Le aveva lasciato due sole cose: una figlietta di cinque anni, Annemarie, e il suo diario di guerra. E poiché per tutta la sua vita era stato in guerra con tutti, persino con Dio, quel vecchio quaderno con la copertina nera era tale e quale la cronaca della sua esistenza in trincea, allo sbaraglio. Era morto, Georges, il ribelle, il fascista, all’ospedale Mère de Dieu, in cima alla collina della Guardia, tre giorni prima. Non aveva voluto il prete. E fino all’ultimo aveva maledetto i dottori che avevano voluto amputargli la gamba destra in cancrena nella speranza di salvargli la vita. Avrebbe voluto, gridava a chi tentava di calmarlo, morire tutto d’un pezzo, come aveva vissuto. Accanto alla rabbia disperata, la vergogna, lui, un legionario, un combattente, seguace di Pétain, di farsi vedere cosí, alla mercé di dottori comunisti, imboscati, sanguisughe, pieno di bende, menomato nel corpo che mai si era arreso, e piú ancora nell’anima.
Una volta, anni prima, Ida era dovuta correre al pronto soccorso del Vieux Port di Marsiglia, dove finivano i marinai dopo una delle tante risse che scoppiavano per un nulla nella zona del porto. Ma la rissa in cui era stato coinvolto il marito non era stata per un nulla: aveva inveito contro un gruppo di facchini che ce l’avevano con il sindaco della città, ritenuto un gollista e uno sporco nostalgico del collaborazionismo fascista di Vichy. Dalle parole ai pugni, ai bastoni, e lui era finito nelle acque limacciose. Lo avevano ripescato in extremis e messo su un tavolaccio al pronto soccorso, ritenendolo prossimo a spirare. Ma lui, il sopravvissuto di mille e una battaglia, si era ripreso. Questa volta però, all’ospedale in cima alla collina, non ce l’aveva fatta. Ida lo aveva capito già da mesi prima: era morto dentro, con la sua rabbia e tutti i suoi rimorsi.
Uno di questi, forse il piú grande, il fallimento del rapporto con la prima moglie, che aveva causato il suo divorzio e la perdita dell’affetto delle due figlie: Claudine, la piú piccola, magra, emaciata, scura di capelli come la madre, e Annie, il ritratto del padre, bionda, combattiva, irriducibile anche nel non volersi riconciliare con lui. Non aveva neppure voluto andarlo a trovare in ospedale dopo l’amputazione della gamba e con il pronostico che gli rimaneva poco tempo. Neanche allora. Ma il diario, si era raccomandato Georges, Ida doveva consegnarlo proprio a lei. Era la sua eredità. «Forse, leggendolo capirà di me tante cose che io non ho potuto o saputo spiegarle» aveva detto. E sgranando gli occhi verde ghiaccio che neppure il male aveva vinto, aveva aggiunto: «Ma devi assicurarti che lo riceva proprio lei. Glielo devi dare di persona. Non al marito, quell’Antoine, un fumista… lo brucerebbe nella sua fucina. No, il diario è per Annie. Poi lei deciderà se farlo leggere anche a sua madre e alla sorella». Si era fermato e le aveva preso il braccio: «Giuramelo che glielo porterai di persona!» aveva insistito.
E cosí, adesso, con la bambina per mano e il quaderno nella borsa, Ida si avviava a casa di madame Maero, giú alla spiaggia. La donna, di origini italiane, era una buona amica. Vedova, aveva da poco perso il figlio, François, che tutti chiamavano Cacou. Il giovane, addetto alla nettezza urbana, era finito nel depuratore e ci era morto stritolato.
Ida trovò la donna con addosso i panni del lutto, ma la vide forte. «Devo andare via per un giorno, dalla figlia maggiore di Georges, a Martigues…».
«Ma non è venuta al funerale?».
«No, e neppure la piú piccola, Claudine».
«E le sue sorelle? ‒ chiese madame Maero. – Quelle abitano proprio vicino, al Mère de Dieu…».
Ida si strinse nelle spalle, poi aggiunse: «Se poteste tenermi la petite per qualche ora»…
«Con piacere, ci faremo compagnia, vero piccola?…» la mano ruvida della donna accarezzò i boccoli della bambina.
«Non vi preoccupate per il mangiare, non fa i capricci» disse poi Ida.
Madame Maero si rivolse alla bambina: «Ti piacciono le nouilles al burro?».
La piccola assentí, scuotendo piú volte la testolina piena di boccoli scuri dai riflessi ramati.
«Allora saluta la mamma e vieni che facciamo un gioco» disse madame Maero tendendole la mano.
La piccola diede un bacio alla madre china su di lei. Poi seguí la padrona di casa.
Soffiava un maestrale teso e freddo che s’infilava tra i calanchi gessosi e vi agitava i cespi di ginepro abbarbicati alle rocce. Un odore di salsedine e radici, a tratti mischiato con quello dei pini a monte della strada. La corriera con pochi passeggeri la percorreva velocemente, sfiorando nei tratti piú esposti i baratri sottostanti, in fondo ai quali il mare spumeggiava con smerlettature biancastre. Il tracciato tortuoso della strada, gli strapiombi, l’assedio continuo del mare alla terra, tutto gli ricordava il paese a Sud di Napoli dove la sua famiglia l’aveva esiliata quando aveva appena sei anni. Lí era cresciuta, si era sposata e aveva avuto due figli. Poi, dopo aver perso il marito in Russia, a poco meno di quarant’anni, era tornata in Francia.
Dopo qualche chilometro, ecco la nausea. Ida prese dalla borsa il limone che si era portata e lo annusò, dopo averne inciso la buccia con l’unghia dell’indice. Anche quel gesto e l’aroma sottile che si sprigionò dal frutto gli ricordarono in viaggi in corriera sulla costa di casa sua. Ma poi, quale casa era veramente la sua? A quale nazione apparteneva? L’Italia, la Francia, il villaggio di pescatori del Sud Italia o la grande metropoli marittima della Francia meridionale? Tutti gli emigrati, sradicati dalle loro origini, finivano con il non appartenere piú a niente e a nessun luogo in particolare. Nomadi, figli del vento.
Un giorno, con Georges e la piccola erano andati a visitare la Camargue, nel grande parco naturale alla foce del Rodano. E lí aveva visto, tra cavalli e tori in libertà, negli stagni affocati dai riverberi del sole assoluto e dominatore, gli eterni caminanti, gli tzigani, con i loro carrozzoni e gli sguardi persi dietro chimere di libertà. I sogni di essere liberi, di possedere la propria vita, di non essere schiavi delle necessità.
Ma poi, la vita precaria di quella gente annerita dal sole e dal fumo dei bivacchi, si scontra con l’intolleranza e l’ostilità delle popolazioni stanziali, forse segretamente desiderose anch’esse di quella libertà che sfocia spesso nell’arbitrio.
E del resto, nessuno è libero veramente. Neppure il padrone della tenuta di cui George era divenuto guardiano e giardiniere, monsieur Coste, il grande e potente armatore sempre al telefono, a parlare di cifre, agitato, sempre in allarme per i suoi traffici, quando veniva al Vecchio Mulino, la residenza rustica ricavata da un antico mulino a vento dove lui e sua moglie passavano i fine settimana e le feste. E lei, madame, alta, magra, elegante e infelice. Soffriva di costipazione e trascorreva ore al bagno. Georges insinuava che la donna soffriva della malattia di tutti i ricchi, avari al punto da non volersi privarsi neppure delle loro deiezioni… Georges era spietato con i Coste, anche se questi avevano i loro lati di generosità, soprattutto verso di lui: lo avevano assunto per custodire il Mulino e il parco intorno, pur sapendolo un anarchico. Ma era proprio quella condiscendenza che lo faceva infuriare piú di tutto.
Quando monsieur Coste gli dava degli ordini al suo arrivo dalla città e le consegne prima di ripartire, Ida si accorgeva che Georges fremeva e faceva fatica a trattenersi. Obbedire, piegarsi, non lo sopportava. Cosí, dopo, quando lui batteva i pugni sul tavolo della cucina per sfogarsi di aver subíto quella che secondo lui era un’umiliazione, lei gli diceva con foga: «Ma i suoi soldi te li prendi, no? E poi, non obbedivi ai tuoi comandanti e ufficiali della legione? E allora, perché tutto questo orgoglio? Pensa a noi, e alla piccola».
E lui, agitando la mano nell’aria: «Ma tu che ne sai… vieni da un Paese che ha sempre dovuto obbedire a qualcuno. Sei abituata a ingoiare rospi!».
«La fatica non è un disonore» concludeva lei sottovoce.
Ma lui non ci stava, non riusciva a piegarsi, e quel comportamento lo rendeva aggressivo, frustrato e infelice. Con il male che lo aveva corroso lentamente per mesi prima di stroncarlo era stato lo stesso. Fino alla fine si era ribellato, aveva recalcitrato, inveito e imprecato. In trincea, o meglio fuori dal riparo dei compromessi, allo scoperto, sotto il fuoco della vita messa di traverso, petto in fuori contro gli agguati. Ida lo aveva visto poco prima di morire brandire la stampella contro un infermiere che gli aveva negato una sigaretta. Ma lei aveva amato quell’uomo fino alla fine. Lo amava ancora, riconoscendolo in sua figlia. Lo avrebbe amato sempre, come il marito che se n’era andato nelle nebbie della steppa russa per chissà quali ideali che lei non era riuscita a capire, come del resto non aveva capito quelli per cui Georges era stato in carcere, ripudiato dalla società e dalla famiglia, finendo a fare il giardiniere del Comune.
Se lo ricordava cosí, nella sua divisa del Servizio Giardini comunale. Veniva con i suoi colleghi all’ora di pranzo nel bar ristorante che la sorella maggiore di Ida gestiva nel popolare quartiere di Saint Barthélemy insieme al marito, Henry, un francese purosangue, alto, biondo virato al grigio brizzolato, di poche parole ma svelto di gesti. Quando qualcuno dei clienti, per lo piú operai e impiegati, dava fastidio, importunava o bestemmiava, prima lo ammoniva con un «Arrête, donc!» dal bancone, poi, se quello insisteva o peggio rincarava la volgarità, lo afferrava con una mossa da buttafuori, una mano sulla collottola l’altra alle parti basse, e l’importuno si trovava sul marciapiede in un baleno, tra l’ilarità e il plauso degli altri avventori.
In quel bailamme di gente affamata e scontenta della vita, Rosette, la sorella, e Henry, il cognato, avevano accolto Ida, “la randagia”, come la chiamavano ormai in famiglia. Quella che era andata via tanti anni prima, appena bambina, non aveva avuto fortuna ed era tornata, lasciando i due figli in Italia, al paese: due “sales napolitains voleurs” come non troppo amabilmente celiava Rosette riferendosi alla gente del Meridione d’Italia. Con il tempo, in famiglia, con l’eccezione di suo padre Jean, barbiere al Porto Vecchio, in rue des Catalans, avevano dimenticato che era stata sua madre Anna a volerla mandare in Italia, perché non riusciva a dominarla. Mentre con gli altri sette figli ci riusciva, Ida non si piegava. Se veniva rimproverata, correva a nascondersi da qualche parte, tra le barche sulla battigia, su per le scale di una delle abitazioni a due piani che formavano il quartiere a ridosso del Porto, pieno di immigrati, soprattutto italiani. Ida ricordava bene il giorno che sua madre l’aveva consegnata a nonna Assunta, la madre di lei, venuta apposta dal Paese per portarsela via. Parlava esprimendosi in un dialetto stretto della Costa che neppure i napoletani avrebbero ben afferrato. Ma in compenso era forte e ben determinata, nonna Assunta. Era robusta e sana, come la maggior parte delle donne che lavoravano in casa a produrre pasta per i mulini e per le ditte che esportavano a Londra e in Francia, oppure filavano e tessevano ai telai domestici, o quelle che si caricavano addosso, incavandole tra nuca e spalle, sporte di agrumi di cinquanta e anche settanta chili, e le trasportavano giú dai fondi delle colline alte fino alla spiaggia, dove venivano issate a bordo dei bastimenti diretti a Napoli. Da qui, navi piú grandi le caricavano per il finale viaggio verso Paesi stranieri, persino verso l’America.
Adesso che la corriera percorreva la strada tra mare e burroni, Ida ricordava il giorno in cui era partita per l’esilio. Un giorno di primavera, piú o meno come quello presente. Suo padre era stato l’unico della famiglia a versare qualche lacrima. Due gocce gli erano colate dagli occhi grandi e scuri lungo le guance paffute da robusto mangiatore di spaghetti fino ai baffi, les moustaches, di cui andava particolarmente fiero. Il pianto glieli aveva bagnati e lui se li era asciugati con il grosso fazzoletto che portava sempre nella tasca dei pantaloni. Mamma Anna l’aveva appena abbracciata, con imbarazzo, tesa, lontana. Le sorelle e il fratellino erano al balcone del piano alto. Avevano sventolato le mani da sopra la ringhiera, lui, il piccolo, aveva infilato le manine tra le sbarre.
Poi, nonna Assunta l’aveva presa per mano ed erano andate al molo dove il grande bastimento era ancorato, dondolante appena nell’acqua torbida, con la passerella agganciata e pronta a far salire i passeggeri, alcuni diretti a Genova, altri a Livorno, la maggior parte a Napoli.
«Lei è mia nipote – aveva detto nonna Assunta al marinaio che controllava l’imbarco – le faccio vedere la nave, poi scende». Il passaggio era costoso per le finanze della famiglia, e nascondere un bambino voleva dire risparmiare parecchi franchi. Una volta a bordo, la nonna si tenne in disparte, nella sezione a prua, dietro una massa di cordami, al riparo dei verricelli e delle scialuppe di salvataggio. Ida fu celata con molta abilità tra le pieghe dell’ampia gonna. Intanto a bordo fervevano i preparativi per la partenza, le macchine vennero avviate, i cavi di attracco levati, l’ancora issata. I passeggeri affacciati scambiavano saluti con parenti e amici sul molo. Chissà se anche papà Jean era tra quelli, e dalla banchina agitava il suo fazzolettone bianco intriso di lacrime. Questo la bambina non poteva saperlo. Nonna Assunta la teneva coperta, evitando il piú possibile di essere vista dall’equipaggio. Ma quando la nave aveva appena doppiato il Castello d’If, Ida era dovuta andare al bagno. Si era sottratta dal riparo della nonna, mostrandosi. Nonna Assunta aveva cercato di trattenerla, ma un marinaio l’aveva vista all’imbocco della passerella e avvisò il capitano, un uomo anziano, barbuto, con un grande cappello nero dai fregi dorati.
«Signora, voi avete frodato la compagnia. La bambina andava dichiarata e il passaggio pagato. Vi riporto a terra e vi denuncio…». Il tono era severo, il cappello intimoriva, Ida sentiva che avrebbe fatto la sua pipí sulla tolda, davanti a tutti. Si erano radunati molti passeggeri, tra cui alcune signore ben vestite. Nonna Assunta abbrancò la piccola e la tenne sospesa fuoribordo, facendo capire nel suo incomprensibile idioma che insieme alla piccola si sarebbe buttata anche lei.
«No, per carità! – intervenne una delle signore. – Pago io per la piccola». E fu lei ad accompagnarla al bagno e ad interessarsene fino all’arrivo a Napoli, dando anche dei soldi alla nonna.
Cosí Ida, migrante di ritorno, era cresciuta al paese, in casa di nonna Assunta e nonno Carmine. Non aveva saputo piú nulla della famiglia francese, fino alla fine della Seconda Guerra, quando le sorelle Rosetta e Maria erano venute al paese con il treno, per vedere che ne era stato della sfortunata sorella rimasta senza marito e con due figli da tirare su. Ida le aveva accolte con affetto. Le due donne le avevano portato dei franchi francesi, nascosti nei tacchi di sughero delle scarpe, perché a causa della guerra da poco terminata portare soldi all’estero era vietato ai francesi. Erano ripartite dopo una settimana, con molte promesse, baci e abbracci. E nient’altro. Rosa aveva sposato Henry, che aveva fatto i soldi col commercio del legname in Costa d’Avorio, Maria si era unita a Marco, emigrato da Costantinopoli. Lui vendeva stoffe e tessuti, lei teneva un banco di verdura al mercato rionale di Saint Barthélemy. Entrambe le sorelle non avevano avuto figli.
Forse per questo, rimuginava tra sé ora Ida, avevano nutrito una certa invidia verso di lei, perché ne aveva avuti tre. Per questa ragione, forse, quando lei aveva avuto Annemarie, le avevano chiuso la porta in faccia. Ma le avevano già da tempo negato il loro appoggio, quando, ritornata dall’Italia aveva tentato di sistemarsi e lavorare per mandare soldi ai figli in Italia. Rosetta voleva organizzarle un matrimonio con uno dei suoi clienti, Julien, un facoltoso grande invalido sempre ben vestito in giacca e cravatta. La voleva sistemare. Ma era venuto Georges, randagio come lei, l’eroe sconfitto ma vitale. L’aveva abbracciata nel giardino dietro il bar, togliendole il fiato. Che farsene dei soldi di Julien… Quell’uomo in salopette portava l’avventura, l’amore.
«Sei un’incosciente – le aveva gridato Rosetta – hai piú di quarant’anni. Quello lí è un venditore di fumo, un blagueur, un fascista senza arte né parte. Julien ti garantisce una vita tranquilla, sarai una signora rispettabile, con una bella casa e una cameriera». Ma lei aveva scelto Georges. Per questo la famiglia le aveva voltato le spalle. Al funerale di Georges, su al cimitero vicino all’ospedale, era venuto solo André, il marito di Léonie, sua sorella minore. Il cognato lavorava con la compagnia dei tram e la linea sulla quale lui operava aveva una fermata proprio davanti al cimitero. Si era presentato con la divisa da tranviere, con un cappello fregiato d’argento, la giacca con mostrine rosse e bottoni lucenti. Aveva dato un tocco di solennità militare alla cerimonia, alla quale aveva partecipato solo un gruppetto di pazienti dell’ospedale e madame Coste. La piccola Annemarie non aveva potuto vedere il padre. Ida non aveva voluto. Come spiegarle dove era finita la sua gamba?…
Alla stazione centrale bisognava cambiare autobus. Prima dell’arrivo, Ida chiese all’autista della corriera dove avrebbe trovato la coincidenza. Era nello stesso piazzale dell’arrivo. Solo che, le dissero allo sportello della biglietteria, avrebbe dovuto attendere un’ora. Ne approfittò per andare al caffè della stazione per bere una menta. Poi prese posto nella sala di attesa e non sapendo che fare, tirò fuori il diario e si mise a sfogliarlo. Su quelle pagine Georges negli anni aveva scritto i fatti della sua vita, incollato foto e foglie dalle forme strane che andava raccogliendo ovunque si trovasse. Una foglia di platano a forma di cuore era stata attaccata in una delle pagine e portava sotto una didascalia a lapis azzurro che diceva: raccolta con la petite al castello del barone di Roquefort, sulla Corniche, con il mare che lambiva la scogliera dei rampart. C’era una foto di Annemarie, nata da poco, in cui appariva con una cuffietta di lana, in braccio alla madre, con Pierre, l’autista matto del barone, e il grosso alano Didonc, che un giorno, quando Georges aveva sgridato Ida minacciando chissà che, il cane gli si era messo davanti ringhiando come mai aveva fatto prima. Georges, che non aveva paura di nulla, quella volta capí che l’animale faceva sul serio. Dovette rabbonirlo parlando dolcemente a Ida e accarezzandola piú volte.
Il diario era pieno di foto degli anni della legione, della galera politica, del servizio di scorta nella polizia municipale, sulla moto, da solo o con la pattuglia al completo. Lui sorrideva, almeno ci provava. Ma il suo sorriso portava sempre come un alone di rabbia repressa, di amarezza non smaltita, assimilata ormai al suo temperamento, qualunque cosa facesse. Aleggiava sulla sua faccia squadrata quello spettro di amarezza in ogni varia circostanza. Un rancore di cui era pieno tutto l’album. Ma poi, alla fine, poco prima di morire, aveva scritto sulla pagina con lettere incerte, nere: “La mia colpa è di aver amato solo la Francia”. E lei, allora, e la piccola, e la prima moglie, e le due figlie? Georges aveva avuto un solo grande amore, come gli eroi oscuri delle leggende nordiche, come i soldati di ventura, come gli Ulisse di tutte le epoche e di tutti i Paesi. Un Olandese Volante, ecco cosa era l’uomo con il quale aveva vissuto gli ultimi anni e da cui aveva avuto una figlia.
Ida ricordò che un giorno, poco dopo essersi conosciuti, erano andati al cinema in uno dei locali piú famosi della città. Era stato lui, Georges, a scegliere il titolo: “Pandora”, un filmone a colori con James Mason e Ava Gardner. La storia di una maledizione che aveva colpito tanti anni, secoli, prima della vicenda, il protagonista, un capitano di vascello. Condannato a vivere e a navigare per tutti i mari della terra, senza mai trovare pace e la fine del suo tormento con la morte, finché una donna non lo avesse amato decidendo di morire con lui, rompendo cosí la maledizione. Il film non le era piaciuto, perché la storia la rattristava. Lui invece era in estasi. Nel capitano maledetto si riconosceva. Ida non si era invece identificata con Pandora: era sempre, come tanti venuti a cercare fortuna dall’Italia, una mendicante di pane straniero. Anche se era nata in Francia, anche se suo padre aveva dato al Paese che lo aveva accolto ben dieci figli ed aveva ricevuto per questo una medaglia.
Ma la Francia amata da Georges era in una dimensione nobile, quasi sacra. Nel diario le dedicava frasi con svolazzi e arabeschi decorativi, e poesie, di cui Ida capiva poco. Del resto, rare volte Georges le aveva fatto vedere il diario, e di sfuggita. Lo teneva chiuso in un baule di legno borchiato in cui riponeva i suoi cimeli, tra cui una medaglia e un pugnale. La pistola dovette venderla su insistenza di Ida: un’arma cosí la terrorizzava e le faceva ricordare la guerra e il marito disperso sul Don.
Tre intere pagine del diario avevano foto e parole che riguardavano le figlie. Ida chiuse il diario. La corriera per Martigues partí in tempo. Pochi passeggeri, ma altri ne salirono a una delle fermate prima di lasciare l’abitato urbano. Non era mai stata da quelle parti. Il tracciato della strada era tortuoso, tutta un saliscendi che assecondava il terreno che si faceva via via piú piatto e sabbioso. Pinete basse, forteti e brughiere di ginepro e mirto. Cespi di lavanda in fioritura. E il vento che si insinuava nei cespi folti, li scuoteva come turiboli per estrarne un incenso di odori pungenti. Ida chiuse gli occhi e si mise a pregare. Si sentiva sola e sperduta.
Con quel senso di solitudine e di smarrimento addosso arrivò a destinazione. L’aggregato urbano di Martigues era formato da strette viuzze che sembravano tutte uguali, da cui emergeva il campanile al centro del reticolo viario, che come una rete avviluppò la passeggera scesa dall’autobus e la smarrí piú di quanto già lo fosse mentre era in viaggio. Ida si ritrovò nella piazza antistante la chiesa e la luce intensa del Midi la ferí, le ottenebrò la vista. Una vertigine al colse e stava per svenire. Ma si fece forza e riacquistò la padronanza dei suoi movimenti. Doveva chiedere a qualcuno il recapito di Annie. Bastava dire che il marito aveva un’officina, che si chiamava Antoine… Non poteva sbagliarsi.
Percorse altre stradine di Martigues, ma in giro non vide nessuno. Non c’erano negozi, e neppure caffè con gli avventori seduti, ai quali si sarebbe potuta rivolgere. Il sole a picco li aveva sbaragliati, cosí come aveva costretto gli altri abitanti a rifugiarsi in zone ombrose. Era una luce assoluta, spietata.
Di nuovo la testa prese a girarle, di nuovo la nausea e lo smarrimento, la solitudine in cui era scivolata dopo la morte di Georges. Provò ad annusare il limone, ma non le serví.
«Eh, hai voglia a odorare il limone!» la voce che le parlava aveva la cadenza dialettale del suo paese. Apparteneva a una donna anziana, vestita all’antica, con la grande gonna a risvolti, il corpetto attillato, i capelli grigi raccolti sulla nuca. Ida la riconobbe: era Peppina, una vicina di casa dei nonni. Ma come ci era finita in un posto cosí?
Se lo stava chiedendo, ma la vecchia la prevenne: «Non ti devi preoccupare, Idarella, mi manda tua nonna…».
«Nonna Assunta!…» mormorò Ida.
«Vieni, ti accompagno io dove devi andare» disse la donna, e le fece cenno di seguirla.
Giunsero a una piazza e imboccarono una stretta via rettilinea. Peppina non parlava, ma osservava con uno sguardo affettuoso e rassicurante Ida, annuendo ogni tanto come a confermarle che si poteva fidare, che era in buone mani.
In fondo alla lunga strada c’era una casa piú grande, con un’officina al pianterreno.
«È là, ma non ti aspettare una grande accoglienza» disse Peppina. Poi aggiunse: «Ma vedrai, tornerai al paese, con la tua bambina. Lí, troverai finalmente pace».
«E tu, dove stai?» chiese Ida.
L’altra sorrise: «Io e tua nonna lí stiamo. Vicino al mare, tra i limoni e gli ulivi. Ti aspettiamo. E adesso va’, e che la Madonna ti accompagni!».
Ida si incamminò, Peppina le tenne dietro a una certa distanza, come se volesse assisterla fino al momento di bussare alla porta di quella casa che aveva le tendine alle finestre.
Ida bussò, Annie venne ad aprire. La riconobbe subito, e rimase basita sulla soglia, le mani che tentavano di rassettarsi i capelli scarmigliati. Si ritrasse dalla porta per farla entrare.
Ida disse: «Una vecchia mi ha accompagnata…» e si girò verso la lunga e stretta via. Ma non c’era nessuno.
«Entra, ti faccio un caffè» disse Annie, impietosita.
Mentre Ida seduta nella grande cucina luminosa beveva il suo caffè, Annie sfogliava il diario.
Ida la vide sussultare piú volte, alzare gli occhi verdi al cielo, aggiustarsi i capelli ramati. La udí infine piangere, sommessamente, rivolta verso la finestra, per non farsi vedere.
Fulvio Di Lieto