Io adoro fare regali. La nostra società e le nostre convenzioni hanno ‒ secondo me ‒ ancora una volta sfalsato certi sentimenti. A mio modo di “sentire” regalare qualcosa significa: questa cosa mi ha fatto pensare a te, forse può recarti una gioia o un piacere e dirti anche il mio affetto e la mia amicizia. Secondo gli psicologi significa “legare” l’altro obbligandolo a ricordarti e ad esserti riconoscente. Il che può certo essere vero in certe circostanze e per certe persone. Ho sposato un uomo che ignora totalmente anniversari, compleanni, ricorrenze, e si mostra imbarazzato e stenta a ringraziare se riceve qualcosa da me o da qualcun altro, soprattutto senza un motivo apparente… Questo suo atteggiamento mi ha fatto sempre restare un po’ male, dunque c’è qualcosa in me che non va. Mi chiedo: serve forse a spingermi a smettere di fare regali? Grazie per il vostro prezioso lavoro e i vostri utilissimi suggerimenti sempre ricchi di amore e buon senso.
A. L.
Fare doni può essere una gioia per chi è generoso, e un tormento per chi ha difficoltà a elargire. Questo non solo in senso economico, ma anche nel senso di “spendere se stessi”. Quando si sceglie un dono, “ci si spende”, si pensa cioè con attenzione alla persona che dovrà riceverlo, si cerca di incontrare il suo gusto, il suo gradimento. È un esercizio di altruismo che fa bene all’anima. Per questo si dice che c’è una maggiore soddisfazione nel fare un dono che nel riceverlo. Dobbiamo allenarci anche alla gratitudine nell’accettare un regalo. Non per il suo valore economico o per la sua bellezza estetica, ma per ciò che rappresenta, per il pensiero che c’è dietro. Quanto al “legare” l’altro, ben vengano questi legami di affetto. Altri sono i vincoli che disturbano, bloccano, costringono. E dunque, non è il caso di smettere di esercitare questa generosità, ma piuttosto aiutare il consorte a correggere il proprio atteggiamento “distratto”, magari suggerendo, già dai giorni precedenti, che una ricorrenza è in arrivo…
Da qualche mese alcuni amici mi hanno parlato di una certa meditazione dinamica. Ho letto le esperienze di queste persone e anche loro hanno visioni, e il contenuto di queste visioni è vario. Persino lo stato di coscienza dell’Io sembra lo stesso. Mi chiedo dove sia la differenza tra la Via Solare e queste esperienze. Di fatto, anche loro, concentrandosi su un tema, si ritrovano in visione a fare delle cose e contemplare immagini. Purtroppo io ho bisogno di capire le cose, evitando ostinazione e impazienza, ma di capire e trovarmi a vedere che le esperienze immaginative mie sono assimilabili a quelle di gruppi pseudo-mistici che mescolano tecniche come in un minestrone, mi confonde. Qualitativamente non c’è elemento distintivo. Forse questo primo gradino di visioni dall’apparenza sensibile è comune a tutti e solo la via Solare porta oltre mentre gli altri si arenano? Non so se ho spiegato bene la domanda. Si tratta, in ultima analisi, di capire la specificità della meditazione rosicruciana rispetto alle altre.
E. T.
La via rosicruciana ha in effetti una sua specificità, che si mostra nel tempo. Spesso chi intraprende una via pseudomistica o di tipo orientale, ha esperienze, visioni, che però non controlla ma subisce: si incammina per le vie dell’astrale senza possedere la necessaria bussola. Per muoversi in quegli ardui percorsi occorre uno strumento asciutto, non morbido o liquido. Con il tempo (e neanche troppo) si può notare la differenza fra chi si orienta con saggezza, sicurezza e pulizia interiore nella Via della conoscenza, e chi ondeggia, annaspa e diviene succube delle visioni di cui si nutre senza avere la capacità di metabolizzarle.
Si parla spesso del distinguo tra l’immaginare la viva realtà del pensiero e il farne reale esperienza. Giovanni Gentile, ad esempio, aveva presagito questa realtà ma non ne aveva avuto l’esperienza diretta. Cosa accade ‒ o dovrebbe accadere ‒ di significativo per far intendere ad un soggetto di essere entrato nella viva realtà e di non immaginarla?
N. G.
Il momento in cui accade, si sa. Non c’è da spiegare: è un’esperienza che non può essere negata o messa in dubbio, perché è una realtà.
Scrive Steiner in Natura e scopi della massoneria: «Attraverso il Tau viene espressa una forza che potrà venir suscitata solo dalla potenza dell’amore disinteressato; potrà essere utilizzata per azionare macchine che rimarranno però ferme se usate da persone egoiste. Forse a qualcuno è noto che Keely costruì un motore funzionante solo in sua presenza. Egli non imbrogliava assolutamente il pubblico; in lui stesso infatti stava la forza motrice, scaturita dall’anima, che può mettere in movimento ciò che è meccanico. Una forza motrice che può essere solo morale, questa è l’idea del futuro; la forza piú importante che va immessa nella civiltà perché questa non vada verso la propria distruzione. La sfera meccanica e quella morale si compenetreranno, perché in avvenire la prima non sarà nulla senza la seconda. Noi oggi stiamo sfiorando questo confine. In futuro le macchine non saranno azionate solo dall’acqua e dal vapore, ma da una forza spirituale, da una moralità spirituale. Questa forza viene simboleggiata dal segno del Tau, e in modo poetico vi accenna anche l’immagine del Santo Graal». Vorrei sapere qualcosa riguardo a questo Tau di cui parla Steiner.
O. N.
Il Tau è il simbolo della vita, ma non della vita ricevuta dalla generazione, bensì della vita suscitata dall’autocoscienza. Come esiste il “pensiero vivente”, o pensiero libero dai sensi, cosí esiste la “vita vivente”, attivata da chi non si lascia semplicemente vivere ma afferra la vita, la comprende e arriva a poterla donare. Quando il pensiero non è più ingabbiato nel cervello fisico, giunge a comprendere la base stessa della vita. Allora la sede dell’intelletto diviene il cuore. L’intelletto del cuore possiede la vita: può suscitarla e persino ri-suscitarla. Di questo è simbolo il Tau.
Sono dell’avviso che Umberto Eco sia stato riduttivo affermando che gli imbecilli scrivono in rete, infatti, a mio avviso, lo fanno ovunque. Internet ha offerto un’opportunità in piú arrivando ad una fascia di “scrittori” che diversamente non avrebbe potuto rendere pubbliche le proprie opinioni, ma limitati in consessi ristretti. Avrei condiviso maggiormente Eco se avesse affermato, a mo’ di Pazzaglia, che il livello culturale è basso ed inversamente proporzionale all’arroganza e solipsismo degli scriventi. Fa male capacitarsi dell’infimo livello culturale che riflette quello spirituale dei propri simili. Tanto vi dovevo, cordialità.
Giorgio Andretta
Sappiamo che alla cultura accademica oggi è possibile accedere se si è dotati di capacità intellettive, di forza di volontà e, dato non trascurabile, di risorse economiche della famiglia. Una volta però raggiunto un alto livello di conoscenze, questo dovrebbe essere messo al servizio degli altri, del resto della società. Si coglie invece, il piú delle volte, una sfrontatezza, uno sfoggio del proprio sapere, tendente a umiliare e nullificare chi quel livello non ha saputo o potuto raggiungere. E non è detto che non ci siano personaggi di grande valore anche fra chi non ha avuto le stesse opportunità sociali o familiari: “il vento soffia dove vuole”. È vero, c’è ancora tanta ignoranza in giro, in Internet e altrove, ma c’è soprattutto una ignoranza del cuore, che supera di gran lunga quella culturale!