Il fascino indiscreto dell'ambiguità

Considerazioni

Il fascino indiuscreto dell'ambiguità


Non poche persone, specie in età, si interessano ai necrologi riportati sui quotidiani locali. Lo fanno per molte ragioni, tutte plausibili e in gran parte sicuramente lodevoli. Ho provato a farlo anch’io per vedere quale rapporto s’instauri tra il sottoscritto, piú o meno in lista di attesa, e le comunicazioni degli avvenuti trapassi.

NecrologiCiò che ho scoperto non è molto edificante ma proprio per questo è meglio parlarne. Dico “parlarne” in quanto scrivere vuol dire soprattutto parlare con se stessi e non è detto che ci sia sempre un accordo unanime tra le fazioni che smuovono le anime, anche quando incautamente affermiamo d’esser tutti d’un pezzo e che nulla ci piegherà a voleri estranei. Questi, per dirne una, sono casi gravi di cecità interiore.

Nel venire a sapere della morte d’una persona (parente, amico, conoscente), esaurite le prime reazioni tipiche d’ogni perdita ritenuta irreparabile, quel che resta è una preoccupante “soddisfazioncella” di fondo, derivata dal fatto che comunque “io” sono ancora qui vivo e vegeto.

Naturalmente la cosa è nascosta sotto le coperte dell’ambiguità: anzi, di un ambiguismo studiato e perfezionato in anni di rispettosa attenzione alle facciate, alle superfici, ai mascheramenti che indossiamo pro bono nobis, ma con la convinzione di farlo, quasi fosse un sacrificio, a vantaggio di altri, anche se (a restare nel costrutto della riflessione) non se lo meriterebbero.

L’inghippo quindi sorge come sempre nell’anima; non riconosciuto, anzi, ben determinati a non riconoscerlo, riversiamo all’esterno il problema irrisolto e ci divertiamo a scoprire gli altarini altrui, prendendo in fallo quelli che si son lasciati sorprendere in una delle svariate forme di compromissione possibili su questa terra.

Lo scoop, lo scandalo, il gossip, che in altra epoca avrebbero potuto, o dovuto, restare confinati nei limiti della pubblica decenza, oggi, ringalluzziti come non mai, sono i padroni delle relazioni nel senso esteso della parola, in quanto non vanno a colpire gli sconosciuti Cai, Tizi e Semproni (il cui ricordo svanisce nei minuti successivi al suo presentarsi), ma sono diventati elemento costitutivo dei rapporti transnazionali, con Stati, Paesi e istituzioni, facendo oscillare le altalene degli indici di borsa, e non di rado provocando malumori, risentimenti e avversioni collettive, che tendono a finire in disastri cruenti.

Mi chiedo se questo modo di pensare, sentire ed agire sia veramente umano. Mentre scrivo, nel centro città impazza il “Natale”; tutti corrono qua e là come dissennati, abbandonando le automobili in terza fila, carichi di pacchetti e pacchettini, perché… perché il Natale è fatto cosí! Ci intralciamo l’un l’altro costretti a servire di corsa il demone del consumismo, il quale, gentile e puntuale (come sanno fare i demoni quando non vogliono farsi riconoscere) alla fine di ogni anno ci regala tredicesime, gratifiche, bonus e coupon, per spingerci a restituirgli quanto prima il malloppo, che è sempre stato suo, ma che gli è servito a farci sciamare qua e là, come locuste affamate, convinti d’esser protagonisti delle campagne promozionali imbandite all’occorrenza.

Ho posto la febbre natalizia, in quanto passata da poco; ma naturalmente il discorso fila per tutti i tipi di festività, religiose o civili che siano: tant’è che per alimentare la pacchia del commercio e dei servizi, ci siamo inventati festività completamente nuove, sconosciute fino a poco fa, e abbiamo riempito i calendari di ricorrenze insensate, utili soltanto ai polmoni di quanti inspirano la pecuni-aria, oggi piú ricercata di quella montana.

Non ci vuole molto per capire che qualcosa non va: cercare, fuori di noi, la possibilità d’un criterio, un distinguo, solamente per “isolare” l’errore iniziale, dal quale tutto poi prosegue a cascata, e che è stato codificato con deferenza nei testi unici del comportamentismo massificato, è un tentativo che rimpingua esclusivamente il portafoglio di potentati, imbonitori, ciarlatani, maghi e stregoni (ho forse omesso qualche categoria, ma penso di aver reso l’idea).

O comprendiamo da soli quale sia il rimedio, o quanto meno l’esistenza di un rimedio, diventato irrimandabile, o ci ritroveremo tutti nella logica conseguenza di rimpiangere amaramente il non averlo fatto quando ancora c’era la possibilità di farlo.

A questo mio ragionare, qualcuno si è opposto seccato, rinfacciandomelo come “minacce da predicatore, cresciuto all’ombra di psichismi endemici mal digeriti” (sic!)

Mi sta bene; una critica non vale piú del suo sostenitore; e se risulta che l’abbia ponderata prima di esternarla, il problema è tutto suo.

Ma è per l’appunto in questo che consiste e prospera il “fascino indiscreto dell’ambiguità”. Ci danno fastidio le prediche non per quello che esse dicono, ma perché avvertiamo in modo ancora molto embrionale, eppure insistente, che avremmo dovuto esser noi i primi a rivolgere quei toni da filippica al caos che ci domina le menti e i cuori.

Quentin Massys La cacciata dei mercanti dal tempio

Quentin Massys «La cacciata dei mercanti dal tempio»

Avremmo dovuto essere noi a prender coraggio, a cogliere l’esempio di Gesú che caccia via i mercanti dal Tempio; avremmo dovuto essere noi ad accorgerci che il tempio della nostra interiorità si è progressivamente riempito di mercanti, ladri e prostitute; che abbiamo concesso a questa folla variopinta e ammiccante, tutto lo spazio che ha voluto, fino ad esserne spodestati quali, se non titolari, almeno responsabili della gestione.

In questa epoca l’interesse generale per i valori che contano è inversamente proporzionale alla frenetica ricerca di un obiettivo in cui valga ancora la pena di credere; ma per nostra malvissuta esperienza, questo obiettivo o corrisponde a qualcosa di tangibile, concreto, capace di dare lustro e potere a chi lo agguanta, o non esiste proprio; onde per cui ci si arrangia, elaborando in astratto miti, idoli e tendenza, in pieno XXI secolo, seguendo la fantasticheria, e la disperazione che le fa da scorta.

  Vi è un concetto di Massimo Scaligero, che riguarda la posizione delle scienze ufficiali rispetto al problema generale della conoscenza, ma è facilmente trasportabile sul piano dell’evoluzione attualmente in corso: noi (ovvero: i nostri scienziati) osserviamo l’acqua scorrere nelle tubature, poi stacchiamo un pezzo di tubo e lo studiamo molto seriamente cercando di capire come il metallo possa produrre l’acqua. Non stiamo forse facendo altrettanto con i nostri giorni? Abbiamo scoperto che la vita contiene dei piaceri e ci mettiamo a studiare i piaceri, portandoli all’esasperazione e quindi stravolgendone la natura, chiedendoci dove stia quella vita che sembrava in qualche modo contenerli. Mi pare che tutte le manifestazioni esistenzialistiche siano condensabili in questo nòcciolo. Che non si può sfatare, ma solo peggiorare con ulteriori ingorghi dialettici presupposti alla stregua di ideali.

Strada facendo abbiamo dimenticato qualche cosa, forse un pezzo di tubo, o forse una parte di vita; magari quella che andava vissuta senza condizionamenti e sofisticazioni. Chissà se ciò che sta accadendo al mondo riuscirà a farsi strada nelle coscienze fino a rivelarsi in una semplice e chiara intuizione: le cose sono molto piú complesse di quanto avevamo creduto.

In molti ci hanno insegnato a non darci troppo peso, a non farci caso; in pochi, ci hanno avvertito di quel che sarebbe – non fatalmente ‒ accaduto; ma questi ultimi si sono rivelati meno simpatici degli altri e pertanto abbiamo disertato le loro noiose dottrine, le annesse barbose istruzioni, per accedere a quelle di massa, dove dal bidello al rettore tutto è pianificato, snack, drink, coffee break compresi, e i risultati dei profitti scolastici sono messi in vendita secondo le leggi del libero mercato.

Abbiamo intessuto una struttura sociale basata sulle ambiguità, sui compromessi, sulle manipolazioni e del pari sull’enorme divario tra ciò che normalmente si dice di voler fare e ciò che ‒ piuttosto anormalmente – si pensa. Perché lamentarci, perché protestare dunque, se avvenimenti sempre piú drastici e incomprensibili si prendono la scena e ci mostrano – talvolta in modo apocalittico ‒ quel che si sarebbe dovuto fare per evitarli, o quanto meno per dar loro un corso diverso?

Ma, anche se da quanto scritto fin qui non traspare, io rimango ottimista; non tanto per l’uomo in sé, ma per quel che porta in sé senza saperlo, senza conoscerlo, senza badarci neppure per un attimo, se non nei casi acuti, drammaticamente esasperati, dove si gioca il tutto per tutto. Allora saltano fuori preghiere, sacrifici, invocazioni, che, deturpati dal peso della necessità incombente, valgono poco, molto poco.

Se però la speranza è l’ultima dea, io credo che l’ottimismo sia il penultimo semidio; penultimo in quanto dopo ce ne deve essere ancora uno (in questo consiste l’ottimismo). E per ottimismo voglio intendere il saper cogliere, sempre e ovunque, il senso positivo in quel che sta capitando. Mosè sul SinaiSi può, in tutte le circostanze e oltre la sollecitazione di situazioni incandescenti, prendere in mano le redini della propria esistenza; uscire dalla torbida, comoda ambiguità in cui ci siamo allevati, e dirsi francamente quel che vorremmo fare da questo momento in avanti.

Ma qui dobbiamo capirci bene! Scusate se parlo come se avessi una platea davanti; può causare qualche fastidio, lo ammetto, ma chi usa la pazienza di seguire le riflessioni, abbia anche la pazienza di considerare questo mio, un discorso fatto prima di tutto a me stesso, anzi, ai tanti me stesso che affollano l’anima, e privi di una guida, di una meta, spesso si agitano turbandola in vari modi.

Non hanno tutti i torti; anche gli Ebrei liberati dalla schiavitú d’Egitto persero la fiducia in Mosè mentre questi indugiava – secondo loro ‒ in vetta al Sinai. D’altra parte non avrebbero nemmeno lontanamente potuto immaginare quel che stava combinando e con Chi.

Comunque sia, se la vita che crediamo di vivere dipende da quel che proviamo interiormente, ovviamente in relazione agli eventi della realtà da cui non possiamo prescindere, e siamo d’accordo che quanto “sentiamo” agitarsi in noi richiama un’unica parola: Anima, allora sarà da là che dobbiamo partire, vedendo prima se la lunga latitanza della nostra coscienza non le abbia nel frattempo causato qualche impiccio, qualche guaio, che potrebbe essersi degenerato in un guasto serio.

Al proposito, tra le migliaia di conferenze tenute da Rudolf Steiner, ve ne sono alcune in cui il Dottore si esprime con particolare precisione sul rapporto “sano” che dovrebbe intercorrere tra l’anima e il pensare; in una particolarmente, con maggiore puntualizzazione, Egli ci parla della «fiducia che l’anima dovrebbe nutrire nel pensare».

Sarebbe bene soffermarsi qui a lungo; Rudolf Steiner ci mette in mano una piccola frase, ma è la chiave di volta capace di stravolgere l’ordinario corso delle cose; un corso ovviamente ammalato (non saprei se piú se per smog, per radiazioni atomiche, per panacee geneticamente modificate, o per bombardamenti democraticamente liberatori) e quindi riportabile ad un miglior equilibrio da cui poter far ripartire il corretto sviluppo del nostro essere.

Perché l’anima dovrebbe nutrire fiducia nel pensare? È una domanda alla quale si può rispondere in molti modi, ma, fra tanti, scelgo uno che mi pare semplice e significativo: il pensare, colto ora come forza-energia pensante, è tra le varie cose anche la forza-energia della vita dell’anima. È ciò che aria, luce e acqua sono per la Terra e per le creature che ci vivono sopra. Senza questa forza-energia pensante l’anima rinsecchisce, diventa amorfa, si svilisce.

Ecco spiegarsi il motivo di questo continuo desiderio di stordirci col buttarci a capofitto nella lotta per il lavoro, per il guadagno, per il potere, alla ricerca di emozioni segrete degenerate e degenerabili in vizi, fino all’autolesionismo; sono strade che per un po’ sembrano servire, non fosse altro che a distrarci dal problema principale; finché arriva il giorno in cui non ci pensiamo piú e chiediamo al Signore del Caos e del Frastuono di accoglierci nell’Avvilimento Perenne, che è il suo regno.

ChiromanteNon ci sentiamo capiti abbastanza? Non ci sentiamo amati a sufficienza? Ma chiediamoci invece se abbiamo speso qualche decina di minuti tanto per vedere se davvero ci capiamo da noi! Se siamo in grado di essere i primi a dare alla nostra anima, e quindi alla nostra salute interiore (e all’e­quilibrio psicofisico che ne dipende) quell’amore che invece pretendiamo da qualcu­no, da qualcuna o comunque da altri. Preferiamo farci indicare modi e metodi dai neu­rologi, dagli analisti, dagli psicoterapeuti, oppure dalla chiromante o dal Mago di Canicattí?

Come si può essere cosí confusi, vacillanti e quindi di conseguenza “ambigui”, da sperare che vi sia qualcuno su questa terra in grado di conoscerci meglio e piú a fondo di noi? Con ciò mi guardo bene dall’affermare che ci conosciamo totalmente, ma mi pare del tutto scontato che i lavori di scavo, posto che li si voglia fare, dobbiamo farceli da soli.

Ed un passo in questa direzione si compie quando la smettiamo alla fine di giocare con i termini, con i significati delle parole, e cominciamo una buona volta a distinguere la forza, o energia pensante, dai pensieri che invece sono confezionati, ossia sono stati prodotti da noi, o da altri, e ce li portiamo dentro come punti fermi, riferimenti di massima. Non sono nulla di piú che belle frasi, opinioni, aforismi; ma quel che vale evidenziare è che sono stati collocati sulle bancarelle dei circuiti mentali formando una stratificazione di nozionismi, spesso inutili, a volte fallaci, e sempre dannosi.

Capire che prima di qualsiasi pensiero pensato c’è una forza, una sorgente di energia che ci consente di plasmare ogni nostra riflessione, dalla piú stolida alla piú acuta, è un enorme punto d’arrivo; perché in esso si sperimenta una saldezza inamovibile. Proprio quella che mancava.

Tutto ciò che segue è ordinario pensiero, ordinario sentimento e ordinaria volizione: ossia gli ingredienti perfetti per vivere ordinariamente una vita piena zeppa di ordinari disagi, per il semplice motivo che non siamo stati creati per ridurci cosí.

Siamo stati creati per portare incontro al mondo, alla natura, a tutto ciò che appare come “altro-da-noi” la chiave della ricongiunzione tra il sistema Terra e il mondo dello Spirito. Lo possiamo fare perché la nostra anima è diretta emanazione dello Spirito; lo vogliamo fare perché ascoltandola veniamo a conoscere il segreto per cui siamo venuti in questo mondo.

Non è possibile tuttavia prestare ascolto alle richieste dell’anima se prima non la si distoglie, almeno un momento, dal caos, dagli affanni tumultuosi, dai parossismi che la dominano. Tale è ora la sua condizione. Accorgersene significa cogliere un primo barlume di logica nello scorrere dei nostri pensieri. Ma significa oltretutto che l’intuizione, l’animadversio ricevuta, è stata accolta perché ci siamo posti per un istante fuori dall’alterazione, e per questo, possiamo ora vederla con sufficiente obiettività.

L’energia-pensiero è presente sempre e ovunque. Permea il creato, lo guida nel senso evolutivo; si affaccia nel terrestre, nella materia, nel fisico-sensibile come vita; tanto biologica quanto spirituale. Sostiene la nostra fisicità corporea perché è forza vitale; alimenta l’anima come esperienza di eternità dentro la caducità; e – ove non bastasse ‒ giunge al cerebro come potenza luminosa, sorgente di chiarezza, facoltà pensante. A questa soltanto l’anima deve imparare a rivolgersi; tutto il resto essendo solo aspetti di contraddizione utili a ritrovare (o a smarrire) il coraggio di riedificarli secondo l’originaria armonia; non certo per soggiacere fino ad ammalarsene.

Deflagrare di una supernovaQuel che della forza-pensiero viene emesso dal cervello, qualunque sia la forma provvisoria prodotta (moti, congetture, linee ideali, propositi e affermazioni) deve venir considerato come una microscopica riduzione, una miniatura di quanto essa era prima di apparire nei nostri circuiti mentali. Si tratta di un ridimensionamento del tutto amorevole nei nostri confronti, ché, avendo l’avventura di accogliere nel pieno tale forza, deflagreremmo come supernovae giunte al culmine del ciclo siderale.

Abbiamo cosí delimitato l’area del guasto corrente, del guasto di cui ogni cosa del mondo, reinterpretata secondo percezione e rappresentazione, ci dice che non è vero, che non c’è alcun guasto; ma anzi, va tutto bene cosí, e se dovesse andar male, che c’entro io? Sono gli altri ad esser malvagi anche per me. Sono gli altri a compiere il male. Io ho dovuto solo difendermi…

Come si vede, anche l’ambiguità ha i suoi trionfi! La lanterna di Diogene, i dubbi di Amleto stanno alla pari con la Gelassenheit di Heidegger e con il Principio d’Indeterminazione di Heisenberg. La partenza d’ogni nostra ricerca, in qualsiasi settore applicativo, può considerarsi seria a patto che il ricercatore sia (e si dichiari) consapevole d’essere: 1. un pozzo d’ignoranze; 2. e nello stesso tempo, un membro di quella specie che è l’unica forma vivente conosciuta in grado di colmarlo.

Contro questa considerazione mi è stata mossa una critica severa: «Con quale diritto ti metti a giudicare il pensiero di filosofi e scienziati?». Posso dire che la mia opinione non riguarda ciò che hanno prodotto come pensiero ‒ che è, e resta, insindacabile ‒ ma dalla posizione assunta nel crearlo e nella gestione che ne hanno fatto dopo. So per certo che molti illustri del passato, se venisse loro offerta l’opportunità, modificherebbero oggi i loro enunciati, integrandoli o restringendoli, e forse, in qualche caso, evitando addirittura di proferirli.

La ratio del discorso si focalizza quindi su quel che avviene prima che il pensiero appaia già come fatto compiuto. Questo accade grazie all’energia-forza-pensiero che ha offerto la sua propria attività spirituale al punto di individualizzarsi nella carne di un numero iperbolico di soggetti, tutti ugualmente capaci di ridestarsi dal sonno della materialità in cui, per vivere la loro avventura, hanno accettato di lasciarsi imprigionare.

È chiaro che per essere il gioco nato nella purezza della verità, deve anche, giustamente, contenere un rischio, e per di piú un rischio di alta probabilità; qui non voglio sottostare alla necessità di fare dichiarazioni sulla testa o sulla croce del problema. Questo lo lascio volentieri ai praticanti di magia noir-fumé in tempo di exit poll. Ma desidero sottolineare quanto sia divenuto pericoloso il nostro andamento se non poniamo una forte dose di attenzione ai percorsi di vita, da dove si sviluppano e come si indirizzano.

Dice un saggio che i comportamenti vengono dalle abitudini, le abitudini dalle inclinazioni e le inclinazioni dipendono dal grado di consapevolezza con il quale ci raffiguriamo l’essere umano. Ed è tanto piú vero se comprenderemo che c’è una responsabilità non solo per quanto abbiamo fatto, ma anche per tutto quello che, potendolo fare, non facciamo.

Se alla fin fine risulta che dal buio tetro dell’ignorare la nostra coscienza vede il cosiddetto “umano” come un semplice involucro di carne ed ossa, da soddisfare quanto piú possibile prima e depositare in acconcio contenitore all’ora designata, dovremmo rammaricarci perché per tutta la vita abbiamo esercitato la faticaccia dell’ambiguità, con uno sforzo tanto notevole (essere ambigui non è gratuito come da bravi Pinocchi abbiamo creduto) quanto completamente inutile per sé e per il resto.

Amfortas feritoIn questo paradosso, continuare a vivere una vita sempre piú intricata e insoddisfacente, perché ogni forma di risveglio alla luce dello Spirito sembra o non esistere, essere una pia illusione, o addirittura esser già stata superata dall’ingegno umano in fatto di scienza e tecnica, vige quel famoso guasto iniziale che ha ridotto le anime a quel che sono: l’opera devastatrice del materialismo sta avanzando nell’attuale fase storica in progressione geometrica.

Per fermarla abbiamo il pensare, la conoscenza, e i Maestri che hanno trascorso la loro esistenza terrena nel tentativo di farcelo capire. Di far sí che pur nell’indurimento pietrino dei cuori entrasse almeno un barlume, uno solo, sufficiente a darci l’intuizione che l’in­versione di rotta dobbiamo compierla singolarmente, senza proclami e sbandieramenti.

La leggenda di Amfortas narra della sua ferita insanabile; la lancia, in senso allegorico, è sempre infitta nel suo fianco, ma tale sen­so rivela un’informazione che trascende il simbolismo in cui è racchiusa.

Quella lancia può diventare la Lancia della Guarigione, ove l’ammalato, il ferito, il perduto, ravvisi in sé il potere dello Spirito che scorre nel pensare e nel volere e trasferisca la purezza di questo autoconvincimento alla sua anima agonizzante. Essa non attende altro se non il conferimento d’una coscienza pensante, volutamente pensante, la quale, indagando l’oceano delle possibilità, ri­conosce alla capacità indagante il consolidarsi di tutte le fluttuazioni e il loro culminare nella grani­tica certezza d’esser matrice d’ogni sostegno.

Paolo Uccello  «San Giorgio e il drago

Paolo Uccello «San Giorgio e il drago»

Quando eravamo bambini abbiamo spes­so ascoltato le fiabe, e in molte di esse si par­lava di una Principessa prigioniera di un Drago, oppure addormentata per maleficio, in un sonno senza risveglio; a volte il luogo, un castello, una radura, in cui l’incantesi­mo si compiva, era protetto da una cortina di fiamme, che non si espandevano, ma si limitavano a custodire l’intimo segreto.

Piú avanti, già adulti, ci è capitata sotto gli occhi la parabola delle Vergini sagge e di quelle stolte; e abbiamo intravisto le due differenti maniere di attendere lo Sposo. Come abbiamo liquidato quello Sposo? Come il Principe Azzurro o il Guerriero Coraggioso delle favole e dei miti? Ad una mia richiesta di precisazione (avevo 11 anni) un prete rispose: «Ma bambino mio! È chiaro che si trattava di Gesú, no?». Ma come poteva essere chiaro? Che cos’ero io? Una Principessa dormiente o una Bella prigioniera di un Orco cattivo? E che c’entrava Gesú in tutto questo? Nozze di Cana a parte, non ricordavo nulla che relazionasse la figura del Cristo con gli sponsali di alcunché. Non sapevo nulla di un Gesú Ammazzadraghi o Principe disincantatore.

Ora lo so, e non è troppo tardi: bisognava prima di tutto raccontare all’anima della sua origine, della sua vita prima e dopo l’incarnazione e del suo avvenire lungo una certa proiezione. Bisognava dirle quale fosse il potere dello Sposo da lei sempre agognato e mai del tutto incontrato nel mon­do. Bisognava avvertirla che avrebbe dovuto confrontarsi solo con tracce, orme, segni di un (forse) probabile passaggio, ma ogni volta cancellato dal vento dei fatti concreti e dal gelo della delusione.

Ora so che bisogna raccontare all’anima del Pensiero; farle percepire che essa gli appartiene, è totalmente sua, e che se una tale notizia non ha avuto ancora modo di irrompere dentro il grigiore della vicissitudine terrena, è perché da sola, essa, si è sentita abbandonata e non ha trovato il coraggio di riprendere quel cammino che pure, divenendo umana, decise un tempo di compiere.

Non c’era altro cammino che quello per ritrovare nel pensare, sfrondato da tutte le cerebro-applicazioni, la via, la verità e la vita. “Via, Verità Vita”? è una coincidenza? Sta a noi, con il pensare, nel pensare, intuirne la non casualità.

Nel pubblicare le notizie con relative foto, in molti casi i giornali creano una dissolvenza sui volti che per la tutela dell’immagine non devono venir riconosciuti, anche se tutti li vedono e fanno poi a gara per capire a chi appartengano. Il che non è neppure troppo difficile, perché spesso l’obnubilamento è puramente formale. Nei paesi civilizzati, industrializzati e democraticizzati, gli eletti ai vertici della sfera politica dovrebbero rappresentare il “meglio” della popolazione, lavorare ed operare nell’esclusivo interesse delle loro nazioni. Sembra corretto questo pensiero? Se sí, dovremmo allora porre un’ulteriore domanda: “Perché girano con la scorta armata e le auto blindate? Se fanno davvero il nostro bene, che hanno da temere?”.

Il leader della potenza XY afferma, in conferenza stampa, di sperare di “non essere costretto all’impiego di armi nucleari”… con tutto quel che segue. Quale significato viene giornalisticamente “girato” all’opinione pubblica? “ C’è stata una neppur troppo velata minaccia”… ecc. Oramai la prima lettura è quella che si legge dietro le righe.

Sono state indette tra i Paesi europei moltissime riunioni top summit per studiare una possibile strategia per risolvere? No. Per ridurre? Neanche. Per gestire? Forse… il problema del flusso migratorio dai territori infiammati dell’Africa e del Medio Oriente. Unico risultato, peraltro non dichiarato né condiviso: innalzamento di muri e barriere di filo spinato sui confini.

La presenza di contingenti armati (e quando dico armati intendo dire fino ai denti: un soldato d’oggi farebbe sfigurare, quanto ad equipaggiamento, persino i terribili guerrieri dei fumetti degli anni ’40 e ’50) nelle zone turbolente del globo si giustifica con il fatto che laddove vi è un’insurre­zione civile (evidentemente ce ne devono essere anche di incivili) il resto del mondo deve accorrere per “controllare” la situazione, prodigarsi affinché non degeneri, e i contendenti in campo si limitino a rompere soltanto le reciproche teste. Vengono chiamate “Forze di Interdizione” o di “ Interposizione”, a seconda del grado di ambiguità che si vuol dare al sepolcro dopo averlo imbiancato.

Ho portato alcuni esempi di gioco delle sfumature. Ma l’elenco è aperto e chi desidera può rincarare la dose.

L’opposizione, non verticalizzata, non indirizzata verso la verace ricerca di una possibile intesa, è solo scontro. Reca dolore, lutti, ulteriore avversione e non ha costrutto alcuno. Noi crediamo che le opposizioni, pure quelle astrologiche, debbano funzionare cosí: inscenare continue guerre di Troia e portarle avanti all’infinito.

Eppure quando l’uomo riguarda con attenzione e serenità la propria struttura, non può non vedere come egli stesso sia un esempio preciso e miracoloso di un’opposizione che però non tocca minimamente l’ambiguità; non è sfumatura, gioco di ombre o spettro di allucinogeni. Egli stesso è il frutto di un’opposizione, ma è l’opposizione che edifica e dalla quale viene puntualmente riedificato.

Contemporaneamente, è cittadino di due mondi; visti da lui, cosí come oggi è, devono per forza apparirgli opposti, anzi, contrapposti: sono due polarità estreme. Non gli è possibile, tuttavia, in alcun modo definire la loro relazione come inconciliabile; si contraddirebbe, per il semplice fatto che vive, ama e agisce da uomo, per far sí che la sua specie possa continuare ad esistere e migliorare.

Come concilia il peso della materia di cui è fatto il suo corpo con la volatilità eterea della sostanza sottile che permea l’anima e le facoltà psichiche? Eppure è l’unica cosa che da neonato fino ad aspirante cadavere, gli riesce bene, senza istruzioni particolari e senza fatica eccessiva.

In noi, Spirito e materia, Luce e tenebra, Eternità e mortalità si congiungono. Ciascun uomo è responsabile di questa congiunzione, che diventa opposizione solo se studiata con un pensiero in cui il contrasto ha già assunto il morbo dell’ambiguità. In molti casi può venire non vista, non considerata, forse non compresa, ma in molti altri, sia pure per gradi diversi, questo invece può accadere; secondo il calcolo delle probabilità, è impossibile che non accada, dato il numero delle anime che continuamente scendono sulla Terra e risalgono nell’Aldilà. Ce n’è sempre qualcuna capace di accorgersi di quel che è e di quel che sta facendo di se stessa. Ma non ci si può curare se prima non ci si avvede dei propri mali.

Non tutti e non sempre saremo disponibili ad avvilire e deturpare i soggiorni terrestri nella pece dell’ambiguità. Anche se la mascheriamo con opportune liturgie e ieratismi artisticamente rappresentati.

Con tali riflessioni, solo spunti di possibili approfondimenti, ho piacere d’accompagnarmi nella mia intima quotidianità; mi metto comodamente seduto davanti ad una tazzina di caffè fumante, e sfogliando il giornale, giunto alla pagina delle necrologie, mi auguro di comportarmi, vorrei qui dire ‘meglio’, ma la parola è poverella, troppo vaga: preferisco dirla in modo piú costruttivo: d’avere un atteggiamento interiore piú affine a quel che l’evoluzione si aspetta dall’umano. Ovvero affine a ciò che lo Spirito chiede all’anima per divenirne lo Sposo.

Angelo Lombroni