Piú volte ho accennato al tema dell’opposizione, rientrando in questo ogni sorta d’antagonismo, da quello politico-sociale a quello letterario-culturale e, cosa frequente, pure quello filosofico-scientifico. Naturalmente a seconda del settore cui si rivolge, o meglio che vuol fronteggiare, l’opposizione prende nomi e sfumature diverse: può essere contestazione, dibattito, alterco, insurrezione, rivolta, sommossa e anche guerra. Gli aspetti non mancano, tutti però recano una determinata impronta d’appartenenza: il dramma di lotta senza quartiere e senza esclusione di colpi, checché se ne possa dire diversamente. Forse l’incipit del Libretto Rosso di Mao Tse-Tung è stato, in questa particolare accezione, uno dei piú espliciti, se non nei confronti della verità storica, almeno per quanto appare osservando il grande affresco del suo corso.
Sono abituato a ripercorrere le fasi con le quali ho costruito i ragionamenti su questo tema; ogni volta arrivato all’intima struttura dell’uomo, oggi largamente corporeizzata, ed estraendo fuori da questa l’universo interiore che ciascuno possiede (o da cui è posseduto) non posso esimermi dall’affermare sic et simpliciter che dall’antica dicotomia “Spirito umano/ego”, nascono e discendono infinite le forme di contrarietà che poi noi manifestiamo, portandole al di fuori, alla prima occasione di disappunto o d’insoddisfazione che la vita ci presenta.
Naturalmente questo è un mio punto di vista, e se qualcuno mi fornirà dei validi motivi per cambiarlo o per scostarmene, gliene sarò grato.
Il bello della questione però sta nel fatto che una volta messo sotto accusa il rapporto Spirito/ego, ho creduto per un attimo d’essere arrivato al cuore della questione e, secondo la mia natura, tipica dei devoti di sant’Inerzio, a quel punto non vedevo ragioni per insistere in ulteriori disamine.
Poi invece, leggendo alcune pagine di Scaligero (non occorre qui nominare il libro, tanto Massimo riesce a tirarti degli schiaffoni metafisici, ma comunque sonori, da qualsiasi suo scritto, quando vede che ti stai trastullando sugli allori) mi balza agli occhi questa frase: «si vive perché si esiste, non perché si pensa».
Frase che in tutt’altro contesto di lettura avrei potuto benissimo bypassare senza sofferenza. Ma qui, oggi, no; non mi è possibile. Ci sono inciampato dentro e non riesco a venirne a capo.
Bene, mi sono detto, calma! Qui Massimo chiede di rimboccarsi le maniche e mettersi al lavoro. Va bene, ok! accolgo la sfida. Perché in effetti è d’una sfida che si tratta.
Chiunque legga la frase citata sopra, ricorderà immediatamente un’altra, l’arcinoto “Cogito ergo sum” di Cartesio, apparentemente analoga per incisività e risonanza, ma fortemente contrapposta come significato vero e proprio. Qui adesso s’apre un bel problema: esiste un collegamento di pensiero che possa mettere due riflessioni cosí antitetiche su un piano solidale e costruttivo, e quindi risolvere in tal modo la sensazione degli “opposti pluralismi” conoscitivi che in un primo tempo se ne riceve?
Si potrebbe dire: ma chi me lo fa fare a dar corso a questo problema con tutti i problemi grandi, piccoli e di statura media che ci sono in giro? Possibile che un uomo entrato nel terzo millennio si metta a ragionare su simili astrusità? E poi a qual fine? Chi ha detto mai che debba esistere una spiegazione ragionevole?
Ma per l’appunto, ecco dove sorge il problema: forse, la soluzione perfetta potrebbe anche NON esistere e tuttavia ESSERCI ugualmente.
Bisogna vedere come ognuno di noi si è formato il concetto di “essere” e quello di “esistere”, ed in quale modo se li porta appresso appiccicandoli di volta in volta a qualche rappresentazione di riferimento. Infatti, concedendo particolare peso all’“esistere”, l’“essere” tende a sminuire; dando invece il primato all’“essere”, questo risulta a scapito dell’“esistere”. La medesima cosa vale pure per i concetti di “forma” e “sostanza”. Fanno parte di quelle cose che non sono separate o avverse, ma nell’apprendere le abbiamo inizialmente dovute imparare in forma oppositiva, e questa ci è rimasta come punto fisso.
Mettendo in fila i verbi usati per coniare le due citazioni, otteniamo: vivere – pensare – esistere – essere.
Obiezione numero uno, prima di cominciare a dipanare la matassa: il “sum” di Cartesio va inteso come un “sono” o come un “esisto”? Qui l’uso del latino può creare qualche perplessità; ma confortato da giovani esperti, freschi di laurea in lettere classiche, e anche cedendo un po’ al mio fiuto, direi di poter escludere unastudiata divergenza tra essere ed esistere. Pure in latino c’è il verbo “existere” ma dubito fortemente che Cartesio abbia voluto usarlo nella sua etimologia naturale.
Posto quindi che il filosofo di La Haye usi l’essere nel senso di un “io sono” pienamente logico razionale ma altrettanto pienamente despiritualizzato, non rimane che considerarlo l’archetipo astratto di un sentimento di sé culminante nell’enunciato.
Salta agli occhi che Scaligero usa il verbo “vivere”: quindi, la vita! Cosa che evidentemente importava meno all’altro maestro, il quale nel suo “sum”, cosí categorico e apodittico, era convinto che la vita ci fosse già per antonomasia. Senza la vita che razza di “sum” sarebbe stato il suo?
Si comincia a delineare una divergenza, che diventerà sempre piú marcata nelle ulteriori esposizioni. Se per vita intendiamo anche quella biologica, ossia la concessione delle forze eteriche vitali fatta alla natura, allora il costrutto di Cartesio vacilla non poco.
Ma se riduciamo il nostro concetto alla vita ‘soltanto’ biologica, che viene dallo Spirito ma che la Terra ha preso come fosse “cosa sua” , Cartesio si regge bene e domina, come infatti è accaduto a lungo.
Il “cogito”, rivisto secondo un’angolazione superiore, diviene espressione di un pensare che non sa di sé e neppure lo suppone; mentre sia pure con tutto il rispetto che ci vuole per le centinaia di anni frapposti, e che per alcuni possono corrispondere ad un avanzamento evolutivo importante, il “pensare” di Scaligero c’entra poco o niente con l’“essere” biologicamente voluto di Cartesio.
«Non si vive perché si pensa, si vive perché si esiste». La frase non lascia dubbi: e come potrebbe? O percepisci e sostieni con le tue forze un Pensare che si svolge ininterrotto sia in cielo che in terra, oppure, se prendi il pensare di cui disponi e ne fai causa del tuo esser vivo, lo riduci ad un semplice fatto rappresentativo, dove da una parte si prende la percezione di se stessi (cosa rischiosamente soggettiva) e la si congiunge con quel che si è capaci di pensare su se stessi (il che è di certo ancora piú soggettivo dell’altra sponda).
Supponiamo che un vetro faccia da specchio a una candela accesa e sia dotato di facoltà raziocinante; esso s’interroga sul senso e sulla natura di questo suo esser fuoco. In effetto non lo è perché è vetro, ma percependosi nella sua luminosità riflessa, si sottopone ad una serie di problematiche che ovviamente non possono offrirgli una soluzione, anche se gliela presentano qualche volta con una grazia ed un garbo dai quali il vetro viene quasi sempre sedotto. Ritiene in perfetta buona fede di far luce, d’essere portatore di luce, di contenere una luce. E a quanti gli controbattono che la luce per esser vera dovrebbe anche portare calore, il vetro (diciamo uno di quelli maggiormente illuminati) non può far altro che ripetere: «Un momento, piano, c’è l’evoluzione…. Non si può far tutto in una volta. Per ora do luce, il resto verrà…».
Nella Filosofia della libertà, Rudolf Steiner specifica perché il motto cartesiano messo di fronte a precisa disamina, senza ricorrere a sfumature metafisiche per manifestare l’evidenza della realtà, non riesce a sostenersi con sufficienza.
Afferma Steiner, che nel dire “tale cosa è” , si mostra in modo esauriente il lato piú immediato e semplicistico riguardante il modo di esistere della cosa stessa. Qualunque altra parola possa venir detta rimanderebbe ad un discorso non pertinente. Ma nella realtà del mondo (che è quella dalla quale bisogna comunque partire per qualsiasi indagine conoscitiva) tutto questo è insufficiente; ovvero il fatto di avere una sua esistenza, non determina la cosa. L’esistere vale in quanto relazione con altro/altri esistenti.
Per soccorrere una nave nelle acque agitate del mare in burrasca, non basta dire “Siamo qui, al largo delle Isole Tal dei Tali, circa 200, 300 miglia, o forse piú…”, bisogna fare il punto marino e trasmettere le coordinate precise ai soccorritori.
Per cui una cosa è, se è possibile metterla in riferimento ad una o piú cose la cui essenza-esistenza è già stata assodata. Sempre dato per ammesso e non concesso che su questa terra l’esistere possa equivalere all’essere.
Cartesio fondò l’essenza umana sul pensiero, o meglio, sulla capacità di pensiero; ma nel mentre il secondo valore (essere) ha un legame ben noto alla percezione d’una esistenzialità, il primo (cogito, penso) è del tutto volatile e non lo si può cogliere se non aggiungendovi tutte le specificazioni del caso. Ma un pensare che in tal modo venga sostantivato non è piú quel pensare cui ci si voleva riferire nella citazione.
Introducendo il concetto di vita, Scaligero ha cambiato radicalmente il volto della proposizione classica, in quanto il vivere dà un significato potente all’esistere, ma solo nel limite ben scadenzato di un organismo biologicamente predisposto a farlo; mentre il pensare dispone di una sua vita che, pur coincidendo con l’essere, non lo delimita, anzi, lo porta avanti fino a poterlo “sprofondare” – mi si scusi il termine – nella materialità delle esistenza fisiche. Dove infatti, su un diverso binario, la vita, ancorché spirituale, continua a scorrere.
Certamente è difficile riconoscere in quest’ultimo tipo di vita, quell’altra di cui s’accende il pensare nel mondo metafisico. Ma è anche per questo che sto attingendo a piene mani nel barile delle contrapposizioni. Spesso, senza rendercene conto, usiamo dire: «Eh, la realtà non è quella che sembra». Questo è il top di tutti i casi di scontro al vertice che si verificano nel mondo e nella storia, proprio perché non abbiamo svolto i nostri compiti come avremmo dovuto e come siamo venuti a fare qui al mondo.
Le anime remano contro: ammettiamo che la nostra semplice percezione del reale sia insufficiente a garantircene la validità, ma ciò nonostante prendiamo quel reale, ossia quella parte del reale, come fosse l’unica verità; dopodiché le nostre scelte e i comportamenti che ne derivano sembrano essere giustificabilissimi; dimentichiamo soltanto che alla coscienza non è sfuggita l’ipotesi di un errore iniziale, pur tuttavia non abbiamo il tempo per la correzione, non ce lo concediamo; gli eventi proseguono tumultuosi e accavallanti come sempre, e chi s’è visto s’è visto.
È strano: quel che è pressante, impegnativo e pericoloso lo affrontiamo a scarpa slacciata; nelle partita di pallone, no, diventa un fatto importantissimo: l’arbitro ferma il gioco, ci si mette a bordo campo e si risistema la calzatura. Nella futilità nessuno è piú preciso e oculato di chi, non vedendola, la scambia per fattore primario.
Non credo che i nostri problemi nascano da una ristretta o parziale visione della realtà esteriore. A me pare, e ne sono sempre piú sicuro, che tutto nasca a monte di quel che vediamo accadere fuori di noi. È la stessa autonomia del pensiero ad essere chiamata in causa, e in questa nostra particolare epoca, l’autonomia del pensiero vale meno, molto meno, della scarpetta slacciata del calciatore.
Le anime si mettono contro: esprimono uno stato di salute malandato, precario, un disagio che tuttavia non vuole, né deve, essere avvertito come tale e quindi tanto meno corretto; altrimenti sarebbe risolto da tempo. No, la situazione pretende tale disagio quale emblema dell’interiorità umana, e che nel contempo le forze dell’ego divengano cosí potenti, da scambiare l’affezione per un livello ragguardevole di complessità dovuto ad un consolidamento evolutivo.
Mentre invece la causa determinante della situazione nasce dal pensiero corrente che ignora, e quindi conoscitivamente si oppone al suo stato riflesso, ovvero alla sua sudditanza a forze corporee che hanno già soggiogato l’anima, al punto di farle scordare l’originaria integrità.
Dal momento che tornano di moda le Guerre stellari, e “La forza sia con te!” cinematograficamente riesumata risuona ancora per la gioia e il profitto di produttori e botteghini, prendiamo in considerazione un moderno astronauta, perfettamente istruito sul compito da eseguire, e mandiamolo in missione, nella convinzione che la Forza sarà senz’altro, speriamo, con lui. Giunto a destinazione, in un mondo completamente sconosciuto, costui viene subito condizionato dalle forze ostili del pianeta, le quali, agendo dapprima sullo scafandro (cause fisiche) quindi sul corpo che lo riveste (cause patogene) si fanno cosí sottili, penetranti e raffinate da permeare finanche la mente del nostro esploratore (cause psichiche) cancellando nel contempo gran parte delle informazioni di partenza, inserendone altre nuove completamente divergenti e aggiustando queste ultime su quel che resta delle prime, di modo che la confusione non si scopra, ma anzi regni sovrana e garantisca comunque al malcapitato una modesta sicurezza (stolidamente umana) d’essere nel giusto, di capire e vedere le cose nella loro nitida realtà.
Una trama del genere, diretta da un grande regista, potrebbe commuovere un pubblico di appassionati alle fiction di psico-cosmo-genesi. Ma non commuove nessuno che, magari per sbaglio, cominci a riflettere sulla situazione dell’uomo usandone almeno la testa. Il Grande Regista c’è, la trama anche. Manca il pubblico in grado di capire, apprezzare e quindi di provare quel minimo di catarsi che gli antichi Greci provavano di fronte alle tragedie rappresentate. O quanto meno cosí si narra.
Quando, secoli or sono (comunque dopo le tragedie greche) sostenni l’esame di maturità, quello d’italiano fu senza dubbio il piú ponderoso; per essere il mio uno dei due licei classici che si contendevano il primato non solo cittadino ma addirittura nazionale, la commissione esterna insediatasi era alquanto agguerrita nei nostri confronti e quindi non di rado Dante, Petrarca, Leopardi, Pirandello, Verga e Carducci erano puri pretesti per farci parlare in termini psicologici se non psicanalitici di argomenti del tutto imprevisti e sui quali ci trovavamo a dover improvvisare.
La noia del Leopardi, l’atea vigorosità del Carducci, la morale melensa del Parini, la fede patinata del Manzoni erano interrogativi che ci venivano buttati contro e bisognava rispondere a tono, cercando di dire qualcosa d’intelligente e di “ampio respiro” ma senza svolazzi e soprattutto senza uscire dal tema.
Al mio turno, mi trovai seduto davanti a cinque o sei esaminatori, che vociavano piuttosto animatamente tra loro, e sembravano far a gara per ignorare la mia presenza. Ma tra loro c’erano i due che mi stavano di fronte all’altra parte del tavolo, e s’intuiva ch’erano in qualche modo i “comandanti” della “Strafexpedition”. Uno, anziano (per quel che poteva valere l’aggettivo anziano ai miei occhi di diciottenne), grosso, corpulento, impaludato in un doppiopetto gessato di almeno due misure piú stretto del necessario, sembrava cupo, triste, rassegnato al compito presente ma assorto in pensieri lontani. L’altro invece, molto piú giovane, dinamico, col ciuffo arruffato, pareva un galletto con baffetti da combattimento; sorrideva, si agitava, voleva esibirsi cordiale col collega anziano, ma in realtà ghignava, e sotto sotto, ma neanche tanto, sembrava snobbarlo e provocarlo per il gusto di vederlo soffrire.
Era la tipica coppia alla Cric & Croc, che poi nella vita avrei dovuto incontrare molte altre volte. Naturalmente all’epoca nulla sapevo di tutto ciò, né facevo nemmeno lontanamente riflessioni di questo genere, ma istintivamente, da studente in pericolo, mi veniva da pormi sulla difensiva. Dopo le prime domande, biascicate stancamente dal Gran Capo Anziano, che vertevano, guarda guarda, sulle figure di personaggi “ vecchi & canuti” sparsi nella letteratura, e di descrivere (ma brevemente, in poche parole) la loro collocazione nei vari contesti, eventualmente corredandoli nelle rispettive dinamiche all’interno delle trame (cosa su cui sapevo di potermela cavare benissimo, avevo già in tasca una dozzina di vecchietti da esibire, che andavano dal Medioevo fino al Risorgimento), l’esaminatore giovane che, si vedeva, doveva aver in qualche modo mal sopportato la domanda imposta dall’altro, intervenne a gamba tesa per bloccare la mia sfilata di anzianotti di lusso e mi sparò quella che evidentemente era la vexata quaestio restatagli nel gozzo e nella quale, l’avrei saputo solo molto tempo dopo, valeva il dissidio tra lui (Vicepresidente di Commissione) e l’altro (Presidente in carica, ma non ancora per molto). L’ingessato pacioccone dall’abito stretto era evidentemente un conservatore moderato, magari buono, innocuo, ma sicuramente malinconico e non dotato di ardori belligeranti; anzi, non dotato di ardori e basta. L’altro invece, arzillo nel suo completino nocciola, con cravatta amaranto e fazzolettino in tinta nel taschino, impersonava il parvenu arrampicatore demo-populista, sedicente paladino dei deboli (purché iscritti al suo partito) e indignato lottatore contro la tracotanza reazionaria dei cupoloni etico-pluto-bacchettonici. Con l’esperienza d’oggi, direi fosse un giovane sindacalista in stato di grazia, sempre che la Grazia si occupi di sindacalismo, ma negli anni del dopoguerra poteva darsi…
Con atteggiamento ispirato e puntuto, mi chiese: «Ma lei, personalmente, direbbe che vi è piú moralità in uno scrittore, diciamo, come il Verga, oppure, diciamo, in un Manzoni?».
In quel momento capii che ce l’avevo fatta. Perché se uno ti fa questa domanda, sapendo che in tutto il mondo civilizzato, dal Manzanarre al Reno, Manzoni e Verga stanno tra loro come Edmondo De Amicis e Charles Bukowski, e te la fa pure con lampeggío d’intesa, guardando di sottecchi l’altro Commissario che stava affondando, poveraccio, nella pappagorgia di un passato floridale che non poteva tornare, tu che gli vai a rispondere? «Beh, ecco, ehm… (necessaria premessa con schiarimento di gola), io credo che nel Verga, se si può parlare di un elemento etico, questo riguardi una presa di coscienza piú vasta, come dire… piú a tutto tondo, nel senso che la moralità del Manzoni fissa un po’ i personaggi al loro destino… sembra un po’ fabbricata a priori, ma… tuttavia…».
Cercavo di arrampicarmi sugli specchi, guardando sempre negli occhi il baffetto, che vedevo annuire gioioso: «Sí, sí, bene, bene; avanti, vada avanti…».
«E quindi… insomma… in Verga il senso della solidarietà umana, la socialità, è di per sé una coniugazione che travalica i limiti di un moralismo asfittico, un po’ démodé… in qualche modo superato»… E per finire con un sommesso mormorio di verecondia, recitato ad hoc: «Non so se si può dire cosí…».
«Sí che lo può dire, perdiana!» urla ora in trionfo il baffetto, mentre gli occhialini gli si appannano per improvviso attacco di caldana laico-socialistica-ma-con-un livello-di-coscienza-di-sé (qui la stampa specializzata avrebbe chiuso la frase mettendoci anche “nella misura in cui”, ma l’ho sempre considerata una tronchesi azzardata).
Congedato con due strette di mano, una nervosa e scattante, l’altra morbida e sudaticcia, avrei anche potuto infierire ricordando ad entrambi lor signori che la paranza dei Malavoglia portava il nome di Provvidenza e che non era stato Manzoni a suggerirlo, ma nei momenti in cui il mio ego è sufficientemente appagato, sono portato alla magnanimità.
Ottenni dunque un buon voto in italiano che mi aiutò dopo a recuperare qualche magra figura nelle scienze esatte, ma tutto sommato quella del ’62 fu per me una gran bella estate. Non sapevo ancora cosa avrei fatto in seguito, e se l’avessi saputo avrei riso un po’ meno, ma racconto tutto ciò perché volevo soprattutto mettere in risalto la faccenda degli antagonismi: quei due insegnanti della commissione d’esami rappresentavano due mondi davvero contrapposti. Il nuovo avanzava, premeva, schiumava; il vecchio resisteva, ostacolava piú come sagoma d’ingombro che per attività, ma aveva anche lui i suoi valori da difendere.
Due combattenti diversi per una guerra logorante e insulsa; entrambi l’avrebbero perduta, perché il meglio come il peggio sono tutti e due di là da venire, e questo alle anime assetate di brame sembra una buona ragione per combattere fino allo sfinimento. Credono di farlo per il trionfo del meglio, senza avere il minimo sospetto che il meglio dell’uno appare rovesciato alla buona fede dell’altro. Tutta interiorità non risolta in casa che si rovescia fuori, dove prende, come e quando può, le vie del sociale, del politico, della confessione e della sconfessione, solo perché cosí facendo l’uomo crede di schierarsi, di combattere una sua battaglia, dimenticando che proprio quella dimenticata è l’unica battaglia da sostenere: e, cosa assai strana, essa si avvale di un unico contendente. Avverte che non si dà pace nemmeno tra gli ulivi; e dal deserto le orde dei Tartari minacciano sempre di spuntare quando è l’ora di cena: una seccatura continua. Al principio, o alla fine (i due termini si equivalgono se tutti i possibili riferimenti stanno all’interno del binomio) il problema è soltanto uno: l’autonomia del pensiero. E questa può nascere solo grazie ad un pensiero non-autonomo che proietta il suo dolente stato di servaggio nella stessa anima la quale crede d’usarlo per i propri fini.
Da questo scontro sorge una coscienza, che è anch’essa un riflesso, ma è sufficiente per cominciare a comprendere il gioco delle parti col quale ciascun uomo si trova un giorno o l’altro ad aver a che fare. E per quanto riflessa sia, signori miei, ben venga e con essa pure lo scontro che l’ha fatta nascere.
Per modalità analoghe, sempre dapprima oppositive, l’organo cerebrale si oppone allo Spirito; se non lo facesse non potrebbe scaturirne la scintilla del pensiero. Anche questo sembra essere un paradosso che non sta in piedi: la nascita del pensiero nell’uomo è un fatto fisico, non può tuttavia venir percepito con i comuni mezzi di osservazione.
Sarebbe una bella cosa provare un minimo di gratitudine per questo conflitto che è continuo, non si arresta mai; è tutto per noi, per farci crescere, e continuerà a imperversare nel senso che l’essere avrà da elaborare la percezione del vivente, o l’esistente dovrà vedersela con la consapevolezza di un essere soltanto presupposto; è una ininterrotta produzione di scintille, di attriti, di collisioni, che nell’universo fisico rappresenta il nascere e il morire di astri, stelle e pianeti, ma nell’universo interiore umano è la battaglia di tutto ciò che, apparendo come realtà sembra vivo, contro tutto ciò che è vero senza la necessità di dover anche sembrare reale in quanto vivente.
Ma mi rendo conto della difficoltà: è arduo convincere il buon Dino Buzzati sull’inutilità della Fortezza Bastiani; pur tuttavia l’Avamposto non deve venir smantellato. Chi necessita di vegliare in armi presupponendo l’attacco improvviso di forze ostili, non ha capito che i veri nemici non arrivano mai né quando né da dove li si aspetti; i veri nemici indossano la nostra uniforme e vegliano in armi assieme a noi. Non sono quelli che crediamo veder arrivare a frotte da lontano. Sarebbe veramente troppo ingenuo e troppo semplice; e il troppo semplice si esclude a priori dalla complessità del reale essente-non apparente. Ogni semplicità è una complessità risolta, ha detto qualcuno: ma, per l’appunto, bisogna prima risolverla. Perché altrimenti vale l’inverso: ogni complessità è una semplicità che noi abbiamo ingarbugliato fino al punto di non trovare piú il bandolo che pertanto viene assunto come inesistente.
L’autonomia del pensiero è oggi, come non lo fu mai, il problema per eccellenza, di fronte al quale ogni altro problema, guidato dai quattro apocalittici Cavalieri, impallidisce e perde consistenza. Ed è per questo, non occorre nemmeno dirlo, che nessun portavoce ufficiale, politico, religioso o d’altro genere, oserà mai porre in evidenza, in quanto non ravvisabili, i veri oscuri autori del grande dramma universale che si sta consumando sotto i nostri occhi, i quali fissano, spenti, i video al plasma, accesi.
Gli “eghi” umani non possono venir separati dal corpo, dalle anime o dalle coscienze e processati a parte, ma quand’anche riuscissimo a farlo, a qual pro? Verrebbero sollevati d’ogni responsabilità dalle nostre stesse strutture giuridico-filosofiche, e sostenuti dalla compiacenza di quelle etiche e confessionali, che li benedirebbe e li rimanderebbe a casa con la formula “Assolti per insussistenza dei fatti ascritti”.
Se le anime si oppongono a tutto, perfino al loro stesso essere anime, se non vi è una volontà di soluzione nata da un pensiero almeno momentaneamente libero dai vincolamenti condizionatori, continueremo a leggere sui giornali e ascoltare dai notiziari quel che avremmo dovuto invece comprendere con le coscienze. Il panorama conseguito sarebbe molto diverso.
Molti anni fa, gli scienziati che cominciavano, sotto la spinta delle scoperte di Maxwell e Planck, ad occuparsi di meccanica quantistica, si riunirono in congresso a Copenhagen; volevano intendersi tra di loro prima di dar corso a una nuova èra scientifica; la questione, in parole tanto semplici quanto efficaci, era: Dio gioca a dadi? Ovvero: il corso dell’evoluzione umana è scritto fin dalla partenza o è lasciato del tutto alla casualità?
Uno scienziato, di nome Erwin Schrödinger (terribile a volerlo pronunciar bene), mise tutti costoro in riga di fronte al seguente, chiamiamolo esempio, ma è molto di piú: potrebbe leggersi come una proposta. Fece molto scandalo all’epoca, si era nel 1935, e nonostante la batosta bellica i Paesi civili si sentivano nel pieno dell’avventura intellettuale, che grazie anche alla visione quantistica si squadernava loro davanti, dando l’impressione d’una vastità sconfinata.
Paradosso ricordato come “il Gatto di Schrödinger”. Cosí lo scienziato disse ai presenti: «Se si mettono un gatto, un elemento radioattivo, un rilevatore Geiger, un martello e una fiala di cianuro in una scatola e la si chiude, passata mezz’ora cosa credete sia accaduto all’interno? L’elemento radioattivo potrebbe disattivarsi, il contatore Geiger, rilevando il rilascio di raggi gamma, potrebbe emettere un suono spia, tale sprint acustico potrebbe agire su una valvolina collegata al martello, il quale, cadendo, potrebbe rompere la fiala di cianuro e il povero gatto potrebbe morire. Ora, cari signori scienziati convenuti da tutte le parti del mondo, quanti di voi, senza aprire la scatola, opterebbero per la morte del gatto e quanti no?
Potreste, certo, dichiarare le probabilità calcolate in percentuali, ma non raggiungereste mai un risultato unanime, né la certezza dell’evento. Per sapere, dovreste aprire la scatola!».
Fuori dalla metafora e dalla dialettica: ci tenete davvero a sapere se c’è un Dio, se l’universo è guidato da una Intelligenza Superiore? Oppure non c’è nulla di tutto questo e nel micro, come nel macrocosmo, ogni cosa, dal neutrino fino alle galassie, deve arrangiarsi attimo dopo attimo al meglio che può? Ebbene, aprite la scatola della vostra coscienza: da come essa si sarà maturata, avrete un avvio di risposta. Non chiedete questa risposta alla scienza; chiedetela a quel che vi portate dentro!
Ebbene, cari amici lettori dell’Archetipo, la Scienza dello Spirito ha veramente saputo aprire quella scatola, almeno cosí è stato per me; mi ha fornito gli strumenti per poterlo farlo; quella scatola infatti non è altro che la nostra (mia) anima-coscienza, fino ad oggi combattuta tra l’avversare dubitosa e preoccupata l’ipotesi d’un creazionismo spinto sulle ali di ideologie elitarie, e dall’altra parte della barricata contrastare ogni proposta, piú o meno indecente, di un casualismo becero, sorrette dal partito dei “pensatori spensierati” se non scioperanti. Finché perdura questo stato di fatto, la scatola resta chiusa.
E le verità connesse ce le dobbiamo far indicare dalla scienza, dalla fede o da uno dei possibilismi laici che oggi si possono sfoggiare con disinvoltura. Sicuramente la scatola, io l’avrei aperta comunque: non fosse altro per liberare il micio, in quanto sono un gattofilo impenitente. Ma avendolo potuto fare per mezzo dell’insegnamento generale del dott. Rudolf Steiner e quello intensivo di Massimo Scaligero, devo dire che la cosa è stata ancora piú bella ed entusiasmante: ho salvato il gatto e forse anche l’anima mia. Che desiderare di piú?
Angelo Lombroni