Nato in India, paese dove capita
che monsoni, tsunami e carestie
riducano le scorte alimentari
imponendo le diete da fachiro,
Madan Katària, medico geniale,
insegnante di yoga terapeutico,
ha capito che se difetta il riso
puoi rimediare con una risata.
Detto fatto, ha creato l’Accademia
Yoga della Risata, soprattutto
indicata a soggetti in là con gli anni,
persone anziane che la solitudine
e l’abbandono portano allo stress.
La ricerca scientifica ha provato
infatti che l’ossigeno prodotto
da uno scoppio di risa incontrollato
fluidifica gli umori cardioepatici
e il sangue scorre rinnovato e vispo,
un tripudio di cellule rinate.
Deve però salire dal diaframma,
la risata, venire dalla pancia,
senza cioè il ponzare della mente,
avverte categorico Katària.
Perché funzioni al massimo, lo sbotto
ha da essere un guizzo d’allegria,
spontanea effervescenza gastroenterica.
Inoltre, questo è il dato piú importante:
il cervello, graziato dall’ossigeno,
rilascia certi ormoni, le endorfine,
causa primaria di felicità.
Ora, non so gli indiani, ma noialtri
italiani ormai privi di speranze,
obbligati ad assistere ogni giorno
alle tragicommedie del Palazzo
che finge il Quarantotto ma poi cede
ai patti nazarenici e s’impingua
allo stesso buffet compromissorio,
siamo costretti a ridere di testa,
un riso amaro, meditato e carico
di astrali turbamenti incontrollabili,
che avvelenano il sangue e ci procurano
il ghigno di chi è saturo di rabbia.
Giovani e vecchi, pargoli e ragazzi,
per smaltire il rancore e sopravvivere,
pratichiamo lo yoga dei pupazzi,
che bastonati devono sorridere.
Il cronista