La Pasqua non sta mai ferma. Salta qua e là sul calendario. Ma per chi si sente antroposofo pare sia un tempo di ciclica fissità interiore. Intendiamoci: è un bene che l’antroposofia dia il suo alto contributo per conferire un profondo senso spirituale a ciò che, nel divenire delle cose del mondo, pare consumarsi da una parte nella liturgia delle chiese non piú colme, mentre nella vita di ogni giorno si riduce ad un tramestío di uova colorate o di uova di cioccolato e, se il tempo tiene, ad una abbuffata fuori porta.
Il Dottore si è speso tante volte per indicare l’essenza e il mistero che la festa pasquale vuole porre davanti alla coscienza umana: la morte e la
resurrezione del Verbo nella inconcepibilità della sua straziante condizione – Lui, un dio – di farsi, per un attimo di eterna ripercussione, uno di noi, sino alla piú estrema conseguenza.
Se voglio avvicinarmi a questa enormità, non posso utilizzare nulla che sia fatto di parole. Può farlo, forse e talvolta, il Poeta: cosa che io non sono. Allora devo rivolgermi, sulla strada del silenzio, al luogo dell’anima che chiamiamo meditazione: la quale mi reca una fluenza ignota, in cui ogni significato mio è violazione di domicilio. Ciò smuove un temporaneo mutamento interiore e poiché, con prudenza, evito di mescolare il fuoco con l’acqua, non resta proprio nulla che possa tradursi in cose da dire o da scrivere.
Mi sembra che in molti le Feste che non siano feste ma Misteri, accendano una galvanica scintilla cerebrale inducente un torrente di parole come «…in relazione a…» oppure «…dall’antica Lemuria…» o ancora, agli intimismi speranzosi «…ed il mio cuore si apre gioioso…» o nostalgici «la nonna raccontava che…». Smog intellettuale o animico: si respira a fatica o si cambia strada.
Credo che tutti sappiate del giudizio assai positivo che il Dottore diede dopo aver ascoltato due conferenze di un agricoltore. Una sul Cristo e una sul letame. Vista la sua approvazione, chi gli era vicino volle sottolineare la cosa osservando come fosse notevole, da parte di un contadino, dire cosí belle parole sul Signore, ma Steiner contraddisse vigorosamente i presenti: gli era assai piaciuta la conferenza sullo stallatico, quella che, per cosí dire, aveva estratto concetti pieni di vita dall’esperienza e dalla realtà.
Cosí si capisce dove vado a parare e comunque chiedo: ma qualcuno ha imparato qualcosa da queste vivaci e sintomatiche narrazioni? Eppure sono piccole istantanee che potrebbero far riflettere in grande quando si vorrebbe alzare colonne che non siano ghiottoneria di consensi, poiché se sono solo pensieri pensati, sono niente piú di precari scenari da pièce teatrale dove si auspica in eterno l’arrivo di Godot.
Ne parlavo con una cara amica che mi sopporta e che spreme l’anima per aiutare l’Archetipo ad uscire mese dopo mese: col tempo, l’età e le discipline, l’essere interiore converge naturalmente (o sopra-naturalmente) verso l’essenziale. Le potenze dell’anima, come i tre cavalli matti del cocchio, imparano a seguire talvolta il polso dell’auriga. Quando l’Io domina, la natura dell’anima segue l’inconcepibile moto verso ciò che nel mondo è senza nome, e forse possiamo chiamarlo tao senza offendere nessuno. Scrivo tao poiché lí almeno l’autore ci dice subito che: «Il tao che può essere detto non è l’eterno Tao». C’è assonanza con un altro incipit che dice: «L’Io che l’uomo dice di essere non può essere l’Io, se non nel pensiero vivente: ancora da lui non conosciuto».
Converrete che siano parole forti, da conflitto per la prosaica ragione, e come tutti gli scandali nella tradizione borghese perbenista, vanno allontanate, esorcizzate dalla comunità: pensieri scorretti che non dovrebbero scorrere poiché indicano scelte fatali.
Ma in questo senso l’abilità diabolica offre il modo di fare di piú e meglio. Come? Neutralizzando l’impeto sovvertitore che esse possono procurare all’anima già incarognita per suo conto nella ottusa datità del sensibile percepito come realtà a senso unico.
Faccio un esempio grossolano tra i molti piú subdoli: ogni tanto affiora una curiosa interpretazione che riguarda la lettura dei testi. Vengono suggerite regole respiratorie che ne favorirebbero la comprensione. Sono regole che nessuno penserebbe di usare né sfogliando il giornale, né leggendo i romanzoni di Wilbur Smith. In tutti i casi in cui l’attenzione è dedicata, ci si dimentica anche di star mantenendo una postura scomoda e persino tempo e spazio, a momenti, spariscono. Ciò è esperienza comune ma non è banale. Ci indica come, pur nella vita ordinaria, l’attività pensante tende a togliere di mezzo il mondo sensibile. Purtroppo è anche sperimentabile che senza una lunga ed intensa disciplina ciò si rivela impossibile quando lo si tenti volontariamente con una coscienza di sé desta.
Eppure a questo tende con fatica e pazienza chi intraprende la via della Scienza sacra.
Ai fini di una ascesi compatibile con l’organizzazione umana attuale, il rafforzamento dell’attenzione cosciente è polarizzazione dell’attività pensante verso un pensiero: il pensare che pensa un pensiero deliberatamente voluto è il primo, ineludibile gradino. Dovrebbe essere chiaro che il pensiero del pensiero non può poggiare che su se stesso: non prende nulla da fuori. Il percepire ed il percepito sono, in questo unico caso, della medesima natura. Il suo carattere è quello di essere del tutto indipendente dall’ordinario appoggio corporeo, mentre il togliere parte dell’attenzione e portarla sul respiro (sull’invadenza fisica del respiro!) è una delle maniere certe per uccidere il momento puro della conoscenza: il lampo dello Spirito nell’anima.
Ecco quanto poco basta per mandare a ramengo ciò che può essere l’incontro del filo aureo donato da Scaligero con l’architettura aurea del nostro eterico.
In generale la resistenza leviathanica verso l’autentico Opus solare è massima, e sembra annidata non solo tra i superficiali e gli ignoranti che dicono le barzellette: «Scaligero è troppo difficile», oppure «Tal dei Tali me l’ha sconsigliato». Ho letto persino: «Non leggo Scaligero perché è contro le donne». Non c’è senso a dare ulteriori esempi di anime il cui impulso alla conoscenza tende stabilmente allo zero, oppure sofferenti di guasti che friggono il germe dell’organo interiore ancora prima che possa formarsi.
Chiederei piuttosto ai lettori se appare cosí limpido e assimilato quanto pubblicato mensilmente sulla rubrica che è stata intitolata AcCORdo. Lí trovate le parole di Scaligero scritte di suo pugno, sebbene rivolte specificatamente a discepoli, dove incontrate spesso frasi come quella che riporto dalla Rivista del mese scorso: «La potenza dell’ekagrata supera ogni contraddizione, ritrova il livello del perfetto “risveglio”, superato il livello dell’addormentamento normale. Ekagrata impetuoso, scattante, energico, continuo: è necessario perché il mondo della bontà s’inveri e l’Amore trionfi sulla Terra».
Mi sapete dire cosa ciò significhi? Perché chiedere sempre soluzioni a curiosità e sciocchezze che nulla risolvono e non affrontare il nodo dell’essenziale che potrebbe risolvere tutto?
Se la Pasqua è morte e resurrezione sono ben certo che, assai concretamente, la sua vicenda nella nostra anima dovrebbe cominciare proprio da lí. Esiste in noi la capacità di portare a radicale compimento la morte del pensiero che conosciamo e che è già morto nella vita ordinaria, dove si fa funzionale soltanto a ciò che appare morto fuori di noi, per farlo rinascere santificato, trasformato.
Ed è in questo travaglio di morte e resurrezione che incontriamo il Logos vittorioso. Perché “vittorioso”? Perché la Sua vittoria sulla potenza della morte diventa anche nostra, per quanto si sia in grado di accogliere la serena, dolce e personale possanza dell’infinito nella nostra misura.
Già, la nostra misura: scarsa se non riusciamo a distoglierci dall’amore per noi stessi, e che invece sparisce quando deleghiamo all’oblio il comune soggetto. Trucco che non riuscirà ad alcun erudito o al mago comune.
Ma può riuscire a chi opera afferrando l’essenza della disciplina interiore.
Chi ha usurato gli anni della sua vita in un rosario di sconfitte può pensare che parlare di vittoria è soltanto un bel parlare e che la realtà sia ben diversa. Ma questa è misura corta: non tiene conto che la realtà dell’uomo è cosmica. Essa non si esaurisce in segmenti di tempo né nel breve cammino di una vita. E l’ekagrata di cui scrive Scaligero non si spiega pensandolo in manciate di minuti: è puro diamante che sogno, sonno e morte non possono scalfire.
L’uomo lo può portare nell’eterno, come dall’eterno, per dedizione e fedeltà interiore, può trarlo in ognuna delle condizioni che il suo proprio essere attraversa sulla terra e nei cieli: con la certezza dell’incondizionato sostegno del Logos.
Questo è l’aspetto vittorioso della Pasqua cosmica.
Franco Giovi