Sei come il capodoglio di Melville:
questo tempo d’autunno ti ritrova
a battere distese d’acque plumbee
per trovare un rifugio e lí contare
dalle ferite i giorni che ti restano,
da cicatrici quelli che hai vissuto.
La stagione declina, il mare ingrossa,
dall’Artico, nel vento, i primi freddi.
Tutto congiura a rendere piú arduo
domare l’onda, sopportare il peso
di raffi, arpioni, fiocine spezzate.
Li porti conficcati nella carne,
segni di epiche lotte, leviatano
sopravvissuto a mitiche Lemurie.
Le tue lesioni dolgono a ogni scatto
nella corrente che ti avvolge e porta,
randagio, solitario, per gli oceani,
di cui le vastità ora confondono
le tue coordinate, le misure
della saggezza che ti viene, ignota,
da un astrolabio misterioso: il cielo,
che sia Croce del Sud o Grande Orsa.
Ogni piaga è una bocca che sussurra
preghiere al dio che muove le maree,
impassibile, assente deità
dal patire del mondo in divenire.
Ma certe aurore cremisi, i tramonti
accesi in roghi e lampi, certe ore
d’alti meriggi fusi nel crogiolo
di un sole senza ombre, certe notti
con stelle che discendono a cullarti
mollemente nel crine dei sargassi,
negli umori salmastri d’ambre e spezie!…
Speri forse che quella piena luce,
quei prodigi di spazi sconfinati
e raggi verdi agli orizzonti, e aromi
d’isole tropicali ti confortino
il giorno quando un colpo fortunoso
di un folle Acab ti strapperà dal corpo
l’anima battagliera. E tu sarai
libero come un albatro o gabbiano,
un lieve, iridescente Quetzalcoatl.
Fulvio Di Lieto