Tutto ciò che in qualche modo è collegabile all’“Amore”, nonché i molti significati ad esso attribuibili, ad un certo punto della nostra vita possono rivelarsi un abbaglio colossale. Sembra d’essere invecchiati senza aver capito niente; l’esistenza stessa conseguentemente appare compromessa, destabilizzata: insomma, per intenderci, un fiasco, e per giunta, vuoto.
Le speranze, le illusioni,i sogni con i quali, sempre in nome dell’Amore, ci siamo trastullati, a volte in modo discutibile ma sempre nell’immediatezza e nella spontaneità delle sensazioni e dei sentimenti, giungono a fare i conti con la decadenza, con la diminuita disponibilità fisica e psichica; ci sentiamo smarriti in una stagione che pensavamo non ci riguardasse tanto da vicino.
Si avverte un mutamento di fondo: qualcosa è cambiato; se l’anima poi cede ai rimpianti, facilmente si aggiunge: “…niente è piú come prima”.
È problematico, in una situazione del genere, avvertire la richiesta sorgere dal profondo: di un rinnovo, un mutamento (mutamento d’eccellenza) che faccia da spartiacque tra il vissuto e il vivente; tra quel che implica il minimo grado di coscienza (di veglia) e quel che si sperimenterebbe quando la forza dell’anima s’invola al suo ulteriore perfezionamento, cui era effettivamente destinata, ma senza obbligo o costrizione alcuna.
Mutamento del quale, stranamente, non abbiamo sentore.
Umberto Eco, alla cui memoria rivolgo un cordiale pensiero, nel suo libro Il Nome della Rosa, creò un breve ma significativo dialogo sull’amore, tra il Maestro Guglielmo (da Baskerville) e il discepolo Adso (da Melk). Quest’ultimo, giovincello, invaghitosi per la prima volta d’una fanciulla, chiede al Maestro se pure a lui fosse mai capitata l’esperienza dell’amore. Al che Guglielmo risponde che sí, certamente, il suo cuore è costantemente innamorato: di Dio, del creato, delle creature, della vita, della natura. Ma il ragazzo, evidentemente non pago, aggiunge: «Io, però …volevo dire …con una donna…». Non tarda la replica del Maestro: «Aaah! Ma allora tu vuoi dire “la lussuria”».
Dal pieno Medioevo in qua sono passati molti anni; se oggi con un esame approfondito sulle nostre vicissitudine affettive, provocate o subite, ci ponessimo la medesima domanda, in quanti sapremmo darci una risposta cosí scarna, semplice e soprattutto veritiera?
Potrebbe sembrare un discorso moralistico, tuttavia dissento. Provo a spiegarmi con un riferimento che mi sembra adeguato: in questo periodo della nostra epoca, cosí particolare sotto tanti punti di vista, uno dei temi sociali, di corrente attualità, oscilla tra il riconoscimento legale delle unioni civili, comunque composte, e la stepchild adoption, che ne è una particolare discendenza, forse neppure la piú importante.
Esplicito: c’è la tendenza (non riesco a chiamarla volontà) di molti a “liberalizzare” la sessualità. Vorrei aggiungere la “loro” sessualità, ma posto cosí agli inizi del discorso potrebbe infastidire. Perciò tolgo l’appunto.
L’argomento è forte, straripa da tutte le parti, pur tuttavia, non lo si indica mai a chiare lettere prima d’ogni sua discussione. Perché ? A mio giudizio, perché il sottacerlo accontenta tutti. Giocare col chiaroscuro e mantenere ipotesi e tesi in equilibrio sul filo dell’esibizionismo dialettico, senza concludere nulla, basta per far credere che uno degli aspetti piú pregnanti del nostro essere civili consista nel principio della libertà di pensiero, di culto, di impegno, di svago e quindi – perché no? – anche di sesso.
La parte a favore, non lo dichiara, in quanto lo dà per scontato: ci sono le convivenze di fatto, e quindi a che servono altri chiarimenti? Da quando in qua, l’esistenza di una cosa che è sotto gli occhi di tutti, deve essere provata per ottenere un riconoscimento?
L’altra fazione, che dal dubbioso arriva fino all’avversione isterica contro chi osi prevaricare i limiti della natura (come se un riconoscimento in merito obbligasse pure loro ad uno scavalcamento diversamente sessuato) del pari si guarda dall’ammetterlo, per il recondito timore di dover porre in luce l’intera questione della propria sessualità; la quale, per esser cosa del tutto personale e riservata, deve restare intoccata com’è, confinata nella penombra dei talami, dei pied-à-terre, delle alcove, piú o meno domestiche, e di altri secondari rifugi, tipo motel o albergucci di terza categoria largamente praticati da quanti non se la sentono d’affrontare l’umidità notturna delle campagne periferiche.
Bisogna dire che anche in tempi come questi, in cui l’esausta fantasia dell’umano si trova costretta ad estrarre alimento dall’informatizzazione, con la quale oramai pare abbia stabilito un rapporto di simbiosi mutualistica, essa riesce a proporre argomenti capaci di mettere a soqquadro anime e animi, famiglie e accoppianze, popoli e nazioni; non ci sarebbe nulla di male; anzi, gli scontri ideologici (se politici, tecnici e burocrati non ci mettono lo zampino) portano progresso. Ma quando l’oggetto della discussione è astruso, completamente avulso dalla realtà, e tuttavia con indottrinevole manovra, tanto edotta quanto subdola, pari a quella delle polveri sottili che, di certo nel miglior benessere della collettività (sic!) intossicano l’atmosfera, si distende sulla pubblica opinione, c’è poco da fare; o lo si riconosce per ciò che è, oppure lo si aspira e succede quel che sta succedendo.
La liberalizzazione del sesso ! Qualcuno riesce a spiegarmi il significato di questo sottopensiero? Uno nasce maschio, un’altra nasce femmina: cosa c’è da liberalizzare? Se per sesso intendiamo il “genere”, vuol dire che lo Spirito umano, incarnandosi in quell’individuo, desidera compiere le esperienze che gli deriveranno per l’appunto dall’appartenenza allo status sessuale.
Abbiamo da proporre qualche programma migliorativo?
Se per liberalizzazione si intende, invece, forzare la natura acquisita e cambiare le carte in tavola, spinti da pruriti sovversivi, in nome di un edonismo tutto da classificare, allora dovrebbe sembrare altrettanto, se non piú, ragionevole che chi svolge lavoro di manovalanza aspiri a farsi aggiungere delle braccia suppletive, chi si dedica al lavoro intellettuale abbia almeno una o due teste di riserva, e gli atleti corridori o marciatori insorgano compatti invocando la pluripodalità.
È meglio fare attenzione quando si vuol tradurre in pratica l’impulso al cambiamento; quasi sempre esso è legittimo, se non plausibile, ma rivolto contro la natura che svolge da millenni il suo lavoro in modo molto piú serio di come noi abbiamo condotto le rivoluzioni della nostra breve storia, allora diviene insostenibile e decade nel grottesco. Quanto a questo, temo che già ci siamo.
Per il caso in esame, rimpiastricciando l’imbellettato, si tenta di riprodurre lo stato originale; la parola “sesso” viene ritoccata con la parola “amore”; dando maggior peso all’intimità romantico-cardiaca, si crede d’aver nobilitato il problema togliendolo dai fondali de “i bassi geni dietro al fasto occulti”, in cui era stato confinato da moralisti, gente di certo senza scrupoli, di regime veterotestamentario.
L’idea dell’amore, che porta sempre con sé qualcosa di poetico, ci si augura riabiliti cosí la teoretica del sesso: se non riesce ancora a farlo come il calore consola l’infreddolito, o un piatto di spaghetti ritempra l’affamato, poco ci manca.
La stampa specializzata in guazzabugli intenzionalistici, aiutata magari da qualche prima serata Tv, infarcita di rispettabili opinioni salottiere, ove s’insegna a ridere quando c’è da piangere e viceversa, persisterà poi ad inculcare il dilemma nelle menti intorbidite dell’incauto lettore-spettatore, e prima o dopo riuscirà nel progetto.
Con il risultato che le generazioni future non sapranno distinguere piú un coniglio maschio da una carota femmina; essendosi oramai sovraimposto ex cathedra (e democraticamente accolto) il super-link, o meglio la connessione primaria, tanto relazionante quanto vincolatrice.
Durante secoli e millenni, l’evoluzione ha allungato la sua strada, ma ci deve essere sfuggito qualcosa perché non siamo riusciti a trovare il posto giusto per cogliere il vero aspetto dell’amore, la realtà della sua dimensione, la sua assenza di caducità, la sua presenza di luce.
Sembra, specie osservando il mondo che abbiamo contribuito a trasformare fino ad oggi, che questo aspetto sia andato perduto. Se il dio è sentito troppo lontano e impercettibile, ci si arrangia con un totem, un simulacro qualunque, magari conferendogli aspetti mirabolanti di ieraticità accattivante, per il gaudio dei credenti e le comitive fidelizzate; dalle guarigioni sul posto, alle vincite al lotto, all’eredità degli zii sconosciuti; oppure con un’ideologia, una moda, un pizzico di quel-certo-non-so-che, capace di offrire il minimo garantito in fatto di dignità individuale, da poter sfoggiare nei circuiti interpersonali, o nelle manifestazioni organizzate, come accessorio di non plebea fattura.
Lo stesso vale per l’amore; se quello vero, scritto tutto a maiuscole, è troppo difficile da raggiungere, che c’è di male? Lo si abolisce giudicandolo inesistente; se ne fa una fotocopia (di quel che ci possiamo immaginare che sia stato) e lo si usa come riempitivo, in modo che quel fiasco, di cui all’inizio, pur continuando a restar vuoto, sembri pieno.
L’amore è stato scisso in amorucci, amorini e amorazzi; frivolezze che richiedono nonchalance, applicazione e gusto estetico; colora i socialnetwork con il fard della sua pochezza, con la sua consolidata inconsistenza, e offre quel che oggi s’accoglie come il piú trendy dei doni: il Flirty Freedom; per i maturandi, una specie di disimpegno alla “Sex and the City”.
L’Amore appare lontano e perduto: come la terraferma al naufrago o la patria all’esule. Questione di punti di vista: dipende da dove abbiamo installato l’osservatorio e in quale parte di noi abbiamo l’incaricato dell’osservazione.
Perché non proviamo a fare qualche passo verso quel tipo d’Amore? O per meglio dire, cercare in noi il senso umano per quel tipo d’Amore? Tanto per provare, per vedere se c’è ancora, se ne è rimasto un pezzetto. Quale potrebbe essere il mezzo piú idoneo per l’azione ? Si dice sia il cuore; cuore e amore fanno rima, quindi abbiamo alle spalle un lungo passato poetesco dal quale si evince che il cuore non è solamente ciò che erroneamente si crede: una pompa per la circolazione del sangue.
I filosofi ci hanno però insegnato che il cuore, impegnato nelle ragioni di vita, non saprebbe cavarsela se sopra di lui non ci fosse una testa pensante. Una testa che sa, che capisce e concede al cuore molte cose, forse pure troppe, come un genitore, che imbolsito dalle pressanti esigenze dei figli, in piena astenia, finisce per assecondarle, caricandosene la responsabilità.
Tentiamo di comprendere qualcosa in piú, partendo magari da un antico insegnamento: «Il fuoco è oscurato dal fumo; il cielo è coperto dalle nubi e la limpidità dell’acqua s’intorbida alla superficie: come può l’anima dell’uomo non confondersi davanti a tutto questo?».
Oggi, piuttosto che ieri, la Scienza dello Spirito risponde: con il pensare. Il pensiero è il motore dell’universo-uomo; dà moto alle cose, perché prima di fare decide; e prima ancora di decidere, la forza-pensiero, ossia quella minima dose di cui disponiamo, è già impegnata.
È un Amore diverso. È pura attività preconcettuale.
Con il suo sorgere, l’uomo sa di poter amare; con il suo decadere, sa di poter altrettanto odiare e avversare tutto ciò che crede impedirgli il suo libero amare.
Ci vuole un notevole periodo di tempo, forse piú di un ciclo vitale, per arrivare a capire che se sente il bisogno di liberare il suo amore, allora non ama, perché l’amore, se c’è, è libero per sua natura. Proprio come il pensare di cui sopra. Non appartiene alla natura dell’uomo, o della Terra, o dei regni della fisicità, ma è la reale natura dell’anima, dello Spirito, quello che dai cieli ha scelto di venire quaggiú, al preciso scopo di portare l’Amore là dove esso è ancora sconosciuto.
Questo Amore, che nasce superumano, diviene umano, e nella trasformazione ‒ evidentemente riduttiva ‒ subisce il rischio di perdersi, di corrompersi, di diventare altro da sé.
Entra cosí a servizio dell’ego, degli istinti, dei sensi; si lascia coinvolgere nelle passioni, diviene bramosità opprimente, nella quale si ritrova capovolto; l’opposto di quel che era, di quel che avrebbe voluto essere, di quel che poteva essere.
Tra la funzione corretta e la disfunzione, ci stiamo noi con la nostra coscienza; non sempre a tal punto sollecita da avvertirci in tempo, a non farci generare errore su errore.
Citando il frammento del libro di Eco, qualcuno mi addebiterà di parificare l’amore alla lussuria. Non deve preoccuparsene: i miei pensieri sono ben piú elementari di quelli di Guglielmo da Baskerville (stavo per dire piú “scolastici”, ma avrei aggravato l’equivoco).
Effettivamente, non posso dichiarare d’aver compreso quel che è racchiuso nel mistero dell’amore, che poi è il mistero della vita, e sicuramente reca in sé le chiavi del destino. Non dispongo di intuizioni fulminanti, però posso tentare di arrivarci per gradi e scoprire qualche relazione che mi era sfuggita.
Quel che ho capito, al mio livello, posso perciò affermarlo in tranquillità. Sono certo che sia alla portata di tanti.
Il punto fondamentale per cogliere l’essenza del vero Amore è questo: l’Amore non chiede riscontri. Mai. È il segreto del suo darsi. Piú semplice di cosí!
Se invece il mio, tuo, suo, nostro amore vuole qualcosa in cambio, se cerca nel mondo una prova e controprova tangibile e concreta, e si tormenta smaniando, fintanto che non l’ha conquistata, allora è meglio dargli un altro nome, se non altro per un minimo di onestà intellettuale.
Vuoi chiamarlo concupiscenza? Vuoi chiamarlo lussuria? Vedi tu. L’importante è che l’imbarazzo della scelta non divenga la scelta d’un imbarazzo.
Conseguentemente chiedere, pretendere dalle pubbliche istituzioni la libertà legalizzata dell’amore, è il risultato della moderna stramberia del non aver voluto, né tentato a sufficienza di capire chi siamo e come siamo.
Se non lo sappiamo noi, come potrebbe saperlo un’istituzione, un ente giuridico, o un soggetto politico? Che poi null’altro sono se non nostre proiezioni, élitarie quanto si vuole ma convenzionate, e tutto sommato sempre meno rappresentative.
Per questo siamo messi piuttosto male. Tutto quello che per venire alla luce deve attraversare le forme della protesta e della provocazione, segna la distanza che ci separa dalla verità che ci dovevamo porre quale primo obiettivo.
Non quella di un passato che non tornerà mai piú, e nemmeno l’altra, quella allucinata di un domani sotteso con le brame di oggi. Necessita crearne una nuova che, conciliando, sublimi le opposte tendenze, e nel contempo le indirizzi allo Spirito.
Chi non sia del tutto digiuno di Antroposofia, e abbia pertanto fatto qualche riflessione su quel che Rudolf Steiner ha posto nelle sue opere, dovrebbe sapere che l’evoluzione umana è fieramente ostacolata da Nemici metafisici, esseri spirituali veri e propri che, se vogliamo classificarli, appartengono all’ordine delle Deità Infere; costoro traggono motivo del loro esser tali (Ostacolatori) nel fatto di non concedere all’uomo la libertà cui egli legittimamente aspira.
Avversare è il loro moto di forza; il terreno di scontro è ovviamente il punto cruciale dell’umano, la sua anima, vale a dire la zona in cui la trasformazione dello spirituale nell’umano è ancora in fieri, ed è pertanto una dimensione delicatissima, largamente scoperta; soprattutto per nostra insipienza e l’incapacità a crearci e diffondere almeno le prime rudimentali nozioni in merito.
Proviamo ora, con le informazioni preziose, d’importanza capitale, che l’Antroposofia di Rudolf Steiner ci ha portato, a rivedere la situazione della nostra epoca per quanto in particolare attiene le richieste pressanti, talora fuori misura e plateali, di coloro che vorrebbero liberalizzare sesso, unioni e convivenze, facendo rientrare il tutto in una specie di Testo Unico, o calderone legale; ovvero, mettendo a norma l’abnorme.
La natura umana è aggredibile in due modi (e infinite sottovarianti): con il terrore o con l’inganno. Gli spiriti avversi all’uomo che mettono in opera il primo espediente, fanno capo ad Arimane; quelli che attuano il secondo, sono ispirati da Lucifero. Loro obiettivo: depistare le anime dalla retta evoluzione, facendole cadere o a destra o a sinistra, comunque impedendo loro il percorrimento della giusta via; quella dell’equilibrio, della moderazione, dell’autoconsapevolezza e dell’armonia.
Il terrore si presenta in molte forme, che vanno dalla paralisi alle fobie, dalla continua preoccupazione di tutto e per tutto, alla incontrollata produzione di pensieri irti di visioni spaventevoli e nefaste. Da qui non resta altro, per gli smarriti nei boschi delle paure, che nascondersi, cercare un riparo. Unico conforto, unica certezza è provare sensazioni di piacere e di calore umano derivanti dai sensi. Per provarle devono procurarsele, ma qui il gioco diventa molto sottile: i piaceri “tradizionali”, o se vogliamo naturali, vengono scartati a priori in quanto l’anima afflitta tende all’autopunizione (probabilmente per il panico da cui è pervasa, da essa non riconosciuto), per cui viene condotta a credersi “diversa”, destinata ad una alterazione anche degradativa, secondo un morfismo patologico che nessuno scienziato o analista sarà in grado di rilevare. Per ottenere piacere, arriva ad esigere ciò che immagina o ricorda disordinatamente delle forme ataviche del passato, che le parlano di un primitivo stato d’androginia, laddove si sentiva compresa, avvolta nella pace e nella certezza dell’amore; convinta di poterle adesso perfezionare, esaspera vieppiú la sua tensione sensuale fino alla perversione, al sadismo o all’autolesionismo, e nel tentativo di essere quel che non è, giunge perfino ad abbracciare la Morte.
Altra questione, inizialmente diversa ma alla fine convergente, è quella dell’impulso luciferico: con esso l’anima si sente ultramoderna, all’avanguardia; immagina d’innalzarsi ad un piano superiore al resto dell’umanità, sulle folle dei normali “tanto ingenui quanto bisessuati”, e crede di poter perseguire una strada che la porterà ex novo fino allo stato d’angelicità che fu in origine, antecedente alla separazione dei sessi.
Purtroppo da una realtà tramontata viene fuori una gara, un concorso a premi, su chi esibisca in via maggiormente disinibita e provocatoria la propria stracapita diversità; che va poi a riversarsi su di una massa tutt’altro che critica, pur tuttavia attonita e disgustata, di distratti, intiepiditi e sprofondati in ben altre vicende.
Arimane costringe l’incauta vittima, placcandola nella ricerca d’una androginia di tipo infero, ovviamente irraggiungibile, senza alcuna possibilità di ritrovamento. Dal suo opposto, Lucifero incalza il “prescelto”, istigandolo verso quel che sembra un progresso sessualmente innovativo, astuto, raffinato, facendogli provare l’emozione di sentirsi una specie di scopritore del vero futuro, di cui, per ora, egli è mentore, testimone e, per eccesso di servilismo, anche martire.
Se non si chiama in causa la lussuria (proprio quella prontamente rilevata dal buon Guglielmo da Baskerville) e non si ravvisa in essa un particolare caso di entraînement distonico e ingannatore, non si spiegherebbe il capriccio di far nascere un bimbo da maternità mercenaria, per adottarlo in famiglia omosessuale.
L’eco nostalgica dell’androginia perduta diventa cosí, per opera dei due demoni animico-terrestri, fonte d’assoggettamento dell’umano al loro potere, senza che il dominato ravvisi in sé la minima traccia dei dominatori. Ma anzi, convinto tout court d’essere protagonista del suo tempo, nel sogno di un’epoca declinata per sempre, si autocandida a rifondarne un’altra piú rilucente e trasgressiva. Ove primario obiettivo non sia quello di entrare nel “Guinness dei Primati”, o strappare qualche manciata di adesioni a vantaggio d’una avventura utile forse ai propri disegni ma decisamente antiumana, non si vedono ulteriori ragioni che rivendichino una presunta libertà di scelta.
La trasgressività si spaccia e si vende per libertà di costume, apertura mentale, profondità d’intenti, abilità di ragionare “in grande”. Non pochi l’ammirano e ne fanno acquisto.
Il che vale quanto a camminar di notte per strade buie ad occhi bendati, sostenendo di vederci benissimo perché superdotati.
Cosí stando le cose, affideremo ad una commissione di esperti (!) il delicato problema dell’adozione di minori orfani da parte del convivente omosessuale superstite.
Da piccolo, era il 1945, rimasi orfano di pater, il quale da soldato combatté e morí per quel che lui riteneva giusto. Nella mia vita ho sviluppato al riguardo una linea di pensieri, che mi hanno aiutato a crescere.
Con una certa perplessità mi chiedo: cosa avrei provato, quali pensieri avrei maturato, in che modo sarei cresciuto, se fossi rimasto orfano di partner?
Angelo Lombroni