La notte in cui nacque il Signore
si svolse una scena sui mondi
fra gli Angeli stupiti al prodigio
annunciato agli albori del mondo.
Le Porte fra Cielo e Terra eran chiuse,
vegliate sempre dagli Immortali
come serrate da tante travi,
impenetrabili ai cuori.
E l’angelo della Parola
nella notte piú buia del mondo
lui solo volò nel profondo
dei tempi, sul monte Tabor.
E scrutava, scrutava la terra
di Betlemme e il deserto di Giuda,
le valli, le rocce, gli armenti,
dal Libano fino al Giordano.
Ecco, una voce risuona celestiale,
tre colpi bussano alla porta,
sussurra l’angelo orientale
che chiede: «È nato il Signore?».
L’angelo dell’Annuncio risponde:
«Vedo la Terra ancora sofferta,
questo cieco dolor mi confonde.
No, non è ancor nato il Signore».
Chino sulla rupe, diffonde
Gabriele il suo sguardo di luce
che penetra fino alle sponde
del fiume consacrato al Signore.
Si odono nella notte santa
altri colpi. È l’angelo occidentale
che chiama con voce d’incanto:
«È nato, è nato il Signore?».
Non sostiene afflitto Gabriele
il peso addolorato del mondo,
quel cammino di spine, e in fondo
piange: «Non è nato il Signore».
È notte anche a Betlemme,
i Viandanti ora hanno un riparo,
e il cielo si tinge di un manto
infinito di stelle lontane.
Fissa, dorata, una luce rimane
all’apertura di una povera grotta.
Alla fronte porta la mano
Gabriele, che attende l’evento:
ecco, ecco il suo cuore contento
non pulsa, non pulsa invano.
Battono ancora alle Porte della Terra
tre colpi potenti, sovrumani,
è Michele, l’angelo che atterra
il nemico: «È nato il Signore?».
Si accende, come un sole, nell’aria
della notte una luce lontana:
un Bambino di bellezza divinumana
sorride alla Madre e al mondo.
E allora — ecco il segnale —
gridando: «Le Porte, le Porte»
Gabriele allarga festoso le ali:
«È nato il Bambino, il Signore!».
Gli Angeli disserran le Porte
che dividono la Terra dal Cielo:
«Ciascuno di noi vestito da pastore
vada a Betlemme ad adorare il Signore!».
Gabriele Burrini
Ed il silenzio fu già l’incontro.
Era quel tempo in cui offersi
all’olocausto della polvere
la mite cima del mio abbandono.
Come un vecchio dimesso
ricurvo su di un cero votivo.
La mano a difesa
della trepida fiamma:
«Lasciate che ella permanga
nelle piccole cose
che a lei sopravvissero:
nel soliloquio
di una forma obliata
nel canovaccio dimesso
ove asciugavano
le poche stoviglie».
Azzurrità festosa,
madre della puerpera silente,
si leva oltre le ceneri,
nell’effluvio luminoso
che non vede la luce.
E da un verbo di solo suono
balenò il tuo nome
come una folgore
impresse il verbo
il vangelo della luce.
E la luce balenò in silenzio
esprimendo il mistero
che occultò la forma.
E la forma
riconobbe il tuo sorriso:
quale atto
dovuto alla creazione.
Si chinarono su te
gli elementi
e le trame del canto.
E mentre ogni cosa diviene
donazione di sé
nel profondere
di una luce ascendente
anch’io, misteriosamente,
rinacqui.
Oleg Nalcoij
È bianco questa notte il cielo.
Come piuma la neve si è posata
sulla luce dorata di una primula.
Nata in un mite inverno,
il freddo ha preservato il suo splendore:
Dalla corona delle verdi foglie
sbocciano gialli i petali:
nel sonno della terra che prodigio!
Forse un angelo in volo sul giardino
ha lasciato cadere un po’ di luce
dalla veste intessuta di sole.
Forse lo sguardo un attimo ha posato
sulle piccole foglie verdeggianti
e dal raggio celeste è scaturito
questo fiore dorato.
Miracoli di vita che mai muore
e il tempo dell’Avvento fa sbocciare.
Alda Gallerano