosi apprezzamenti anni di scherzi maligni e vessazioni. Lo stesso professore informò dell’eccezionale scoperta il cronista mondano del quotidiano cittadino di maggiore tiratura. Per una particolare coincidenza il giornalista curava una rubrica di gossip e stravaganze chiamata, guarda un po’, proprio “I mosconi”. La mosca bianca era capitata bene. Il giornale stampò una vignetta a colori facendo passare la notizia del ritrovamento della mosca bianca, una rarità biologica, tra le stranezze metropolitane. Si faceva riferimento a un fenomeno di deriva genetica, si tirava in ballo Moby Dick, lo Yeti e il Varano di Komodo.

 

Mauro Capasso si ritrovò invischiato nella melassa dello scoop, anzi, per citare Moby Dick, si trovò ad essere un povero Achab, trascinato dal mostro che aveva casualmente arpionato, nei gorghi infidi della cronaca scandalistica, avida di curiosità e forti sensazioni.

 

«Capasso, ma cosa mi combina?» lo apostrofò il direttore in tono severo. «Qui si parla della nostra agenzia» e indicò il giornale spiattellato sul ripiano della scrivania. «E non so quanto questo possa nuocerci».

 

Capasso alzò le spalle, replicando con un inedito tono deciso, atteggiamento di cui si meravigliò lui stesso: «La pubblicità, caro direttore, buona o brutta che sia, richiama l’attenzione del pubblico sulla nostra agenzia di assicurazioni, non le pare? Oggi si vive di richiami sensazionali, piuttosto che di nobili azioni, Quello che voglio dire è che, tutto sommato, potrebbe costituire una valida promozione, e per di piú gratuita».

 

Dopo un attimo di silenzio, il direttore ammise: «Uhm, forse ha ragione lei, Capasso. È pur sempre pubblicità, e a costo zero per giunta» e grattandosi il mento si alzò dalla sua poltrona, fece il giro della scrivania e andò a piazzarsi di fronte a Mauro. Chinandosi verso di lui, gli puntò addosso due occhi che, ricordando quanto aveva appreso in un master di strategie dirigenziali, cercò di venare di magnetica e volitiva persuasione, non priva di amichevole sollecitudine: «A proposito, Capasso» insinuò in tono di complicità. «Ci ha pensato ad assicurarla, la sua mosca?».

 

L’altro si agitò sulla sedia, preso da una subitanea euforia. Ma allora, il direttore era con lui! «Be’, non ci ho ancora pensato, che vuole, mi è capitato tutto cosí all’improvviso… Sí, in effetti una polizza…». Esitò, per poi seguitare: «Ma non le pare un po’ troppo, direttore? E a che servirebbe?».

 

«Eccome, se serve una polizza!» esclamò di getto il direttore. «Se le cose andranno come immagino, date anche le premesse di un tale interesse da parte di tutti, chi le dice che la mosca non le scappi, o che non gliela sequestrino. A quel punto, mi scusi il bisticcio verbale, lei rimarrebbe con un pugno di mosche!». Sottolineò quella che gli era sembrata una battuta geniale con un leggero sogghigno compiaciuto. Aggiunse poi serio: «Mi dia retta, Capasso, assicuri con noi la sua mosca…». Si fermò un attimo, di nuovo si lisciò il mento, segno di un’acuta e ponderata riflessione, e proseguí: «A proposito, le ha già dato un nome, alla sua mosca? Un nome connota, dà identità, fa uscire dall’anonimato. E la sua mosca è già celebre».

 

Capasso scrutava il viso del suo capo per capire se diceva sul serio o se scherzava. No, era serio, concluse dopo un rapido esame dei tratti somatici del direttore. «Un nome, dice? E come posso chiamarla? Una mosca in fondo è solo un insetto!».

 

«Mah, che so, potrebbe chiamarla Ernestina, Daisy, Sonia… Ho conosciuto una Sonia, tanti anni fa. Ora che ci penso, sfarfallava sulle cose del mondo come una mosca, e come una mosca a volte infastidiva…». Il direttore si perdeva dietro ai ricordi. Si riscosse per aggiungere, illuminato da una subitanea ispirazione: «Volatilla! Sí, potrebbe chiamarla cosí, Volatilla…», e con le dita descrisse uno sfarfallío nell’aria al di sopra della scrivania. I suoi occhi si erano dilatati per l’euforia, come se avesse pronunciato l’Eureka di Archimede.

 

Capasso lo assecondò: «Sí, mi piace. La chiamerò Volatilla».

 

Il direttore prese Mauro per il braccio e lo accompagnò alla porta. «Vada, Capasso» disse in tono cortese, amichevole quasi. «Vada, e mi raccomando: tenga alta e viva la reputazione della nostra compagnia assicurativa. Non dimentichi di citarla sempre a giornali, ai rotocalchi e alla Tv».

 

«Alla Tv?» reagí frastornato Capasso. « Come corre, direttore! Si tratta in definitiva solo di una mosca!».

 

«Vorrà dire Volatilla» lo corresse amabile il capo. «Adesso è diventata un personaggio, cioè lo diventerà presto, avrà di certo un suo carisma» il direttore era ormai all’enfasi. Riprese: «Sarà la prima e con molta probabilità l’unica mosca bianca dell’emisfero occidentale!»

 

«Perché, mi scusi, solo occidentale?».

 

«Ma perché stia sicuro, Capasso, che i cinesi se ne usciranno con una loro mosca bianca, magari faranno un incrocio, un ibrido. Sono capaci di tutto, loro, s’ingegnano…». S’interruppe per aprire la porta. Assunse un tono rassicurante: «Ma lei, Capasso, finché non ci sarà una Volatilla con gli occhi a mandorla, lei e la sua mosca sarete un raro fenomeno epocale!».

 

Aveva ragione, il direttore. Mauro e Volatilla vennero invitati al talkshow televisivo ”Domenica con voi”. La trasmissione televisiva diede inizio a una sconvolgente esistenza per Mauro Capasso, e di riflesso per la sua famiglia. Già durante il talkshow decine di telefonate, di e-mail e sms intasarono le linee, i canali, i telefonini. Tutti chiedevano di poter contattare, magari incontrare il fortunato possessore della mosca bianca Volatilla, rarissima, forse l’unico esemplare mai nato sulla Terra dal Fiat Lux iniziale.

 

La mosca Volatilla era stata collocata in una speciale bacheca a cristalli macro che la ingrandivano di ben cento volte. In tal modo gli spettatori erano in grado di vederla nei particolari. Un professore emerito, un entomologo per l’esattezza, in collegamento diretto via satellite da Tucson, in Arizona, aiutato da un interprete, descrisse tutta la vicenda biologica della mosca, ma ci tenne a dire che pur essendo lui un esperto di mosche varie, fino alla tze-tze e alla mosca dello zebú della Zambia, anche questa rarissima, ma doveva ammettere in tutta onestà di non aver mai neppure lontanamente ipotizzato che potesse esistere una mosca assolutamente priva di pigmenti cromatici come Volatilla. Pertanto, concludeva l’illustre entomologo americano, si poteva parlare di mosca, nel caso specifico, soltanto in via di assimilazione alle specie note alla scienza etologica, tuttavia col beneficio del dubbio. Il suo intervento, sebbene non chiarisse molto dell’argomento, anzi aggiungesse un altro enigma a quelli già riguardanti l’esistenza di Volatilla, pure valse allo show lo stigma della competenza e dell’autorevolezza accademica.

 

E fu anche dall’America che arrivarono le prime richieste di avere Capasso e la sua Volatilla per la partecipazione esclusiva a prestigiosi programmi di intrattenimento mediatico e ad eventi scientifici come congressi e meeting. Qualcuno parlò persino di inviti e incontri riservati, accennando alla Casa Bianca.

 

C’era di tutto in quegli incontri socio-mondani ai quali Capasso ovviamente decise di partecipare: possessori di manguste di Jackson, formiche giganti, serpenti volanti, pesci scorpione, piranha addomesticati, tartarughe assassine, gamberi killer e aragoste albine. Insomma, in tutto il mondo esistevano circoli, sodalizi e associazioni di persone che possedevano prototipi di mammiferi, pesci, insetti e rettili unici al mondo, vere rarità biologiche. E si scrivevano, si scambiavano missive postali e via e-mail, chattavano, si telefonavano. E almeno un paio di volte l’anno dovevano partecipare a un convegno dove, tra brindisi e discorsi, gareggiavano a chi possedesse l’esemplare piú raro in assoluto. E non si trattava soltanto di esibizionismo fine a se stesso. C’erano premi sostanziosi, articoli sui quotidiani di grande tiratura, nelle riviste scientifiche, e le spese di viaggio e di soggiorno in grandi alberghi a carico degli organizzatori.

 

Hotel lussuoso

Capasso cominciò a ricevere inviti da lussuosi complessi alberghieri europei e dei vari continenti, tutto spesato, con cachet persino, e non solo per sé ma anche per i familiari. Tutto quello che gli si chiedeva era di portare con sé la mosca bianca.

 

E cominciarono ad arrivare doni dalle persone piú disparate: un maharaja indiano inviò una spilla a forma di mosca d’oro bianco con il corpo formato da un prezioso diamante, un ranchero argentino degli speroni in argento, un ballerino russo il corpetto indossato quando si era esibito al cospetto della regina Elisabetta in una memorabile interpretazione del Don Chisciotte. Da ogni latitudine venivano segnali di sincero interesse, di vero entusiasmo per Volatilla.

 

Fu cosí che Mauro Capasso divenne un vero globetrotter, e con lui Volatilla, alloggiata in una speciale valigetta trasparente a temperatura costante. In essa erano state installate alcune comodità, come un cuscino di raso azzurro, colore preferito dall’illustre ospite. E poi una vaschetta riempita costantemente di miele attraverso un meccanismo elettronico, e un vaporizzatore di acqua di Evian perché le ali al chiuso tendevano a seccarsi. I due inseparabili si videro a Shangai, a Tokyo, a Auckland, a Lima e in Alaska. Poi a Mosca, a Oslo e a Reykjavik, alle Hawaii. Insomma, da un capo all’altro del pianeta. Era stato appositamente creato un sito nel Web per dare le coordinate della sua presenza. Bastava entrare in rete, cliccare Volatilla, e subito si configurava l’homepage che informava dove si trovavano Mauro Capasso e la sua preziosissima partner.

 

Nascevano intanto i gadget di Volatilla: spille, adesivi, T-shirt, sneaker, orologi. E il conto in banca di Mauro Capasso s’impinguava sempre piú. Qualcuno propose una serie televisiva, altri una soap opera, un film.

 

Stanza con computerLa moglie, prima scontrosa, era diventata uno zucchero quando il marito tornava a casa tra un viaggio e l’altro. E Albertino, ormai centro dell’at­tenzione di tutti i compagni di scuola, aveva sempre la casa piena di amici, anche perché la sua stanza, data la nuova disponibilità economica della famiglia, era dotata di computer a piú schermi, tastiere, stereo e Tv al plasma: sembrava la cabina di comando dell’Enterprise.

 

Fu coinvolta persino la politica: c’è sempre qualcuno che cavalca l’onda lunga dell’evento, del fenomeno umano e sociale raro ed eccezionale per farne un partito, una lobby, un clan, un circolo.

 

Nacque una catena di fast food ed empori di moda. “Alla mosca bianca”: locali con questo nome aprirono al pubblico un po’ ovunque, anche in Paesi co­me la Scozia, la Finlandia e la Groenlandia, dove con le mosche la gente ha nella norma poca dimestichezza.

 

E la foto di Mauro Capasso cominciò a circolare e venire affissa nei luoghi piú disparati, dalle sale scommesse alle officine meccaniche, un po’ come quelle di Marilyn, Putin e Obama. Insomma, un mito. E Volatilla divenne una hit, un’opera musicale, un DVD. Il Mostro di Loch Ness dovette cederle il posto nelle classifiche dei fenomeni mediatici piú rappresentati, riuscendo a tenersi alla pari solo nei pub e negozi di souvenir di Inverness. L’immagine di Volatilla appariva in cartoline, sui poster e su tavolette incise o dipinte. Si arrivò ad abbinarla in forma di paredro a personaggi e animali tipici e mitici come Shrek, il Leone di Narnia, Dragon Ball e Heidi. Riproduzioni di Volatilla vennero ovviamente eseguite a Taiwan e in Cina, mentre un artigiano lettone brevettò una palla di vetro con effetto nevicata con la quale si arricchí. La sua trovata fu che al posto delle neve sui paesaggi riprodotti, e che i clienti sceglievano a piacere ‒ ad esempio, a Roma San Pietro o il Colosseo, a Parigi la Torre Eiffel, a Londra il Big Ben e cosí via ‒ quel fantasioso artigiano lettone faceva cadere dei fiocchi di tante minuscole, opalescenti moschine, che dopo essersi agitate nel sottovuoto della sfera si posavano sul fondo della scena.

 

Ma un giorno che Mauro Capasso e il figlio stavano pulendo la bacheca di Volatilla, non si sa come, un attimo di distrazione, l’insetto volò fuori. Troppo tardi il padre gridò al figlio: «Svelto, chiudi la finestra!». Il ragazzo si precipitò, ma il suo slancio fu inutile. In uno sfolgorio iridescente, quasi in un ultimo saluto, Volatilla uscí all’aria aperta. Fece qualche giro, e con quel suo ritrovato volo libero prima di allontanarsi sembrò dire: «Ora è tutto a posto, il mio compito è terminato!».

 

Fulvio Di Lieto