Ho scritto di recente alcune riflessioni riguardanti la figura di Rudolf Steiner, come sia stata decisamente trascurata e tenuta in disparte rispetto a quelli che sono considerati gli epigoni ufficiali nella nomenclatura culturale dei nostri tempi. Un pensatore della portata di Steiner, versato in tutti i campi del sapere con una mole notevolissima di opere, scritti e conferenze tenute per tutta Europa tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo, non poteva passare inosservato; cosí come non poteva passare inosservata l’elevatezza, la precisione e la carica potentemente innovativa di ciò che in essi era contenuto. Ma di fatto, a parte i seguaci dell’Antroposofia e un certo numero di “simpatizzanti”, geograficamente sparsi un po’ ovunque, al momento presente le cose stanno cosí.
Sembra quasi che il nucleo del suo pensiero sia stato ignorato e le sue tracce siano state cancellate con cura. Fa eccezione una impostazione pedagogica, costituente nello specifico settore una nicchia d’eccellenza, la quale sopravvive grazie ad un ristretto volontariato solerte e meritevole.
Nell’esposizione dei motivi da me portati, ho avuto l’idea – forse non del tutto felice – di chiamare in causa nientemeno che Albert Einstein, dando, in prima battuta, la sensazione che fosse mio disegno paragonare i due, mettendo a confronto la loro rilevanza di scopritori: nella dimensione sovrasensibile il primo, nel campo della fisica teorica il secondo.
Se questo è accaduto, mi rendo conto di non essermi spiegato a dovere, e quindi tento ora di porre rimedio, augurandomi di riuscirci e di non lasciare ulteriori coni d’ombra sul percorso.
La constatazione che volevo esporre, sia pure per grandi linee, era questa: è incredibile – sostenevo e sostengo tuttora – privo di logica e di buon senso, che tutto il mondo sappia parecchie cose su Einstein e conosca invece poco o niente di Rudolf Steiner. Si può comprendere come uno scienziato, concepita un’idea fortemente innovativa, vada ad allargare a dismisura, per non dire a ribaltare, le concezioni pregresse sull’arduo tema di spazio, tempo, struttura planetaria e dell’universo. Ma non è certo Albert Einstein il primo a farlo. Anche Tolomeo, Copernico, Galilei e Newton “ribaltarono” il mondo e in seguito ne vennero “ribaltati”; non si dà garanzia alcuna che pure la Teoria della Relatività Generale non segua la stessa sorte, e non venga un giorno rovesciata come un guanto da qualche altro scopritore, luminoso di luce propria, o resosi tale con il concorso di lucine altrui. Dal momento che, a volte, accade anche questo; nulla di grave, basta saperlo.
Piú difficile invece è vedere nelle scoperte che hanno cambiato volto alla realtà, la presenza dell’idea che vi sta dietro (e sopra), e opera nell’intuitore, con, o anche senza, la chiara consapevolezza di questo.
Prendiamo un bravo fotografo (ce ne sono di quelli che veramente sanno fare delle meraviglie con la loro attrezzatura); poi prendiamo un pittore esperto e capace di tele mirabolanti; e infine consideriamo un poeta, o un pensatore di quelli illuminati, dotato dell’arte della parola, che in poche righe sa provocare immagini e sensazioni toccanti. Confrontare tra loro i prodotti delle tre specialità tecnico-artistiche sembrerebbe un’assurdità; ma se ci riflettiamo sopra, vediamo come il primo esprima un’esperienza in cui il fattore materiale gioca un ruolo predominante, non fosse altro che per i mezzi elettronico-meccanici di cui si avvale; il secondo, il pittore, dia all’opera un’impronta caratteristica, commisurata alla sua interiorità, e quindi l’elemento animico spicchi e risuoni nelle forme e nei colori; per ultimo il p.p.p. (poeta-pensatore-philosophus), nel quale la vis artistica si offre con un’immediatezza unica: non ci sono mezzi di riproduzione, marchingegni o altro; non ci sono colori, pennelli, tavolozze, cavalletti ecc.; tutto avviene tra mente, cuore, laringe e parola. Quanto ne fluisce, sempre che fluisca bene, è un risultato non paragonabile con altri.
Esperienza sensibile, esperienza animica ed esperienza del pensiero che pensa; sono i tre livelli nei quali svolgiamo i nostri gradi di conoscenza; ma i primi due ci vengono offerti dalla natura stessa del nostro essere; il terzo no. Il terzo, se lo vogliamo, ce lo dobbiamo conquistare.
Normalmente siamo abituati a valutare le cose secondo un canone puramente quantitativo; il “peso” di una notizia, di un avvenimento dipende in tutto e per tutto dalla quantità. Una rapina da dieci euro non provoca l’effetto di un furto da un milione di dollari; né un naufrago raccolto in mare da una motovedetta fa fare alla pubblica opinione lo stesso sobbalzo di una carretta sovraccarica di profughi. Parimenti non racconteremo in giro di una vincita di pochi spiccioli al “gratta e vinci”, mentre su una molto piú consistente, manterremo lo stesso silenzio-stampa, per motivi diversi, non si sa se fondati o no, ma sicuramente coltivati nell’orticello della cautela. Per queste ragioni, ma non solo per queste, ci avvediamo d’essere un “io” unicamente nel percepito e nel pensato; non ci cogliamo soggetti dell’attività percipiente e pensante, che sarebbe poi il giusto modo per mettere fine a una serie di conoscenze parziali, infondate e quindi equivoche, con le quali costruiamo (e distruggiamo) progresso, civiltà e società.
Non basta sapere che tutti i cosiddetti “grandi scopritori” sono stati nel tempo superati, integrati e, non di rado, anche contraddetti; non basta essere edotti sul fatto che la pubblicità commerciale rappresenta le infinite varietà dell’inganno e della distorsione, poste in stucchevole sfilata per allettare le nostre brame di superficialità e superfluità; non basta che la chiamata alle urne dei suffragi elettorali rasenti oggi percentuali assurde ma ritenute da sedicenti sondaggisti bastevoli a garantire la democraticità del voto: non basta nemmeno la caterva di scandali svelati e rovistati, per aprirci definitivamente gli occhi sulle trappole industrialmente predisposte nelle filiere dei prodotti farmaceutici, alimentari, energetici e igienico-sanitari; a nulla sembrano servire le crisi profonde e insanabili che fanno crollare uno dopo l’altro i valori della politica, del lavoro, della giustizia, del sindacalismo tout court, dalla pubblica amministrazione fino allo sport, ove un terzo almeno dei soliti aficionados ha smesso di seguire le vicende per ‘impraticabilità del terreno di gioco’, e magari si trattasse di fango…
Non apprezzo gli sfoghi d’amarezza perché con essi non si costruisce niente. Ma a volte servono. È di queste ore la notizia che una delle maggiori case costruttrici di automobili ‒ a livello mondiale ‒ è stata colta con le mani nel barattolo della marmellata: il che dimostra che le tentazioni proliferano in progressione esponenziale. La determinazione con la quale l’umano tenta di battere il record dello sprofondamento morale (già suo dalla notte dei tempi) rasenta i limiti dell’eroismo rovesciato: ma del resto era tutto nell’aria, aleggiava da decine di anni; si vede che le due guerre mondiali e connessi orrori dell’altro secolo, non hanno sortito sufficiente effetto didattico.
Einstein ha dunque il merito d’aver saputo presentare in versione matematica una spiegazione innovativa alla visione già fortemente meccanico-materialistica dominante nel suo tempo. Non sappiamo se questo merito manterrà integro il valore che il mondo della scienza oggi gli attribuisce. Ma viene da supporre che la novità, di eccezionale portata nello studio dell’universo fisico, non cambierà di una virgola il corso degli eventi di cui la storia dell’uomo s’intride, in quanto permangono in totale oscurità quelle forze sovrasensibili, ossia spirituali, dalle quali gli eventi si generano e con le quali dobbiamo fare i conti ogni giorno, sia in qualità di singoli, sia in senso lato, come comunità di abitanti del pianeta Terra.
A dire il vero, la scienza, per quanto attaccata agli schemi di un conservatorismo metodologico e non disposta ad aperture sconfortate da cifre e formule, ha ogni tanto delle avvisaglie circa i propri limiti, ma preferisce dare ad esse le voci misteriose di “buchi neri”, “materia ed energia oscure “, o “ extra sensorial perception”, quasi fossero nuovi territori che da provetti pionieri gli addetti ai lavori si riservano di esplorare in un prossimo futuro. A nessuno di quei signori passa per la testa che tutto ciò che oggi appare “nero, oscuro, tenebroso” altro non sia se non quella parte di uomo/universo che deve ancora venire incontrata e conosciuta, e alla quale manca la luce che solo il nostro Spirito sarà capace di accendere, ove anima e corpo non disertino l’impresa o non se ne approprino, rendendola orizzontale, ossia sconclusionata.
Massimo Scaligero in Magia Sacra dà una sintesi incisiva sulle attuali scoperte della scienza e della tecnica: di solito non mi piace citare testualmente; è sempre meglio tentar di fare una ciambella, o quel che viene, con la farina del proprio sacco che comperare la torta buona della pasticceria rinomata. Ma so per esperienza che le riflessioni di Massimo Scaligero, accolte e coltivate, hanno sempre avuto, per me, un valore basilare, direi indispensabile, e spero quindi che il viatico sia rinnovabile ad altri, per una sorta di catarsi osmotica cui le anime, non tutte ma molte, mostrano qualche sensibilità.
«Ciò che nel presente tempo appare inspiegabile e può tuttavia dare la misura della contraddizione interna alla scienza, è l’incapacità di questa a rivolgere la propria indagine ad attività come il pensare e il percepire, che pure sono fonti del suo conoscere.
E chi non dorma su questo piano, ma voglia vedere come effettivamente vadano le cose, deve constatare che nessuna seria ricerca della scienza si propone un’esperienza pura del pensare e del percepire. Anzi è l’esperienza che viene accuratamente evitata, perché subconsciamente s’intuisce rivelatrice dell’urgenza di tutt’altro orientamento della cultura e della tecnica, esigendo da essa un obiettivo di profondità, rispetto al quale per ora i ricercatori comodamente dormono».
Con quale pensiero è stata pensata la Teoria della relatività, quella dei Quanti, la Fissione del Nucleo o la Deriva delle Galassie? Con lo stesso pensiero che ha costruito la bomba atomica e l’ha poi testata adducendo irrinunciabili motivi di ordine geopolitico, ma nella palese frenesia d’autoprotezione egemonica? Se questo è il risultato, era meglio che quelle teorie rimanessero tali, in attesa di realizzarsi in seguito nell’astratta visione di ingegni piú maturi. La genialità talvolta ha a che fare con il mondo delle idee; ma l’ingegnosità ha quasi sempre a che fare con il mondo dei marchingegni. E alcuni sono deleteri.
Hanno detto: «Lo scienziato-inventore quali colpe può avere? Si è limitato a divulgare la sua trovata. Sono altri che in modo malvagio, spesso proditorio, abusano della sua idea per scopi egoistici e immorali».
Questa storiella ora non regge piú. Presto scopriremo che chi pensa ha da assumersi la responsabilità del pensato. Se non è chiaro, specifico ancora: deve sapere da quale parte gli arrivano i pensieri, perché una cosa è pensare nella luce del proprio Spirito, un’altra è formulare pensieri sotto la spinta, avvertita o meno, di brame, impulsi, passioni, o peggio ancora di istintività assurte a ragionamento.
Il pensare è l’attività dello Spirito: non saperlo, non volerlo riconoscere, è il male che corrompe qualsiasi ulteriore pensato, anche il piú elevato, brillante e acuto.
«I filosofi hanno interpretato il mondo; ora si tratta di trasformarlo». È un bel pensiero, pieno di forza e di autorevolezza; vi si sente scorrere un principio di verità. Ma con riferimento a quanto suesposto, temo proprio che ancora non ci siamo. Almeno il filosofo, quello piú antico, precristiano, poteva permettersi il lusso di mettere in dubbio il suo percepire come il suo pensare; dopodiché, fino all’idealismo romantico dell’800, rari pensatori si sono chiesti in coscienza con quale pensiero stessero pensando e da dove saltassero fuori le idee che assieme ai concorrenti ritenevano in buona fede di proprietà loro, e senza porsi ombra di dubbio.
In questa trappola c’è caduto, con tutto il suo peso, pure Carl Marx, cui si attribuisce l’esortazione citata di “trasformare il mondo”. Abbiamo visto tutti come ci sia riuscito: personalmente di fronte all’ingegno socio-economico del buon Barbariccia, autore del Manifesto, mi viene in mente la frase con la quale sul finire della Seconda Guerra Mondiale, la Regina d’Olanda stigmatizzò quella ‘brillante operazione strategica’ concepita dal generale Montgomery, che passò alla storia sotto il nome di “Operazione Market-Garden”. Vi perí oltre la metà dei trentacinquemila soldati impegnati e, se non bastasse, per nefasto effetto collaterale ebbe a verificarsi una strage tra i civili nelle zone di Nimega e Arnhem. La Regina Giuliana sentenziò: «Mi auguro che il Maresciallo Montgomery non abbia mai piú altre ingegnose strategie da realizzare in territorio olandese».
Di rimando mi auguro anch’io che non ci siano piú pensatori o filosofi che non chiedano a se stessi cosa, come e da dove venga loro quel pensare che comunque usano; e lo facciano prima di confezionare le teorie di cui poi cospargono il mondo.
Voler trasformare l’attuale assetto sociale partendo dalle forze-lavoro, dallo stato commiserevole della condizione operaia, dalla mercificazione dei valori umani, è un impulso nobile e idealistico al quale non si può che aderire. Ma chi per mestiere va a caccia di serpenti velenosi dovrebbe sapere che è pericoloso prenderli per la coda; e certe idee, di cui non si conosca l’origine, presentano il medesimo rischio. Se davvero ti preme di trasformare un sistema consolidato nel tempo, comincia non dalla coda del sistema, ma da quel che costituisce la cosa piú immediata e vicina di cui ti sia possibile l’esperienza: che è la tua testa.
Osserva con grande scrupolo quel che in essa avviene, ogni volta che pensando credi d’essere l’indiscutibile autore delle idee che vi si affacciano. È una gran bella cosa nutrire fiducia in se stessi; ma la fiducia nei propri sentire e volere spesso ne combina di tutti i colori. Se invece la fiducia viene rivolta al pensare, alla sua autonomia e al suo poter restare indipendente da qualsiasi costrizione e vincolo fisico-sensibile e affettivo, allora esso ci svela cose di cui non immaginavamo neppure lontanamente l’esistenza. Ma affinché una tale fiducia esista e si presenti come concreta possibilità per l’anima di ciascun essere umano, bisognerebbe prima sapere di avere un’anima e poi conoscere il pensare; e, caso Rudolf Steiner a parte, non c’è una scuola, una università o un corso studi che proponga la centralità del pensare come primario obiettivo dei suoi programmi, essendo conseguentemente in grado di eseguirli.
A questo punto la logica, o quanto meno la mia parte di logica prigioniera della razionalità, in base a quanto premesso all’inizio di questo scritto, vorrebbe che mi mettessi ad illustrare la validità e la grandezza della “scoperta” di Rudolf Steiner e quindi del suo primato su tutte le altre, scientifiche o filosofiche che siano.
Non lo farò: ho detto a sufficienza quel che c’era da dire e forse chi poteva capire, ha capito. Un proverbio del lontano Oriente dice: «Abbi fiducia in quel che già sai e ne saprai di piú». In questo contesto equivale un po’ al nostro: «Col tempo e con la paglia maturano le sorbe e la canaglia».
Vorrei concludere con una mia immaginazione. Secondo me ci sta bene, mi aiuta ad uscire dalla dialettica con la quale devo comunque fare i conti per argomentare i temi proposti. A me ha giovato molto, anzi, è stato proprio questo immaginare che mi ha incoraggiato a parlare di Rudolf Steiner come scopritore rispetto ad altri che il mondo ha inteso ritenere “grandi”.
L’autobiografia di Steiner, intitolata La mia vita, costituisce un fatto abbastanza eccezionale; raramente simili personalità indulgono a raccontare le vicissitudini personali; ma in alcuni casi, e questo è senza dubbio uno dei rilevanti, diviene un obbligo morale dire quel che hanno provato, sentito e sperimentato nel vivere la loro umanità, per dare un sostegno efficace al contenuto dei loro pensieri e con essi toccare le corde piú profonde e nascoste di quanti, ascoltandoli, si sentono maggiormente ravvicinati e partecipi, per sentimento o per destino.
Nella seconda metà del secolo XIX, tra la natura rigogliosa e possente di quella parte dell’Austria inferiore che gli fu di casa, Rudolf Steiner, scolaretto sí e no decenne, compiva giornalmente il tragitto dall’abitazione a scuola attraverso foreste e campi incolti (si trattava di chilometri, e d’inverno nessuno andava a spalare la neve nei viottoli di campagna né tanto meno nei sentieri dei boschi). Egli racconta che durante quelle lunghe camminate la sua interiorità era quasi sempre immersa nelle lezioni impartitegli a scuola e in particolare in quelle di geometria. Amava la precisione delle forme geometriche, la regolarità dei rapporti, e qualsiasi teorema sottoposto alla sua attenzione non gli pareva affatto una cosa arida (come capita a una buona parte di scolari di ogni tempo e luogo), ma anzi percepiva, dietro l’ordine cangiante delle linee e delle superfici, la meraviglia del pensare che li aveva voluti cosí, eterni, perfetti, incredibilmente belli e trasmutabili in un continuo susseguirsi di valenze e di progressioni che poi la matematica s’incaricava di puntualizzare in formule rigide, asciutte ma piene di una forza segreta, che nulla aveva in comune con l’esperienza empirica. La fatica, la monotonia del medesimo cammino, la normale difficoltà delle cattive stagioni, sembrava non riguardare affatto quel ragazzino precoce e lesto, al punto che – e qui espongo la mia rappresentazione – la foresta antica, gli alberi secolari, la forza del vento che scuoteva fronde e cespugli, o magari il candido manto di neve che copriva ogni traccia, sembravano essere parti di un coro; la natura di quei posti, amorevolmente selvatici, pareva cantare per lui. Fu cosí che l’anima del piccolo Rudolf venne educata alla capacità di intuire una cosa che sarebbe poi divenuta il punto centrale della sua opera, e prima ancora della sua vita: gli alberi, i rami, le fronde, il vento e la neve, la pioggia o il sole, ma anche la piccola fauna boschiva locale, rappresentavano il piú maestoso, nobile perfezionamento di tutti i punti e le linee di cui si compongono e si scompongono le figure della geometria studiate sui libri di scuola. Quel che impedisce questo riconoscimento, è dovuto ad un preciso motivo: gli elementi della natura sono talmente progrediti nel loro grado di perfezionamento, che all’uomo normale sembravano, di là dal presentarsi in modo ameno e vitaleggiante, un insieme di forme in cui domina l’irregolarità e l’imprecisione; questo, rispetto alla purezza concepibile nei triangoli, poligoni e simili, i quali si possono‒- in via astratta ‒ mantenere nella testa, come esemplari di riferimento.
«Non è cosí! Non è cosí!» esultava nel cuore il piccolo Steiner. Una foglia, un tronco, una radice sono ben piú perfetti che non la “O” di Giotto, o il Teorema di Pitagora, o l’iperbolica quadratura del cerchio. Un ruscello, uno stagno con le rane, o una castagna, una noce, hanno già oltrepassato ogni nostro concetto di “forma perfetta”, nitida e ripulita. Ecco perché, non riconoscendo la perfezione dell’immenso patrimonio organico e inorganico elargitoci con il mondo, noi ci avventuriamo in frasi del tipo: «In natura la figura regolare non esiste», oppure: «Nessuna foglia può essere uguale ad un’altra». E le scambiamo pure per leggi con valore di esattezza!
Invece il bello, la forza, la maestosità di quanto concepito e creato da un Pensare non ridotto alle limitazioni di quello umano, sono talmente completi da mantenere intatto il loro splendore non solo nel pieno rigoglio di quel che vive e si sviluppa, che sarebbe anche troppo facile da rilevare, ma parimenti nei necessari percorsi di sfacimento, morte e putrescenza; arrivare a riconoscerlo è fondamentale.
Circola una storiellina parabolante, che non so a chi attribuire, dal momento che a volte la riferiscono a Gesú, altre a san Francesco, altre al Buddha e altre ancora a qualche non meglio identificato asceta zen; ma il senso è sempre quello: nel vedere la carogna marcita di un animale, e mentre altri distolgono schifati lo sguardo, il saggio, serenamente, ne esalta la bellezza dei denti.
Ma, riprendendo il discorso, cos’erano quelle elucubrazioni svolte da un bambino nel mezzo dei boschi? Astrazioni, fantasticherie, allucinazioni? Visioni di un ragazzino dotato e precoce? Nulla di tutto ciò: erano la conseguenza di quel che accade quando, per qualche misterioso motivo, il flusso del pensare può scorrere libero nell’anima, perché le barriere dei limiti sono state rimosse.
Con i nostri sensi possiamo percepire fino ad un certo punto; del pari con gli organi sottili della nostra interiorità; e certamente con il nostro semplice intelletto, salvo specifici addestramenti e preparazioni, non possiamo andare oltre un determinato livello. A meno che specifici addestramenti e adeguate preparazioni non siano stati proficuamente svolti in tempi precedenti.
Noi, alquanto manchevoli per discipline interiori, siamo capaci di entrare nel mondo particolarissimo delle figure geometriche, apprezzarle nella loro bellezza e restare pure affascinati di come esse proseguano metamorfosando le forme e convalidandosi una nell’altra; passando dalla geometria piana a quella solida, poi a quella trigonometrica, fino ad aprirsi alla dimensione multi spaziale: ma resta pur sempre un gioco di pensieri astratti, elaborati e confinati in quella disciplina.
Sappiamo tuttavia rivolgerci al mondo, alla natura, e senza grande sforzo, ammirarne la grandiosità, la vastità e l’apertura di certi panorami, scorci, o scenari che siano, tali da considerarli “un’esperienza sublime”.
Ora, la supposta bellezza delle forme della geometria e quelle proposte dalla natura sono di ordine totalmente diverso; questo non è difficile capire; le prime devono venir immaginate, mentre le seconde ce le troviamo davanti già belle e pronte; le prime portano in sé i caratteri della precisione e della regolarità, valutate secondo il nostro metro; le altre – per quanto belle – sembrano esserne piuttosto distanti.
A questo punto dobbiamo tirare una conclusione: o la nostra testa è dotata di una capacità artistica superiore a quella di Colui che ha creato la natura, nonché di una tecnica raffinata nel produrre forme cosí esatte e rigorose che nessun intelletto ne sia altrettanto capace, oppure siamo noi, con la nostra impostazione al riduttivo, alla microminiatura parziale e incompleta, a restare accecati dall’abitudine al ribasso, e di conseguenza vedere solo ciò che rientra, spesso a fatica, entro quei limiti che amiamo definire dell’ “umana comprensione”.
Abbiamo di sicuro degli exploit molto sentiti e psicologicamente interessanti anche per le forme ‘non regolari’ che il mondo ci propone, ma si tratta di estetismi sorti da impulsi del sentire o da pulsioni di forze corporee; commuoversi davanti un’opera d’arte o lasciarsi ammaliare da una danzatrice del ventre, non toccano la funzione pensante; non la sfiorano nemmeno; anzi, la respingono piú indietro possibile.
Ma se i limiti comuni al pensare cessano di far barricata, allora la realtà del mondo che appare, cambia; si riesce a stabilire un rapporto qualitativo tra il nostro saper produrre idee geometriche e lavorarci sopra con l’Idea che ha creato il mondo, la natura, gli esseri viventi, e la capacità di alcuni tra essi di creare a loro volta mondi astratti, teoricamente concepibili. E constatare che non c’è contraddizione alcuna.
Si scopre la relazione tra gli Archetipi cosmici e quelli presenti nei parametri dell’evoluzione della terra; si scopre che la divinità degli uni non è superiore a quella degli altri; a livelli diversi corrispondono mansioni diverse, secondo un ordine che è prima di tutto armonia: l’universo intero si rivela un’immensa Idea spirituale in continua attività, o divenire, se la visione s’incornicia di spazio e tempo. Gli uomini di scienza se ne stavano seduti tra due specchi; guardavano le loro immagini riflesse; da una parte si osservavano come sagoma corporea, e lo specchio portava la dicitura “Spazio”; nell’altro si osservavano come forma caduca e transeunte, e lo specchio diceva: “Tempo”. Un giorno uno di questi signori si alzò esclamando: «C’è una relazione! La relazione sono io! Io posso concepire lo spazio-tempo e risolverlo in chiave umana».
Anche Rudolf Steiner scolaretto ebbe l’avventura di trovarsi tra due specchi: il mondo del pensare e la natura di quei boschi che per lui rappresentavano tutto il mondo del percepire. Ma non stabilí una corrispondenza di cui potersi sentire fulcro o ricavarne vanto; né una formula o un’equazione, perché il genio non necessita di simbolismi. Ne deduceva invece una certezza: il pensare che voleva l’universo, il pensare che voleva il mondo, quella natura che lo circondava, con alberi, viottoli, sentieri, era lo stesso pensare che scorrendo in lui gli componeva le figure geometriche in tutte le loro affascinanti evoluzioni, mostrandogli ad un tempo come l’uno confluisse nelle altre, come l’idea rimanesse sempre se stessa riproducendosi all’infinito nel molteplice, nelle variazioni dimensionali, mutando in forme conseguenti e temporanee.
Il pensare dell’universo, o Spirito del Cosmo; il pensare umano, o Spirito Individuale; e la realtà del mondo, o natura, non sono in competizione tra loro; nessuno ha un primato da esibire in rapporto agli altri. L’Idea è una; essa si esplica nelle forme e nei dettagli che vuole, onde cercare, in qualunque circostanza, di dare il meglio di sé: ovvero, un pensare che pensi oltre se stesso, un amare che vada oltre se stesso, una corrente di volere senza preclusioni, valicante ogni aspetto di conversione, ogni tendenza al rientro.
Nessun comune mortale è capace di tanto; l’uomo non è il creatore dell’universo; ma quel che importa è conoscere d’averne ricevuto l’impronta, la potenzialità, comparata alla propria missione di vita. Sapere dell’essere che si è e che per lungo tempo si è temuto di essere; unicamente per debolezza di comprensione.
Ecco perché amo molto la rappresentazione che mi sono fatto di quel ragazzino che ebbe un contatto tutto particolare con lo Spirito della Natura, ma lo ebbe in quanto aveva maturato da sé la disposizione migliore per poterlo percepire là dove esso gli si sarebbe manifestato.
C’è un qualcosa nei miei ricordi, che non so definire con precisione, ma che mi lega a quel tipo di esperienza; perciò io credo in Steiner e a quello che ci ha lasciato come insegnamento. L’ho detto piú volte, e non ho difficoltà a ripeterlo; sono ben lontano dal capire appieno quanto egli ha elaborato nei suoi pensieri; ma sento di essere sulla strada giusta. E in fondo, è questo che conta. Posso soltanto affermare che seguire il pensiero di Rudolf Steiner e orientarsi nella vita con quel che se ne può trarre, è una scoperta incredibilmente importante; molto piú importante di qualunque altra, di qualsiasi scienza o filosofia si parli.
È l’unica innovazione che l’uomo possa sperimentare direttamente in se medesimo, libero dalla preoccupazione che domani, o domani l’altro, una nuova idea venga a turbarne il fondamento: perché il pensare di Rudolf Steiner non è teorico ma pratico; non è relativo ma si regge su se stesso; non è nemmeno generale, nel senso di generico, ma può diventare universale, se ci si addentra in esso con l’entusiasmo di quel ragazzo che seppe percorrere i sentieri dei suoi boschi, con il cuore colmo di gioia e di amore per lo Spirito della Conoscenza.
Angelo Lombroni