«Io sono sempre stata una donna di fede, molto attaccata alla Chiesa. Glielo può chiedere al Parroco, che mi conosce da tanto tempo. Ha tenuto a battesimo i miei figli e adesso anche i nipotini. Non sono mai stata ricca, ma insomma, con il lavoro e con quel che mi ha lasciato il povero Puppi, quando se n’è andato in Cielo, mi sono arrangiata e in questi anni ho fatto alla Chiesa tante di quelle elargizioni che un giorno, pensi, lo stesso Parroco, dopo la Messa, mi ha preso in disparte e mi ha detto chiaro e tondo: “Questa chiesa, cara signora, è un po’ casa sua”. Lo dico per farle capire che ho un’anima buona, devota alla Parrocchia, e nella vita mi sono comportata come si comportano i bravi cristiani. Ma questo Papa io non lo capisco! Sta dicendo e facendo delle cose che sono incredibili! Benedetto lui! Apre le braccia e ci fa venire su tutta l’Africa e il Medio Oriente compreso! Ma cosa vuol fare? Dove vuole arrivare? Secondo me è autentica follia! Capisco l’amore, la carità, ma non questo! È veramente troppo! Se va avanti cosí ci troveremo arabi e negri che scorrazzano impuniti per tutta la città e non si potrà piú uscire di casa! Non avrei mai pensato di dover vedere in vecchiaia una roba del genere! Che il Signore mi perdoni, ma Sua Santità deve aver perso il senso della misura».
Questo discorsetto, a stralcio del problema “Migranti, Profughi, Esuli, Rifugiati & Co.” (problema piuttosto complesso con il quale era mio desiderio confrontarmi) arriva da una gentile signora, ospitata in una casa di riposo, che ho visitato su preghiera di un amico, il quale, come dopolavoro, offre assistenza e compagnia a chi ne ha bisogno; non riuscendo a svolgere tutto quel che vorrebbe, di tanto in tanto convince qualcun altro a farlo per lui; in questo caso, l’altro ero io.
Non saprei come nella mezz’ora di visita sia entrato in un tale argomento, ma so come ne sono uscito. Mi sono detto: fra poco sarà dicembre, quindi Natale; vorrei scrivere un articolo per l’Archetipo. Mi domando: posso associare il tema di Natale con la faccenda degli emigranti e con il nostro variopinto atteggiamento al riguardo? Da articolista di piccolo calibro, mi sembra una pazzia simile a quella che la signora addebitava a Papa Francesco. Tuttavia piú pensavo l’accostamento dei due temi come a una stranezza irrituale e forzosa, piú cresceva in me il desiderio di provarci. Perché no? ho concluso alla fine. Perché dovrebbe spaventarmi il controcanto? Se l’ha fatto il Papa, nel mio piccolo posso farlo anch’io. In fondo, è per una buona causa.
Chi scrive, mettiamo uno che ne abbia la velleità, deve dare la giusta forma a quel che esprime; quale avrei adoperato qui? Esortativa, didascalica, pacata o esagitata? Ne sarebbe saltato fuori uno scritto misurato, contenuto, propositivo, oppure uno di quei pamphlet all’acido muriatico che provocano disturbi gastrici e per un po’ richiedono l’uso di sedativi?
Mi sono ricordato a questo punto (vedi l’idea del Natale dove va a nascondersi!) che, ancora bambino, la mamma mi aveva insegnato a scrivere una letterina a Babbo Natale per affidargli i miei desideri piú impellenti, confidando in un puntuale riscontro. Genericamente si trattava di un fuciletto, una pistola o un carro armato; tutto giocattolo, s’intende, ma la dice lunga sulla generazione dei maschietti nati a ridosso della guerra.
Cosí mi son detto: proviamo ora, coi capelli bianchi, a impetrare Lassú un regalo di cui io (azzardo: probabilmente in numerosa compagnia ) sento urgente bisogno.
Ma cresciuto come sono, oggi, non so bene come rivolgermi al quel “Lassú”. Forse ho perso la mano. E poi mi sembra poco delicato turbare la quiete delle Entità Superiori per problemi generati da nostre imperterrite manchevolezze, e per di piú protratte nel tempo, con la disinvolta faciloneria di un “Antonio L’Infame”, della sceneggiata napoletana; tipica macchietta fedele al suo appellativo.
C’è stata tuttavia un’esperienza valida di cui oggi, ricordandola, potrei avvalermi: l’attimo in cui ho provato un senso di nobile ed elevata capacità, piuttosto raro da sperimentare in condizioni ordinarie. È capitato mentre il coro in cui canto (o tento di cantare a livello tenorile) si esibiva in “Dio del Cielo, Signore delle Cime”. Quella sera, l’esecuzione era stata particolarmente felice ed eravamo rimasti tutti compresi, pubblico e cantori, da quel maestoso sentimento di compartecipe pathos, che l’autore, Bepi de Marzi, aveva infuso nella musica e nelle parole.
Apro quindi il mio cimento con questo invocativo: «Dio del Cielo, Signore delle Cime!».
Ma anche Signore delle acque profonde, delle coste frastagliate, dei lidi inospitali, dei Centri Di Prima Accoglienza inadeguati, delle Organizzazioni di Soccorso, tanto volonterose quanto insufficienti e artigiane. Molti amici hai chiesto ai nostri mari, ma anche ai nostri reticolati, anche ai cassoni dei nostri camion, alle rotaie dei treni e ai percorsi notturni tra confini e valichi custoditi in armi.
Noi, o almeno io, Ti prego: avvicinandosi la ricorrenza del Natale, dammi la forza ‒ in questo clima di marasma generale, ove tutti promuovono soluzioni verbali e astratte a seconda della livrea politica o affaristica di appartenenza ‒ di riuscire a vedere con maggior chiarezza il Tuo Disegno, per inquadrare, se possibile in modo non confondibile, il mio, il nostro, umano soffrire nella cornice della Tua Volontà.
Noi Ti preghiamo per loro: ci rivolgiamo a Te chiedendo pace eterna e giusto riposo per quelli che sono morti, per quelli che ancora moriranno e per quanti altri, in vicissitudini per lo piú ignorate, cercano giorno per giorno la loro sopravvivenza.
Anche se di questo tipo di preghiere io credo proprio che Tu possa farne a meno.
Ti preghiamo per loro, eppure, dovremmo saperlo: morti, morituri e sopravissuti sono da sempre nel pieno della Tua misericordia. Non spetta di certo a noi raccomandarteli una volta di piú, come si fa con i sordi e con i disattenti.
Ti preghiamo per loro e non capiamo, non vogliamo capire, che dovremmo preoccuparci di pregarTi per noi.
Di questa tragedia i reali naufraghi siamo noi, figli degeneri di un esistenzialismo esibizionistico vissuto all’occidentale, coltivati, pasciuti, unti e incensati dai fatui vapori dell’apparire: siamo noi ad avere urgente bisogno di ritrovare – compunti, revisionati a fondo – il senso smarrito delle preghiere e delle invocazioni.
Abbiamo bisogno di un Natale che ci rinnovi strutturalmente cominciando dal profondo, che ci faccia intravedere la verità che da troppo tempo abbiamo tradito, estromesso dalle nostre vite, distratti come siamo dalla preoccupazione di colmare le dispense, dal tintinnío metallico delle slot-machine, da sogni di vacanze esotiche low cost e da happy hours gonfie di silicone e anfetamine.
Per secoli ci siamo arricchiti alle spalle dei poveri, depredandoli, massacrandoli, facendo mercato non solo delle loro carni ma anche dei loro sentimenti e delle loro speranze. Che oramai non nutrono piú; non sanno, non possono nutrire piú.
Abbiamo spudoratamente approfittato dei deboli, di popolazioni misere e forse a suo tempo pacifiche, con la forza bruta degli eserciti, con la schiacciante superiorità dei poteri finanziari, con le fumigose teorie di pace, fraternità e democrazia coltivate da dietro i paraventi della filosofia e nei labirinti di un pensare cerebralizzato incapace di uscirne.
Tutto finto! Tutto posticcio! Mentre da una parte le cattedrali rigurgitano salmi e Tedeum in Tuo onore, dall’altra compiamo razzie, distruzioni e atrocità d’ogni genere, trovando terreno fertile nelle piú derelitte parti del mondo, e giustificandole poi, agli occhi miopi della cosiddetta “pubblica opinione” e del moralismo borghese, con sventolanti striscioni colorati e slogan beffardi, un tempo inneggianti a “Deus Vult”, e “In Hoc Signo Vinces”, ora modernamente riscritti in “Peace Making” e “Keeping Freedom”.
Abbiamo insegnato alla parte meno abbiente del globo, tutto ciò che l’uomo non dovrebbe fare all’altro uomo, e per essere piú convincenti, l’abbiamo irretita nelle strette maglie di un sogno: il benessere materiale, il welfare, la cui ritualità, penosamente recitata, è divenuta miraggio illusionistico; il mito del “pane e lavoro per tutti “, della “libertà di culto” e del “libero pensiero”, ridotti a rabdomantica scelta di posizione classista e privilegiata.
Abbiamo creduto, o siamo caduti nella tentazione di credere: “Ma io cosa c’entro in tutto ciò? Personalmente non ho mai fatto del male a nessuno!”.
Pure l’ipotesi non è del tutto caprina: siamo mille volte piú naufraghi, migranti, profughi e dispersi noi, che non quelli che quotidianamente stampa, tv e network si sperticano a mostrare mediante crudi reportage e servizi strappacuore. Naufraghi di una possibile evoluzione verso lo Spirito; migranti dalle lande della desolazione di anime che, abbandonate, devono a loro volta abbandonare; profughi di una luce cui ci siamo abituati a non rivolgerci piú; dispersi perché fisicamente aggrappati solo a ciò che per sua natura è destinato ad affondare nelle acque scure della nostra complicata esistenza.
Perciò noi, o almeno io, Ti prego: dammi un Natale alla cui alba possa capire cosa e come pensare, cosa fare e come agire in questo frangente che arriva impetuoso e pare voglia travolgermi. Fammi capire che coloro che bussano alle nostre porte non lo fanno per venderci una collanina o un accendigas. Fammi capire che forse non si aspettano da noi solo l’elemosina di un euro o qualche straccio vecchio che avremmo comunque buttato.
Dammi il coraggio di pensare che crocchette e scatoline di Kit Kat possono andar bene per Fuffy, Kikky e Bobi, ma non nutrono Alí, Selim e Mustafà; che il fenomeno della migrazione non può venir gestito con le regole del turismo di massa, e che le prestazioni di accoglienza, per lo meno quelle che siamo in grado di predisporre, non si risolvono a profilassi, disinfestazioni e rotoli di carta igienica con allegate le istruzioni per l’uso.
È arrivato il momento di cambiare registro. Il momento ce lo portano loro, con i barconi, con i convogli, con le vie di fuga che disperazione e istintività naturale sanno inventare di volta in volta.
Davanti a queste pagine da esodo, cosa sappiamo inventare noi? Perché sembra evidente che le politiche di quanti abbiamo scelto, o lasciato scegliere, per la conduzione delle pubbliche cose, nel nostro come negli altri paesi dell’Unione, non siano in grado di assumersi alcuna garanzia decisionale condivisibile e sostenibile in larga maggioranza.
Anzi, credo che si guarderebbero bene non solo dall’agire in tal senso, ma pure dal proporlo, forse anche dal pensarlo. Significherebbe l’inevitabile caduta dai loro amati vertici, dalle loro adorate poltrone. Caduta che comunque avverrà, come storicamente dimostrato, quando incapacità, ignoranza, presunzione e spesso anche disonestà, faranno maturare il bubbone del potere sul quale stavano seduti, fino a scoppiare.
Dicono che la notte porti consiglio. Forse il Natale, questo Natale del 2015, farà altrettanto. Io resterò in attesa, chissà che entro il 25 di Dicembre non arrivi una buona intuizione umanamente
percepibile. Mi ritengo – a questo proposito – piuttosto fortunato, perché possiedo non pochi strumenti, tutti efficaci e ben collaudati, per favorire la nascita e lo sviluppo di questo tipo di idee.
Non sempre poi esse arrivano, oppure arrivano ma vengono ricevute con tali distorsioni, fraintendimenti e manomissioni che non sempre la qualità della sfornata corrisponde a quella della farina; ma, come dicono i maghi del pallone calciato, se non tiri in porta, è inutile star lí a pensare di far goal.
Il Natale significa che è nato un bambino; lasciamo stare per il momento il fatto che il bambino sia proprio quel Gesú, figlio di Giuseppe e Maria, che poi diventerà il Cristo. Cosa significa “nascita” e cosa significa “bambino”?
Significa che un qualcosa, prima inesistente, ora c’è: si è concretizzato al punto di trasformare la materia e viverci dentro. Una spinta, una forza sconosciuta e inarrestabile gli ha fatto compiere un viaggio straordinario da un mondo senza dimensioni, o forse da una dimensione senza mondi, verso un pianetino dove tutto è molto limitato e regolato tra scadenze, ritmi e alternanze.
Questa nuova vita dovrà in qualche modo adattarsi alla necessità contingente, se vorrà continuare ad essere vita. Sulla terra la possibilità di esistere non si presenta con una vasta gamma di scelte. O respiri, mangi e fai svolgere al corpo le sue funzioni elementari, oppure la storia finisce là dove sei arrivato.
Questo vale per ogni bimbo nato cosí come valse per Gesú. Ora poniamoci una domandina piuttosto interessante: perché non dovrebbe valere per il pensiero?
Ossia: tra il vorticare di pensieri che affollano, o assillano, giorno e notte le nostre teste e le nostre anime, ci può stare l’idea di un pensiero, uno solo, che si presenti a noi chiaro, luminoso, ricco di vita, eppure ancora piccolo, inerme e del tutto indifeso, come un bambino appena nato?
Siamo capaci di partorire un pensierino cosí? Siamo capaci di sentircene genitori responsabili? Un pensiero da amare, nutrire e proteggere per tutta la vita, sua e nostra? E quando diventasse un bel pensiero, forte e robusto, in grado di camminare con le sue gambe, saremmo noi capaci di continuare ad amarlo anche dopo che se ne sarà andato, che ci avrà – inevitabilmente – lasciato soli con noi stessi, a vivere col e nel suo ricordo?
La nascita di una vita è un miracolo non ancora spiegabile, dicono, dal punto di vista scientifico; ma la nascita di un pensiero, un’intuizione forte e nuova, non lo è forse altrettanto se non piú? Il nostro pensare, con l’apporto del sentire e del volere, genera continuamente pensieri; a quanti di questi tuttavia, rimaniamo accanto con pazienza, con amore, con dedizione assoluta? Quanti li vediamo crescere e irrobustirsi al punto di trasformarsi in un’Idea, piena di forza, in modo da poter a sua volta fiorire in ulteriori forme di pensiero?
Se non c’è questa consapevolezza di base, se non c’è la ferma convinzione che ciascuno di noi, in quanto uomo, possa condurre e compiere in sé, nella sua anima, una simile natività, e non solo, ma che per l’appunto in questa specifica, particolarissima capacità umana consista l’elemento di distinzione con tutte le altre specie e forme viventi del creato, e rappresenti pertanto, a pieno diritto, il senso ultimo del nostro personalissimo “esser venuti al mondo”, a che dovremmo star qui a parlar di profughi e di Natale?
Il problema sarebbe già risolto; non avendo compreso l’ipo-tesi, non avendo compreso la tesi, non comprenderemo neppure la dimostrazione che da sola si sta svolgendo sotto i nostri occhi strabiliati e ci porterà di filato ad un “cosí volevasi dimostrare” che invece, molto probabilmente, non dimostrerà nulla a nessuno, perché la nostra coscienza è stata assente per tutta la lezione.
Ma in questo Natale i pensatori medi, forti di un mezzo pensare, di certo ameranno prendere dei mezzi provvedimenti che forse porteranno a delle mezze soluzioni: «Accogliamoli, riforcilliamoli, mettiamogli una coperta sulle spalle e una bottiglietta d’acqua minerale nello zainetto, e rispediamoli da qualche parte, il piú lontano possibile. Mentre in famiglia, a casa mia, io festeggio il Natale sotto le lucine dell’Albero, apro i regali e affetto il panettone per parenti e amici».
Insomma, se vogliamo dirla con Pirandello: “Tutto per bene”.
Non sono un esperto in Vangeli, ma ho la sensazione che il messaggio di quel Gesú che fu detto il Cristo non sia del tutto in linea con le opinioni e i ragionamenti che ci derivano dal nostro lungo esercitare un fiacco cristianesimo da retrobottega animico.
Penso a quando morirò. Sentirò una specie di grossa liberazione nel trarmi dall’impaccio quotidiano di richieste, imposizioni e obblighi corporali, di ritualità convenzionate, di opportunismi liturgici alternati a voli pindarici di speranze e libertà agonizzanti e sponsorizzate da multinazionali ipogee e ameboidi. Mi dirò: “È dura la morte, ma alla fin fine, ho smesso di subire i condizionamenti dell’esistenza. Ora entro in un mondo dove ogni essere è pura luce, intelligenza e amore. Quanto mi troverò bene tra loro!”.
Quali saranno i miei pensieri quando, tra i primi esseri dell’aldilà che mi verranno incontro per accogliermi, un gruppo di loro, in tute spaziali e scafandri, mi ripuliranno sotto un getto di gelido disinfettante e mi terranno (in osservazione?) in un apposito sgabuzzino adimensionale per un periodo atemporale non precisato ma molto lungo?
Alla fine, la mia anima, bonificata e sterilizzata, si presenterà al cospetto del Sovraintendente al TTT (Transito Trapassati Terrestri) ove, dopo aver firmato una lista di effetti personali che mi verranno restituiti a seguito del periodo di detergenza, verrò schedato e posto a graduatoria in una lista d’attesa per un collocamento in uno dei tanti Campi Profughi di cui è cosparso l’Universo, e che, visti dalla Terra, credevo ingenuamente si trattasse di stelle e pianeti.
È questo il tipo di accoglimento che immagino il mondo dello Spirito riservi a coloro che hanno compiuto il loro ciclo esistenziale sulla terraferma? A qualcuno diverte pensare che sia stato e sarà cosí?
Il famoso detto “Non fare ad altri ciò che non vorresti fosse fatto a te” si può rileggere in un piú esplicativo “Quel che farai agli altri sarà fatto anche a te”. E quanto noi stiamo oggi facendo (o non facendo) nel caso di uomini, donne e bambini, che a frotte arrivano nelle nostre terre, scappando il piú lontano possibile dagli orrori delle loro condizioni di vita, e di fronte ai quali non ci possiamo proprio sentire del tutto estranei, non è forse il rovescio della medesima moneta? Quella che in tempi non ancora sospetti ci siamo rifiutati di pagare?
Viene il Natale ed è quello dell’anno 2015. Credo resterà nella storia dell’evoluzione umana, perché sarà il Natale in cui l’onda migratoria della povera gente ‒ di razza, lingua, religione, costumi e culture diverse, ma sempre appartenenti al qui presente pianeta Terra ‒ ci pone il compito di scrutare scrupolosamente nei nostri cuori e valutare fino a qual punto il materialismo anticristico ci ha soggiogati.
È un compito spinoso, antipatico, a tutta prima perfino masochistico. Ma se il cielo appare lontano e irraggiungibile visto da quaggiú, la colpa non è di chi suggerisce il rimedio.
Una nuova vita che nasce, non può non corrispondere ad un nostro simultaneo nascere in una nuova vita: un modo di vedere se stessi proiettati nelle vicissitudini dei singoli percorsi, delle vie individuali, nel loro continuo intrecciarsi e intersecarsi, con uno sguardo diverso da prima. Il non interessante, l’inutile, l’effimero, l’astratto poco attraente, il semplice, l’inerme, diventano qui essenza, fondamento, acquistano il significato di scopo e direzione. Solo dopo si sa che li avevamo cercati, invano, anche prima, ma li abbiamo cercati laddove non potevano essere, se non come flebile segno o vago ricordo.
Abbiamo trascorso e festeggiato, se cosí si può dire, tanti Natali perduti, ed ogni volta essi passavano con un senso di scorrimento quasi elusivo, indistinto, come un mormorío interiore incomprensibile alla mente e indicibile al cuore. Ora, toccati non solo nei portafogli, negli averi, nella stabilità consolidata, ma pure nel nervo messo a nudo dei pensieri e degli affetti, tesi come gigantesche vele gonfiate al vento della paura e della preoccupazione, i coinvolti europei, cioè noi, assistiamo agli arrivi, agli sbarchi, agli innumerevoli accidentati percorsi di gente straniera che sempre piú ci addita come traguardo e riferimento. Ne abbiamo paura, perché inconsciamente avvertiamo la richiesta di un cambiamento su scala continentale.
Da dare, oltre alla nostra collettiva ritrosia, abbiamo il senso fariseo di un garantismo vigilato, decrepite pagine d’una storia di civiltà a singhiozzo, e pretese di democrazia che ondeggiano al vento di libertà comperata a forfait o a prezzo da concordare. Troppo poco per volgere al meglio un sommovimento epocale.
Ma è proprio per questo motivo che arrivano gli estranei, gli “altri”, o “quelli là”: per trasformare la nostra indisponibilità in una nuova intuizione, frutto di una logica che sia ad un tempo pensiero d’amore e amore pensante. Non sono in grado di dircelo, né di spiegarcelo né di illustrarcelo con le slide, ma stanno mettendo in gioco le loro stesse esistenze nel tentativo di farcelo capire.
Io non cerco l’insorgere di un ulteriore significato del Natale, né desidero che la mia anima esploda nella potenza sovrumana di un’esperienza impossibile, cui nessun dio mi costringe. Voglio soltanto che questa strada fin qui percorsa, bene o male, divenga, da questo Natale in poi, la “mia strada”. E se la vita mi offre l’occasione di percorrerla assieme a ondate di naufraghi, profughi, esiliati e rifugiati, io trovo la cosa giusta e sacrosanta, perché anch’io sono un naufrago come loro, anch’io devo cominciare a staccarmi da un mondo di cose, di affetti, di luoghi e di ricordi che nel tempo si sono fatti prepotenti, insostenibili, e sotto il cui peso mi s’incurva la schiena.
Anch’io voglio dirigermi verso un mondo migliore, andare incontro al mio futuro che, in sostanza, dopo aver descritto una circonferenza di raggio cosmico, mi giunge a speculo inverso e mi restituisce un passato, tutto ancora da riscoprire, se l’anima avrà maturato nuovi occhi per vedere e nuove orecchie per sentire.
Andare incontro ai naufraghi è andare incontro a quel che siamo stati e che abbiamo totalmente dimenticato d’esser stati. Ma il Bambino puntualmente rinasce nel tempo, e concede il Pensiero della Memoria a quanti intraprendano il cammino che porta a Lui.
Perché il Natale reca in sé un grande dono: quello di cui l’umanità intera necessita senza averne ancora una convinta consapevolezza, ed è una meravigliosa recondita possibilità: il segreto di scoprirsi un re, che abbandonato trono, reggia e “la cortigiana gente”, se ne va via, fuori; esce all’aria aperta; si mischia a folle di bisognosi, di straccioni, di disperati lividi per la fame e per un rancore che urla al vento la sua rabbia carica di secoli. Per stare con loro, per essere uno di loro, per capirli veramente, prima di cominciare ad amarli nella misura in cui mi/ci sarà possibile farlo. Tentare è, o fra breve diventerà, l’unica soluzione. Forse in cambio, saranno insulti, incomprensioni, voleranno sputi, gestacci e minacce, ma a Dicembre la Via Crucis è ancora lontana, e da qui a Pasqua molte cose possono cambiare.
Quindi Buon Natale ai Naufraghi arrivati e in arrivo, Buon Natale ai Naufraghi stanziali e residenti.
La nostra scienza ci racconta di “energie rinnovabili”; ci esorta attingervi quanto prima, perché in un prossimo futuro rappresenteranno le uniche risorse rimaste.
Beh, molti già lo sanno, sia pure a livello di semplice notizia: le sorti della terra si legano neanche troppo misteriosamente con quelle dell’anima umana. Spiritualmente parlando, questo Natale, cosí pieno di sacrifici e speranze, sarà una buona occasione (forse l’ultima) per rinnovare dal profondo le nostre energie. Tutto sta a vedere se si sia capito bene di quale energia e di quale rinnovo abbiamo veramente bisogno.
Angelo Lombroni