Mancando di carte geografiche, gli antichi si affidavano al mito e alla buona sorte, quando intraprendevano viaggi verso terre remote e sconosciute. Colombo, in procinto di attraversare l’Atlantico, parlava di Mare Tenebroso, di rotta verso l’Ignoto, e paventava assalti alle tre navicelle, veri gusci di noce, da parte di tiburones, pesci mostruosi, che altro non erano che squali e foche, forse al peggio orche e capodogli. E Leonardo sognava di costruire un cervo volante, l’aereo, mentre sulle prime carte di Mercadante, sui planisferi delle accademie nautiche, l’approssimazione di luoghi, popoli e continenti era somma. Capitava allora che mostrando la carta dell’Africa, al di sotto della fascia mediterranea, lasciato il vallo che racchiudeva la prodigiosa e ubertosa Gemellae della colonizzazione romana, sottratta all’arsura delle sabbie, corrispondente all’attuale Magreb, una scritta dicesse: «Hic sunt leones». Ovvero, il resto del continente nero, ritenuto impraticabile e selvaggio, veniva genericamente definito Etiopia, anche a Sud dell’Egitto. Gli Egizi però davano al territorio che si estendeva oltre le cateratte del Nilo il nome Nwb, che nella lingua demotica voleva dire “Oro”, traslato poi nel tempo in Nubia, la terra dell’oro. Si ritiene che le miniere di re Salomone si trovassero in quella regione, chiusa tra il deserto, il Nilo e la costa oceanica.
Ma era solo deserto e solitudine quel territorio? Quando le due legioni romane inviate da Nerone lo raggiunsero, intorno al 55 d.C., vi scoprirono un regno, governato da regine, che si chiamavano tutte Candace. Era il Regno di Kush, che aveva resistito ai Persiani e agli Egizi. Questi, però, avevano finito con l’accettare che quello strano regno prosperasse in autonomia, stabilendo un rapporto di scambi sia economicamente che culturalmente profittevoli per entrambi popoli. Quando durante la XVII dinastia gli Hyksos avevano invaso l’Egitto, profanando, oltre ai luoghi d’arte, i penetrali dei templi, i sacerdoti egizi avevano messo in salvo i sacri testi e gli oggetti rituali a Meroe, un santuario che era anche la capitale di Kush. Come File, l’isola-santuario dedicata a Iside e Osiride, Meroe era bagnata dalle acque del Nilo e godeva quindi di un margine di sicurezza altrove impossibile. Ma non era solo la posizione strategica che garantiva a Meroe la sicurezza e il prestigio che vantava. Altre forze ignote, proprie del territorio, le conferivano il particolare carisma di luogo in cui, piú che altrove, tali energie venivano recepite e utilizzate per riti iniziatici e per responsi oracolari. Piú a Nord, a Siwa, in pieno deserto, l’oracolo di Ammon aveva sancito la discendenza divina di Alessandro da Zeus. Il re macedone, rassicurato, affrontò la sua avventura asiatica e il suo fatale destino. Non basterebbero tuttavia le scarse notizie storico-geografiche a riportare alla ribalta il leggendario Regno di Kush e la sua capitale Meroe, liberandoli dalla spessa e compatta coltre di sabbia che li ha sepolti per millenni.
Ci ha pensato il vento, lo strano soffio arbitrario e avvolgente che fa e disfa il paesaggio desertico, sollevando la sabbia per innalzare dune alte come montagne o per dissolverle in una notte e scoprire centinaia di piramidi, di ogni dimensione, dalle svettanti maestose, alle piú minute e ridotte. Un mondo di piramidi basaltiche, che si ipotizza non siano di mano egizia. Lo stesso si sospetta di quelle di Giza, Cheope, Micerino e la Sfinge medesima, di cui tutto si teorizza, per finire con l’ammetterne il rebus che governa la loro data di nascita e il loro uso precipuo, se sepolcro o astrolabio.
Meroe ha restituito un reliquiario di centinaia di rebus di pietra, e la città che li aveva innalzati sfidando il passare del tempo. Una nuova teoria vuole che la concentrazione di tante piramidi nello stesso luogo valesse a richiamare l’incontro tra le forze telluriche e quelle stellari, legate al magnetismo universale, una vera e propria centrale di energia geocosmica, da utilizzare per fini strumentali. Operazione che trova nuovi riscontri nella recente ipotesi circa la riattivazione dei centri energetici del pianeta attraverso le piramidi, tutte rispettanti nella costruzione misure e codici uniformati alla matematica superiore, quasi a provare, con l’unicità di un disegno trascendente, le regole fisiche della norma per onorare quelle occulte degli archetipi. Fasci di luce, i fotoni, irraggerebbero da questi monoliti, in sincronia con le cadenze astrali per cui erano stati eretti, e che dovevano fungere da segnali per eventi di grandi mutazioni, nell’ordine planetario, della civiltà umana. Il velo dei misteri si solleva. Rivela che siamo eternità.
Elideo Tolliani