Come era nel suo stile, Roberta gli aveva dato appuntamento a Villa Borghese, presso la statua del poeta Byron. Un semplice tavolo a un bar del centro o magari in un fast food del suo quartiere non le andava bene. Erano soluzioni troppo normali, anzi banali. Con lei, aveva concluso Claudio, tutto diventava speciale, tutto doveva suonare alternativo, unico. Il loro rapporto era un frustrante lascia e piglia, un continuo, cerebrale, nevrotico rimuginare e rimestare sui minimi reconditi significati di un gesto, di una parola sfuggita in un momento di mancanza di presenza di spirito.
«Ti devo parlare di una cosa molto importante» gli aveva detto lei con voce melodrammatica al telefono.
E quindi se la faccenda era drammatica, quale setting migliore del monumento al funereo quanto teatrale, disgraziato autore del Pellegrinaggio del giovane Aroldo, il tenebroso e febbrile poeta albionico, che, cosí ne riferiva l’aneddotica, durante un suo soggiorno a Roma, al Colle Oppio, in un impeto di romantica collera animalista aveva prima redarguito e poi era venuto alla mani con un vetturino che stava maltrattando il cavallo della sua botticella. Byron sarebbe piaciuto a Roberta: fumantino, eroico.
Nei tre anni dall’inizio del loro rapporto, Claudio aveva vissuto al cardiopalma. Roberta era una vera scatola a sorpresa, imprevedibile, umorale, scandalistica, cerebrale fino alla nevrosi. Mai che raccontasse una barzelletta o notasse un aspetto comico, esilarante della realtà. Coglieva soltanto gli spunti che potessero alimentare il suo innato, insopprimibile e invincibile bisogno di polemizzare, sottilizzare. Era, insomma, una spina nel fianco, una guastafeste, capace di rendere increscioso un evento banale e trasformare un party in un dramma.
La vide arrivare da Porta Pinciana col suo abituale passo falcato, la mantella peruviana, la borsa di pelle della Tolfa, i capelli sciolti che la sua mano nervosa a tratti respingeva all’indietro, oltre la spalla, mentre la testa produceva quella mossa altezzosa che lui ben conosceva, ma che sarebbe potuta apparire come il tic altero di una principessa in esilio, costretta a sostare in una locanda di fortuna. Pareva che tutto il mondo si fosse coalizzato contro di lei, per farle chissà quale torto. Claudio, vedendola imboccare aggressiva e determinata il viale che dal Largo Brasile portava al monumento a Byron, si chiese ancora che senso avesse quello strano appuntamento, e cosa potesse venirgliene di sgradevole.
Soffiava un vento fortissimo e i pini alti oscillavano paurosamente nell’oscurità rotta in penombra nei punti dove i fanali delle auto e i riverberi dell’illuminazione soft dei lampioni di Via Veneto riuscivano ad arrivare. Tempesta di vento tra i rami dei pini e buriana Roberta concomitanti.
«Claudio caro» esordí la ragazza, aggiustandosi la tracolla della borsa. «Credo che il nostro rapporto sia andato troppo oltre. Ha perduto mordente. Ti sei adagiato nel tran tran. Non sai darmi piú niente. Non ho ragione, forse? E non cercare scappatoie, non dribblare la questione, affronta la realtà!».
La metafora calcistica di lei, lo colpí. Quel verbo, dribblare, dove mai lo aveva scovato? Non era nel suo vocabolario. La guardò, quindi, con un certo stupore, ma lei non dovette notarlo.
Poiché lui esitava, lei lo incalzò: «Non sai cosa dire? Come al solito ti ritrai nel tuo carapace!».
L’allegoria della tartaruga lo fece sorridere. Byron sembrava sporgersi dal piedistallo per meglio ascoltare i non sense di una coppia di innamorati impegnati a dirsele di santa ragione, anche se poi era la ragazza a tenere il campo e la scena.
Lui, però, a quel punto non poteva tergiversare: «Scusa, mi hai fatto venire qui per chiedermi che cosa sono capace di darti? È assurdo. Con questo vento, poi!».
Ma lei insisteva: «Ecco di nuovo il tuo svicolare. Non hai attenuanti!».
In quel momento lui ricordò quando sulla spiaggia di Castelfusano avevano aspettato il raggio verde, che era baluginato per un millesimo di secondo: un blitz del mistero. E poi, il picnic allo Zodiaco, sul prato dietro le casematte del vecchio forte militare, dove anni prima erano stati avvistati i dischi volanti degli extraterrestri…
«È un posto carico di energie cosmiche!» aveva sussurrato lei, le braccia intorno alle ginocchia, tra i resti del pranzo al sacco. Il suo sguardo, quasi estatico, aveva messo a fuoco le cupole dell’Osservatorio, lo aveva sfiorato per smarrirsi nel cielo color blu di Sèvres. Come poteva lei non ricordare quei momenti magici? Perché adesso annullava il buono e il bello che c’era stato tra loro?
Tentò una sortita disperata dallo sbreccato castello del suo amor proprio. «Senti, Roberta…» azzardò, ma ormai lei era partita in quarta e non si fermava. Inutile provarci. Perciò, Claudio rientrò nella precaria fortezza delle sue rinunce.
«Tu devi capirmi – diceva, anzi berciava, la ragazza, agitando la testa – un rapporto tra due persone civili deve avvenire su una base di scambi costruttivi, per affinità elettive, senza pause né dubbi. E noi invece…».
Invece cosa? si diceva lui, non seguendola piú, la mente perduta dietro idee semplici riguardanti il rapporto tra due ragazzi che non hanno, o non dovrebbero avere, complicazioni speculative, e vivere un’amicizia giocosa, non un rebus esistenziale. Roberta stava mettendo il loro amore sul tavolo di anatomia per dissezionarlo, e lo faceva sotto gli occhi di Byron, che li osservava con il suo cipiglio di eroe inquieto, errabondo, insoddisfatto. Forse, inconsciamente, Roberta aveva scelto quel luogo per incontrarsi perché era sotto la tutela del poeta senza pace, l’eterno vagante, con i suoi rovelli amletici: amare, non amare, stare, partire.
Lei infatti insisteva, seguitava: «E noi invece, che abbiamo fatto? Abbiamo sostituito le scarpe da footing con le pantofole!».
Ma quali pantofole! Con lei non c’era mai stato mai un attimo di tranquillità: sempre in giro per musei, sit in, cortei, trekking, in una frenesia motoria coartante. La voce di lei anche adesso straripava, incalzava, lo stordiva, ma lui sentiva di amarla anche in quel momento di sfogo, e avrebbe voluto calmarla, stringerla a sé. Alzò gli occhi, e in una forcella di rami vide i resti di un palloncino. Sfuggito dalle mani del bambino che lo aveva posseduto, se n’era andato libero per il cielo di Roma, sfiorando prima gli alberi, la statua di Goethe, il Galoppatoio, e poi, portato dal ponente verso il monumento a Byron, era precipitato per la perdita dell’elio, restando penzolante. In quel palloncino Claudio vide l’allegoria del suo rapporto con Roberta: prima l’euforia di un volo effervescente, sciolto, sbarazzino, poi lo svuotamento dell’entusiasmo, e il gas che se ne andava con sbuffi e scarti per afflosciarsi definitivamente.
E ora lei stava pronunciando il referto autoptico, la sentenza del suo personale, insindacabile tribunale: «E cosí, meglio che ognuno vada per la sua strada, e amici come prima!». Si girò di scatto, la borsa della Tolfa si distaccò dal suo corpo per un attimo, poi ritornò al contatto con i fianchi, che lui aveva accarezzato. Il passo arrogante, deciso la stava portando via da lui per sempre. Non ci sarebbe mai stata un’altra chance. Nessuno avrebbe rigonfiato quel palloncino impigliato floscio tra i rami del grande pino.
Fu nel preciso istante in cui Claudio volgeva lo sguardo in su per osservare la striscia di plastica abbandonata sulla scorza rugosa dell’albero, che avvertí, dopo uno scrollo piú violento dei rami alti, un sibilo, un colpo attutito, un tonfo. La sagoma di Roberta si era accasciata e giaceva in terra, nell’erba umida. Non aveva gridato, ma nel momento che cadeva a lui era parso di udire un gemito e un prolungato sospiro.
Corse e infilò la mano sotto la nuca della ragazza distesa inerte sul prato. Qualcosa di caldo gli stava bagnando le dita. Le annusò d’istinto e capí che era sangue. Cosa era successo? Senza riflettere, cercò sul terreno intorno alla testa di Roberta, e dopo qualche attimo trovò la pigna, rotolata lí vicino. Era grossa e soda, di quelle che sono cariche di pinoli. Dall’altezza da cui era precipitata era un’arma micidiale. Udí un gemito venire dalla bocca di lei e capí che la faccenda era seria. Fu preso dal panico. Lasciò cadere la pigna e agitando le braccia come un forsennato richiamò le persone che transitavano in direzione di Via Veneto. Gridava: «Aiuto! C’è una ragazza ferita». Cercò il telefono cellulare e chiamò i soccorsi. Intanto, due vigili che controllavano il traffico di Porta Pinciana si avvicinarono velocemente e cercarono di calmarlo.
Altra gente, allertata dalla scena, si era mossa dirigendosi verso il monumento di Byron. Il volto di Roberta era segnato da un arabesco di sangue vivo. L’ambulanza arrivò dopo una decina di minuti. Il corpo della ragazza venne raccolto dall’erba, messo sulla lettiga e infilato nel furgone, che ripartí con la sirena a tutto volume.
Uno dei vigili disse: «La portano al pronto soccorso del Policlinico. Lei però deve dirci cosa è accaduto. Dobbiamo fare il verbale. Poi potrà andare a vedere come sta la sua amica». Lo scrutò sospettoso: «Amica, vero?». La gente aveva fatto capannello, e molti lo guardavano con aria di rimprovero.
Dopo il verbale, Claudio riprese il motorino e partí, con l’angoscia che si era ormai sposata con il rimorso. Quando arrivò al Policlinico è, capí che anche la paura si era aggregata all’infausta coppia, facendo un triangolo terribile che gli attanagliava le viscere.
Nell’astanteria c’era un freddo accentuato dall’aspetto scarno e mortuario del decoro. Mattonelle bianche ai muri, pavimento peperinato grigio, lampade al neon, medici in camice non proprio candido, occhi opachi e barba incolta.
«Cos’è successo?» domandò uno di loro mentre manovrava per azionare l’apparecchio delle radiografie. Roberta giaceva seminuda sul lettino dotato di sbarre ai lati e di una coperta di tipo militare. Aveva ancora gli occhi chiusi. Il viso però era stato ripulito dal sangue e la pelle era rosea, distesa. Pareva persino che sorridesse.
«Be’, sembrerà assurdo – spiegò Claudio al medico – ma si è trattato di un incidente. Una pigna, sa il vento forte, l’altezza dell’albero…» accompagnava le parole rimediate con impaccio dei gesti. Non convinceva.
«Una pigna?» fece infatti scettico il dottore. Poi, guardandolo sospettoso proseguì: «Un bolide deve essere stato! Per poco non le sfondava il cranio. Ma quanto pesava?».
E che ne sapeva lui del peso e di tutta quella assurda faccenda! Si disse che ancora una volta era nello stile di Roberta: sorprendere sempre.
Poco dopo entrò un poliziotto della guardia medica notturna. Rivolgendosi a Claudio chiese, con fare spiccio: «Allora, mi racconta com’è andata?».
Dal tono inquisitorio dell’uomo in divisa, il giovane capí di essere già in odore di colpevolezza. Allo stesso modo del dottore del pronto intervento, il poliziotto ebbe una specie di sorriso truce a sentire la storia della pigna. «Questa non l’avevo ancora mai sentita» reagí con sarcasmo. «Per giustificare i segni delle botte, in genere scivolano su bucce di banana, inciampano nei sampietrini sconnessi, o urtano il parabrezza per una frenata brusca. Ma una pigna!». Esibí un ghigno irridente. Poi aggiunse: «È una storia che non regge, egregio signore. La ripeterà al comando di zona. Venga!».
Mentre lasciavano la sala dell’astanteria, Roberta aprí gli occhi e vide che stavano portando via Claudio. Mormorò al medico: «Cosa gli faranno?».
«Quello che si merita!» reagí in tono asciutto il dottore.
E lei, Roberta, con un filo di voce: «Perché, cosa ha fatto?».
«Se non lo sa lei!» fu la secca risposta.
E lei, sollevandosi a mezzo della lettiga: «Ma io non lo so… non capisco!».
Un’infermiera accorse a un segno del medico e la spinse giú con una certa energia. «Stia calma!» le ordinò la donna. Poi in tono solidale: «Il suo amichetto le ha dato una bella botta in testa. Ne avrà per un paio di settimane. E lui meriterebbe l’ergastolo!».
Roberta reagí: «Ma non è possibile… Lui non farebbe mai una cosa simile!».
«Già, questo è il guaio di noi donne. Ci fidiamo troppo» fu la reazione scettica dell’infermiera.
«Lei ha preso una bella botta in testa, signorina» intervenne il medico. «Le servirà d’esperienza».
Roberta meccanicamente tastò le bende che le ingombravano il capo. «Ahi, che male!» si lamentò, ritraendo la mano.
«Ha visto? Il suo amichetto ha piú forza nel braccio che nel cervello» disse ammiccando con soddisfazione l’infermiera. Fece una pausa, poi seguitò, sospirosa: «Quanto al cuore, poi, chissà…» e continuò a berciare, sentenziosa, mentre spingeva il lettino con sopra Roberta verso la corsia. «Ma non li legge i giornali, lei?» diceva sporgendosi sulla testa della ragazza semiaddormentata. «La Tv, non la guarda? Lei è una bella ragazza, e il mondo ormai è pieno di maniaci di ogni genere. Oggi ci sono gli stalker, gli stupratori seriali. Sapesse quante ne vediamo qui, specie la notte. Sa cosa le consiglio? Quando si sarà ripresa, lo lasci, quello lí, e vada in palestra, segua un corso di arti marziali. Cosí, se un maniaco ci prova…».
Claudio venne trattenuto in guardina, in attesa della decisione del giudice. Ma un agente piú coscienzioso, o desideroso di fare carriera, si recò la mattina dopo al monumento di Byron per cercare il corpo contundente con il quale il ragazzo era sospettato di aver colpito la vittima. E trovò la pigna: era imbrattata di sangue rappreso e tratteneva ancora minime tracce del cuoio capelluto e capelli aggrumati. Il reperto serví a scagionare Claudio, anche perché la ragazza non aveva sporto denuncia.
Una settimana dopo, lei appena incerottata alla testa, lui protettivo e felice, erano a spasso per via dei Fori Imperiali. Presso la statua di Cesare un concertino di strada, formato da nomadi slavi, stava suonando motivi romantici, come non se ne sentono ormai piú. Claudio chiese al capo del complessino di suonare Amapola. Era il motivo che a sua madre piaceva di piú. Una ragazza, forse americana, si staccò dal suo compagno alto e lentigginoso e depose un mazzetto di fiori ai piedi del primo imperatore di Roma. Calvo, corroso dall’ossidazione che non risparmiava la nobile positura, le spalle al Foro a lui dedicato, Caio Giulio ancora rimediava omaggi da parte delle donne e malcelata invidia da quella degli uomini.
Roberta si tastò meccanicamente la leggera fasciatura sul capo. Si scambiarono uno sguardo allusivo, pensarono al sangue di Cesare, al suo morire silenzioso, colpito, tra le altre che infierivano con i pugnali, dalla persona che piú amava. Cosí è l’amore: quando non può avere l’oggetto amato, lo uccide. Roberta pensò alle parole dell’infermiera, ma non volle tenerne conto, perché, pensava, l’amore è anche coraggio, la forma piú estrema di coraggio, e la donna per averlo paga ogni prezzo, mette a rischio tutto quello che ha, la vita compresa.
Claudio la guardava, e pensava che avrebbe dovuto accettarla cosí com’era, perché anche i suoi difetti facevano parte del suo corredo attrattivo, erano i doni del femminino, i segreti magici di cui la donna, ogni donna è celebrante e vestale.
Si levò un leggero vento che scompigliò i capelli della ragazza che aveva deposto il suo pegno d’amore per un uomo che aveva anche lui amato senza mai risparmiarsi, rischiando il potere. Il concertino aveva finito la canzone. Claudio mise nella custodia di violino davanti ai suonatori il suo obolo. In quel momento, il vento rinforzò. Un palloncino viola, sfuggito a un bambino, si alzò per aria, sfiorò il tronco di un grosso pino, s’infilò tra i rami, ne superò l’intrico perdendosi nel cielo blu di Sèvres. Fu un lampo: Claudio si lanciò verso Roberta, la trasse via dal marciapiede, lei interdetta e un po’ anche spaventata, cosí come altri passanti.
«Che ti prende?» chiese lei dopo un attimo di sconcerto, abbozzando poi un sorriso tirato.
«Nulla!» rispose lui, imbarazzato, allargando le braccia. «È che ce l’ho con i pini. E soprattutto con le pigne!» Indicò la chioma folta di quello che gli aveva fatto temere la replica dell’incidente di Villa Borghese. Ma Cesare, pensò poi, non gli avrebbe giocato il tiro birbone di Byron. E se invece, concluse mentre prendeva per mano Roberta e si avviavano leggeri ed euforici verso il Colosseo, se invece il poeta inglese avesse dato una mano, in quella strana vicenda, per farli ritrovare? Usando magari una pigna? Perché no!
Fulvio Di Lieto