Non c’è bisogno di vederlo, il mare. Già appena dopo il raccordo lo si avverte: cambia la luce, l’aria si fa sapida e leggera. E poi, dopo il tunnel di Aprilia, il fantasma del mare è sotto l’asfalto della strada dove sfrecciano a folle velocità le auto nei due sensi, rischiando la morte in una roulette tutta italiana. Il mare è rimasto nelle sedimentazioni della sabbia ormai impastata con il cemento della massicciata. Un tempo, il Tirreno arrivava fin dentro la campagna, quasi tre chilometri, forse cinque nell’entroterra. Infatti il porto di Traiano è interrato e il suo bacino ottagonale è diventato una peschiera alimentata sporadicamente dalle piogge. Duemila anni fa vi attraccavano le trireme da guerra e le navi olearie commerciali, quelle almeno che non potevano risalire il Tevere per il loro pescaggio troppo fondo. Scaricavano a Ostia e da qui la Portuense era un andirivieni di carri e carretti.
Dario sentí subito l’odore del mare ed ebbe vivi nella memoria i sentori dell’estate: l’olio solare, il fritto di pesce, le grida eccitate dei ragazzini al loro primo tuffo. Quanti anni prima, secoli, millenni, tutto nella sua mente si accavallava e il passato remoto diventava prossimo, mentre il presente… oh, il presente! Sua moglie, i figli erano il presente che lo attendeva con il suo imbarazzo doloroso, e diventavano, per un meccanismo di rimozione e sopravvivenza, figure incerte del suo passato remoto.
Il mare apparve in fondo alla grande arteria alberata. C’erano vele al largo. Sulla litoranea, un aquilone dalla spiaggia di Castelporziano si alzava impennandosi sotto i colpi intermittenti del maestrale. Piccole ali che il vento sballottava, illudeva di slanci infiniti, dannava di cadute repentine, faceva dolcemente planare e subito dopo avvitare in spirali azzardate. E giú, in basso, al termine del lungo filo, il sogno d’infinito di chi lanciava l’aquilone: suo figlio Francesco.
Roberta si teneva scostata dal fratello, imbronciata, i capelli scompigliati dal vento freddo. Con la mano li ricomponeva, liberando la fronte alta e pallida. Aveva preso dal padre quella parte della testa, e lui ora se la guardava quasi incantato. Lo sguardo della bambina incrociò il suo. Per un breve attimo lo sostenne, e lui parve cogliere in quegli occhi tristi un barlume di dolcezza nei suoi confronti. Durò poco l’impressione gradevole. Quando l’abbracciò, la bambina accennò un sorriso distratto, assente. Nella scena era intervenuta Silvia, suo moglie, e Roberta spense l’accenno di tenerezza girando la testa. La mano di Silvia era quasi inerte, nella stretta senza calore che si scambiarono. Eppure Dario l’aveva toccata con una vibrazione intensa, ma lei si era sottratta al contatto sfilando le dita affusolate.
«Come al solito, hai fatto tardi» esordí nervosa. Non era vero, ma serviva alla strategia irritante che Silvia metteva in campo tra loro con abilità tutta femminile.
«Scusa, il traffico…» reagí calmo Dario, e la osservò sorridendo. Aggiunse: «Ti trovo bene».
Dario aveva solo voglia di stringerla tra le braccia. La salsedine, il verde del sottobosco oltre la strada, le infiorescenze selvagge della duna, tutto si mescolava al profumo lieve della pelle chiara di Silvia. Un regno che gli era stato usurpato.
«Mi hai detto che andate a pranzo da Borsetti» disse lei indicando il ristorante che interrompeva la linea della riva sabbiosa poco oltre il canale.
«Sí, mi è sembrato il piú comodo» confermò Dario. «Ho già ordinato il menú per telefono, come mi hai chiesto».
«Bene, vengo a riprendere i ragazzi alle tre». Notò il disappunto sul volto di Dario. «Facciamo alle quattro, però niente frittura e niente cioccolata… Sai che Roberta soffre di allergie e Francesco si sbrodola. E mi raccomando che non si scoprano. In questa stagione fanno presto a prendersi una infreddatura». La mano agitò le chiavi della macchina. Soggiunse severa: «Allora, alle quattro!».
La vide allontanarsi su per la china sabbiosa, bilicando morbida sui fianchi, le braccia allargate per tenersi in equilibrio, imitando il tentativo di certi uccelli prima di librarsi nel decollo. Era diventata ancora piú snella e desiderabile, se ciò era possibile. Strana la vita, pensò mentre lei, arrivata alla sommità del pendío, si voltava a guardare la spiaggia. Ma non fissò lo sguardo che per un lampo su di lui. Guardò invece a lungo Francesco, che strattonava il suo aquilone, quello costruito dal suo compagno, dal comandante, ora facente padre. Roberta si era avvicinata al bagnasciuga e cercava conchiglie. Si piegava sull’esile busto, i capelli chiari spioventi quando si abbassava per rovistare la ghiaietta sulla riva, che lei ributtava indietro con un leggero colpo della testa. Salutò la madre, che ricambiò sollevando la mano. Poi Silvia raggiunse la macchina parcheggiata sul ciglio della litoranea, aprí con la chiave, si sedette all’interno e avviò il motore. Dal finestrino abbassato agitò le dita nello spiraglio del vetro. Di sbieco il suo sguardo colse la figura di Dario. L’auto partí con un breve slancio e fu presto lontana nella direzione di Torvaianica. Sarebbe rimasta sola tutto il giorno, perché lui, cosí gli aveva confermato la mattina al telefono, aveva una famiglia che lo reclamava. Al che Dario, piccato, le aveva contestato il fatto che all’inizio di quella storia Silvia si era illusa che lui potesse lasciare la famiglia, separarsi e divorziare dalla moglie, un’arredatrice di interni molto conosciuta. E lui, allora, le aveva detto che si trattava della solita storia che gli uomini adulteri raccontano alle loro prede femminili, e che sicuramente lui, il comandante del bang supersonico, non aveva nessuna intenzione di rispettare gli impegni. Ora lei, pur accorgendosi che il marito aveva avuto ragione, si ostinava a mantenere il punto. Consentiva al compagno di tradirla con la propria moglie, e accettava la situazione di compromesso.
Ancora piú strano appariva adesso a Dario il sentimento che provava per sua moglie. Non era piú di rabbia, di orgoglio ferito che vuole risarcimenti trionfali, esiti punitivi. Era soltanto pietà, una profondissima, straziante pietà, per lei, per i figli, e, cosa stupefacente, sentiva una pena immensa per la moglie arredatrice di interni, per i figli di lei e per l’acrobata dei talami e degli F16.
Francesco gridò, forte abbastanza perché il padre lo sentisse e la sorella smettesse di rastrellare l’arenile e correre verso di lui. Un colpo di vento traverso aveva fatto avvitare l’aquilone, facendolo precipitare informe come un volatile abbattuto da una fucilata tra i cespugli che costeggiavano il canale della tenuta presidenziale. Francesco era rimasto inebetito, con il filo reciso stretto nel pugno. Roberta gli stava dicendo qualcosa sottovoce. Il bambino alzò gli occhi verso il padre. Dovette costargli molto chiedergli, in tono imbarazzato: «Me lo recuperi, papà?» avvolgendo lentamente il filo.
Il cuore di Dario aveva esultato a sentire il figlio pronunciare quella parola che da tempo non pronunciavano piú sia lui che la sorella. Lo rassicurò: «Certo, te lo vado a prendere e lo risistemo. Sta’ tranquillo!»
Roberta precisò: «Non si sarà rotto, è stato fatto bene!». Avrebbe voluto aggiungere che lo aveva fatto lui, l’uomo del bang, ma si trattenne. E anche se lo avesse detto, Dario era già troppo distante perché le parole della figlia lo raggiungessero.
L’aquilone aveva terminato il suo volo scomposto nella macchia di mirti e corbezzoli tra il bordo del canale e l’avvallamento di dune che dividevano la spiaggia dalla litoranea. Dario aveva seguito la traiettoria disarticolata fino al tonfo nella vegetazione. Sapeva quindi il punto dove cercare. Si mosse affondando nella sabbia. Decise di seguire l’alzaia del canale per camminare piú spedito. Un gabbiano volteggiò sul greto stridendo, un altro lo inseguí, risalirono con un’impennata sfiorandosi, poi una volta in quota si divisero con un’improvvisa virata. Lui e Silvia, appaiati, caduti, divisi. Il cielo vuoto.
«È suo, questo?» l’uomo alto, dai capelli candidi, carichi del riverbero marino, uscí dalla macchia reggendo quello che restava dell’aquilone.
Dario, che interdetto rispose: «Grazie, sí, è di mio figlio. Il vento… Non è molto abile, credo…». Prese i rottami con impaccio. Il suo sguardo dovette lasciar trasparire tutta la pena e la delusione che provava. La giornata rischiava di finire nel modo peggiore.
L’uomo sovrastava Dario di un bel po’ e lo stava adesso guardando con una luce cordiale negli occhi azzurri. Doveva essere un nordico, forse il pilota di qualche compagnia aerea straniera in sosta a Fiumicino, tra una volo e l’altro.
«Lo dia a me» disse l’uomo «Provo a rimetterlo a posto» e lo prese con delicatezza dalle mani di Dario. Armeggiò con le assicelle, la carta telata, rivoltò l’aquilone, ricollegò i fili spezzati, lo compattò in pochi secondi, o forse erano minuti, ma Dario era talmente frastornato, ipnotizzato da quanto l’uomo faceva, che non riuscí a rendersi conto esattamente di ciò che stava accadendo.
«Ecco, penso che cosí dovrebbe poter volare di nuovo».
«Grazie, mio figlio sarà felice…» disse confuso Dario, e prese l’aquilone.
«Lei però non riesce ad esserlo» seguitò l’uomo fissandolo intensamente, con dolcezza.
«Ad essere cosa?» replicò lui meccanicamente.
«Felice!» ripeté l’uomo, sorridendo. «la sua aura è bella ma dolente, rotta da linee scure. Lei soffre, non è cosí?».
Quella frase suonò strana, quasi provocatoria, e Dario piú che turbato, ne rimase ferito. Ma non volle dare seguito alla conversazione. Annuí appena, poi disse: «Lei è stato molto gentile, la ringrazio di nuovo. Buona domenica!».
«Anche a lei» rispose l’uomo, calmo. Poi chiese: «Non mi ha detto come si chiama».
«Dario Savelli. Di nuovo…» e fece per andarsene.
«Piacere, io mi chiamo…» disse nome e cognome che, come gli capitava sempre, Dario non afferrò bene, ma dal suono gli parve un nome straniero, svedese, o danese. L’uomo sorridendo, proseguí: «Buona domenica a lei, e soprattutto ai suoi due incantevoli figli. Hanno due aure bellissime, ma anche le loro sono disturbate da linee grigie. Soffrono, lo sa?».
Dario avrebbe voluto ribattere qualcosa, obiettare alle esternazioni di quella specie di occultista della domenica che gli stava dicendo di aure, di dolore. Ma Francesco era sbucato dalla duna e si era avvicinato per riprendersi l’aquilone.
«Oh che bello. Non si è neppure rotto!» esclamò raggiante.
«È stato il tuo papà che lo ha riparato» si affrettò a dire l’uomo straniero.
Francesco sorrise compiaciuto. Poi volto al padre disse: «Vieni, papà?»
L’uomo sorrise in maniera dolce e cordiale, serafica quasi. Quando tese la mano a Dario, il suo sguardo si fece penetrante e serio. Emanava da lui una vibrazione che si trasmetteva e placava. Poi si allontanò verso la spiaggia. Mentre Francesco lanciava l’aquilone e Roberta raccoglieva questa volta fiori dalla duna, Dario osservò che l’uomo si avvicinava a una giovane donna bionda, distesa su un telo da mare. Leggeva un libro. Lo richiuse deponendolo sul telo. L’uomo le disse qualcosa indicando nella sua direzione. Parlottarono brevemente, poi lei guardò verso Dario e sollevò il braccio agitando le dita per un saluto. Tenne in alto la mano finché lui non rispose al saluto. Poi i due, tenendosi per mano, si allontanarono verso la battigia e seguirono la linea tracciata dalla risacca. Il sole li avvolgeva, il vento smuoveva i capelli dorati di lei. Quando Dario e i ragazzi lasciarono la spiaggia, non erano ancora tornati. Dario si diresse verso il telo che appariva tra la sabbia, il libro era ancora lí e il vento ne sollevava a tratti le pagine. Che fare? I due chiaramente erano andati via. Prese il libro, ne lesse il titolo sulla copertina stranamente decorata di segni e figure: “Periegesi”. Strano era anche l’editore: Pandora press.
Francesco intanto, recuperato l’aquilone, ne stava riavvolgendo il filo. Che fare, lasciare lí il libro, esposto alla sabbia, all’umidità del mare agitato? I figli lo stavano chiamando. Vincendo l’indecisione, portò via il libro. Il titolo lo incuriosiva. Anche gli altri aquiloni erano stati ritirati. Era ora di pranzo, e il vento si era fatto piú cattivo e imprevedibile. Anche il mare aggrediva la spiaggia con onde alte che si rompevano all’impatto con la rena, spandendosi in vaste trame e arabeschi di schiuma. Nessuno calcava la sabbia, le dune erano deserte, le auto tutte ripartite. Se i due non erano andati via, dovevano essere spariti chissà dove, a Ostia forse. Non sarebbero tornati certo a recuperare un telo da mare e un libro che d’acchito sembrava stravagante. Come l’uomo alto dagli occhi azzurri, e la donna esile e bionda, andati, mano nella mano.
Avevano dimenticato, o volutamente lasciato per lui quello strano libro? La carta leggermente paglierina delle pagine mandava un odore molto intenso di fiori agresti, un bouquet indefinibile. In macchina, l’odore che emanava dalle pagine del libro, come quello che hanno le viole selvatiche a marzo, o i lillà, o il glicine, colmò l’abitacolo. Dario ne aveva impregnate le mani.
«Hai messo un profumo strano, papà» osservò critica Roberta.
E Francesco: «Deve essere stato quando ha stretto la mano a quel tipo strano, sulla spiaggia, poco fa. Aveva addosso lo stesso odore».
Il ristorante si affacciava sul mare poco fuori Torvaianica. Un complesso balneare con una piscina olimpionica di acqua salata e un trampolino per i tuffi acrobatici. Per i piú piccoli una piscina regolare e uno scivolo che ci finiva dentro dopo un ghirogoro di curve a gomito e spirali. Ora però tutto l’impianto era deserto e la salsedine incrostava la struttura in plastica azzurra.
Il pranzo si svolse con tranquillità. Il tavolo era in un punto del ristorante da cui si vedeva bene il mare, e tutto quello che servirono, compreso il dolce, incontrò l’approvazione dei figli. Silvia venne a riprenderli alle quattro. Si stavano sfidando a camminare in equilibrio sulle assi che durante l’estate reggevano la struttura dello stabilimento, che ora, tolte le tavole, erano messe a nudo. Ridevano. Silvia provò a rimproverarli, e quando si accorse che i figli non tenevano in alcun conto quello che diceva, se la prese con Dario, che, colto anche lui dall’euforia dei ragazzi, fece finta di non sentirla.
Il sole tramontava. Ricordò che una volta, tanti anni prima, proprio su quella litoranea, era d’estate piena, insieme ad altre coppie, avevano atteso che il sole calando oltre l’orizzonte emettesse il fantastico, elusivo raggio verde. E loro lo avevano visto sfagliare per un secondo: un barlume di smeraldo, un dono celeste.
Seguí con lo sguardo la moglie e i due bambini che si dirigevano dal ristorante al parcheggio. Li vide salire nella macchina di lei. Francesco reggeva l’aquilone, Roberta si mangiava le unghie. Disagio? E per cosa? Forse per il ritorno a una casa dove c’era l’altro, il vincente collaudatore acrobatico? Oppure… Ma non trovò altre ipotesi, non certo quella di dover lasciare un padre perdente, solo, con il mare agitato alle spalle, uno sconfitto, un naufrago della vita. Vide la sagoma del predatore di donne oltre i vetri del finestrino, accanto al guidatore. Il veicolo si mosse dal parcheggio immettendosi nel flusso del traffico sulla litoranea. Silvia stava dicendo qualcosa ai ragazzi. Lui restava rigido, senza muoversi. Parve per un attimo che la mano di Roberta si agitasse contro il finestrino a dita spiegate. Un saluto per suo padre, un segno di imbarazzo per la situazione che stava affrontando?
Il libro era lí, sul sedile accanto. Emanava il suo misterioso odore di viole selvatiche. Quelle che crescono sulle rovine. Mentre guidava verso Ostia, Dario ebbe voglia di un caffè. Si fermò a un bar sotto i portici della piazza. Il pontile si protendeva sulle onde, sempre in attesa di partire, e sempre arenato alla terra. Nuvole bianche erano cardate dal vento che ne sfilacciava gli orli e ne faceva dei merletti instabili. Un aereo al decollo da Fiumicino si stagliò nell’aria, si infilò in una di quelle nubi, per un attimo venne ingoiato, poi riapparve e brillò oscillando nel sole che tramontava. Mentre sorseggiava il caffè, prese il libro e lo aprí. L’odore di viole si fece piú intenso, come se invece di sfogliare le pagine avesse aperto la fiala di un filtro magico e portentoso. Poi il titolo del primo capitolo lo coinvolse. Diceva: «A ogni uomo la sua isola. La tua è Tutuila».
Dario, incuriosito, iniziò a leggere. Il libro descriveva con dettagli precisi come raggiungere quella straordinaria isola, Tutuila, messa lí da qualche parte nel Pacifico, una delle migliaia di isole che formavano gli arcipelaghi che disseminavano il grande oceano dei sogni umani di libertà. Ma Tutuila era anche il luogo dove lui, da ragazzo aveva sognato di andare, perché ‒ cosí raccontava una delle tante leggende dei popoli del mare polinesiano ‒ l’isola garantiva l’eterna giovinezza, in quanto toglieva dal cuore ogni dolore e ogni ricordo dalla mente. Una leggenda, certo, per attirare i turisti del metafisico. Ma lui l’aveva creduta possibile, come aveva creduto possibile l’amore eterno di Silvia. Richiuse il libro, con un lungo sospiro.
«Va tutto bene, signore?» il cameriere si era avvicinato e lo guardava preoccupato.
«Sí, va tutto bene, grazie. Mi porti il conto» rispose svagato Dario.
Il sole era del tutto sparito oltre l’orizzonte. Un’aria fredda proveniente dal mare gli diede dei brividi. Percorse la distanza da Ostia a casa come in trance. Una volta arrivato, la sua mente tornò allo strano uomo della spiaggia e al suo libro sorprendente, che aveva portato con sé. Un incontro che sembrava segnato dal destino. Squillò il telefono. Era Silvia.
«Mi dici chi era quella persona che ti ha parlato sulla spiaggia questa mattina? Francesco mi ha detto che gli è sembrato un alieno…».
«Ma no, quale alieno! Si trattava di una coppia. L’uomo era accompagnato da una donna, la moglie forse. Credo che fossero stranieri, nordici con molta probabilità, biondi, discreti. Magari alieni sul serio, perché si sono allontanati sulla spiaggia mano nella mano. Chi lo fa piú, ormai!».
Silvia non raccolse l’insinuazione provocatoria. «Ma i ragazzi mi hanno detto che i due hanno lasciato un telo da mare e un libro, e che tu hai preso quel libro. Strano anche quello, mi hanno detto. Un libro che odorava di violette selvatiche».
«L’ho qui tra le mani, e odora sul serio di fiori, ma non so se si tratta di violette, è un profumo…» stentava a trovare la parola.
«Un profumo strano, come tutta questa strana storia» disse ironica Silvia. Esitò un attimo, e Dario poté sentire il respiro di lei ansimare leggermente nel ricevitore.
«I ragazzi sono stati bene. Mi hanno detto che ti hanno trovato piú sereno, distaccato. Sono contenta. Come ti ho sempre detto, potrai vedere i ragazzi quando vuoi».
«Allora, alla prossima».
«Sí, buonanotte» tagliò corto lei. E Dario trattenne l’orecchio aderente al ricevitore. Il respiro di lei indugiò per un attimo prima che la comunicazione si interrompesse.
La decisione gli venne durante la notte. I notiziari Tv della sera avevano riferito e mostrato immagini di persone che si erano suicidate per fallimenti di affari, di soldi e di cuore. Ecco, si propose, si sarebbe suicidato. L’avrebbe fatta finita. Se lo facevano gli imprenditori falliti, perché non avrebbe potuto farlo lui? Piú fallito di lui non c’erano: abbandonato dalla moglie, disprezzato dai figli, irriso dal rivale, chiuso per sei giorni a settimana nella sua stanza all’ultimo piano del palazzo di un ente pubblico in smantellamento, a catalogare registri e digitarli per un archivio futuro che non sarebbe servito a nessuno. La cosa piú rimarchevole che faceva era comprare al supermercato granaglie biologiche con cui nutrire i piccioni che, unici esseri vitali in una città e una civiltà in estinzione, se ne infischiavano e si ingozzavano di chicchi di mais e riso soffiato, tubando e accoppiandosi senza inibizioni. Aveva deciso: sul far dell’alba, quella mattina, sarebbe uscito per andare a suicidarsi. Non aveva dubbi sul posto: il Pincio, dalla terrazza panoramica, sempre gremita di gente a tutte le ore e in ogni stagione, tutti i giorni, festivi e feriali. Voleva che il suo gesto fosse eclatante, vistoso e raccapricciante, perché entrasse nella cronaca importante, diventasse la topica mediatica per settimane. Si alzò, scrisse una lettera indirizzata alla moglie, ai figli, ai suoi genitori, che piú degli altri lo consideravano un fallito. Poi uscí, dopo essersi rasato con cura. Anche se, a pensarci, dopo un volo di venti metri, del suo corpo sarebbe rimasto ben poco intatto. Figurarsi la faccia. Ma ci teneva comunque a stare in ordine. Lo aveva fatto per tutta la vita, perché non l’ultimo giorno?
Mentre guidava verso il centro, il pensiero del gesto che stava per compiere lo assillò alquanto, pensando alle conseguenze sugli altri, a cominciare da chi, senza volerlo, avrebbe assistito alla sua performance ultimativa. Magari c’erano dei bambini, anzi, ce ne sarebbero stati di certo. Sul piazzale del belvedere c’era il teatrino di Pulcinella, c’erano le giostrine, i venditori di zucchero filato, di palloncini… Allontanò quei pensieri e parcheggiò al garage di via Ludovisi. Mise in tasca il tagliando d’entrata. Trovandolo, i soccorritori, cioè i raccoglitori dei suoi resti, avrebbero recuperato la macchina. Cioè, l’avrebbe recuperata sua moglie che avrebbe pagato il posteggio e anche provveduto ai funerali.
Percorse l’itinerario tante volte battuto con la famiglia: Piazza di Spagna, il Babuino, Margutta, e poi il Popolo con Silvia e i bambini, fermi presso l’obelisco e la fontana in attesa del cannone di mezzogiorno. Bum, il suono arrivava facendosi largo nel frastuono della piazza, e i piccoli, tesi a captarlo, alla fine sorridevano come se avessero catturato chissà quale mistero.
Da Rosati prese un caffè, l’ultimo della sua vita. Ne assaporò il gusto retrò, da vecchia madia, tipico del locale. Diede cinque euro alla fisarmonica che dirigeva l’orchestrina ambulante sistemata nel lato in ombra della piazza. Chiese che suonassero Amapola, la preferita di sua madre. Un motivo antico, dubitava che lo suonassero nel repertorio. Ma il fisarmonicista confabulò qualche attimo con gli altri suonatori, che assentirono. Lo conoscevano, e la canzone partí. Qualcuno tra il pubblico, piú anziano, si fermò ad ascoltare, riconobbe il motivo, romantico, perduto nel fiume della storia. Era come se un arcano fermasse l’ora. Ma la sua stava per suonare una terribile melodia. Risalí lentamente al Pincio. La sfinge di travertino nella parete proprio sotto il belvedere gli rivolse uno sguardo vuoto, assente, fisso sull’eternità. Non gli faceva domande esiziali, non gli poneva interrogativi fatali. Conosceva già il passo che stava per fare quell’uomo di carne e sangue, e quindi che senso aveva porre enigmi?
Il belvedere era affollato di turisti che si affacciavano alla balaustra per ammirare la città di tetti e campanili, sotto un cielo ingombro di tenere nuvole da passeggio, morbide, ovattate, silenziose. Cosí gli piaceva il cielo, si disse Dario, mentre si aggirava tra la gente di ogni provenienza, tutti presi dall’incanto di Roma, ubriacati dagli odori delle erbe spontanee che si sposavano alla pietra. Una coppia di stranieri, forse cinesi, o coreani, gli chiese di scattare una foto presso la balaustra, la città sullo sfondo. Li accontentò. Quelli, due giovani, forse in luna di miele, si abbracciarono addossati alla balaustra, si baciarono, e lui fu bravo a cogliere quel momento. Venne ricambiato da un sorriso e da un grazie espresso in un inglese smozzicato. Rimasto solo, si avvicinò alla balaustra, guardò di sotto e si accorse che da quel punto non sarebbe finito sull’asfalto ma sul prato che separava la passeggiata del Vate dal rialzo del belvedere. Meglio cosí. Avrebbe fatto meno rumore e sarebbe morto nel verde dell’erba, non nel grigio caotico del bitume. Almeno una fine ecologicamente corretta. Avrebbe aspettato ancora un poco, decise. Intanto, saggiava la vertigine del passaggio, se l’immaginava, la temeva e ne era affascinato allo stesso tempo. Stava per issarsi sulla balaustra, ma uno scoppio di risate lo trattenne. Erano gli spettatori del teatrino dei burattini. Non ci aveva fatto caso prima, non lo aveva notato. Era in un angolo del piazzale e davanti c’erano dei bambini che forse tornavano da scuola. Venne attratto dall’allegria delle loro voci. Un miraggio fresco nel deserto della sua angoscia. Senza pensarci, come in trance, si staccò alla balaustra e si diresse verso il teatrino. Lo spettacolo presentava le solite situazioni dello sfortunato e maldestro Pulcinella che una volta avevano tanto divertito i suoi figli. Ma lui non riuscí a interessarsi a quelle trame scontate, ripetitive. Aveva bisogno di allontanarsi da tutto, dalla città, dalla sua misera vita che non era neppure stato capace di interrompere.
Tornò al parcheggio e riprese la macchina. Guidò veloce fino a Civitavecchia. Fermò la vettura all’esterno dello scalo marittimo e si diresse al cancello di entrata alle banchine. Una ressa di gente stava per imbarcarsi sulle varie navi ancorate, alte, belle, cariche di promesse liberatorie. Ma lui non aveva prenotato, non aveva neppure un bagaglio. Solo la carta di identità e le carte di credito.
«Non ne avrà bisogno…» gli disse una voce alle sue spalle. Si voltò. Era l’uomo biondo dell’aquilone, e accanto a lui la donna intravista in lontananza sulla spiaggia di Castelfusano.
«Lei è Senta» la presentò l’uomo biondo. La donna sorrise e strinse la mano di Dario. L’uomo aggiunse: «E io sono Erik, Erik Daland… La stavamo aspettando. La marea sale, dobbiamo partire».
«Per dove?» mormorò frastornato Dario. Che fosse già morto? Passato oltre senza accorgersene?
«No, lei è vivo e in buona salute» disse Erik, che pareva leggere nei pensieri. «Anche se abbiamo temuto che volesse arrendersi!». Indicò poi un veliero ancorato alla banchina degli yacht: «Quello è il Pandora, veloce come un antico clipper del tè».
«Il Cutty Sark!» esclamò Dario.
«Ancora piú veloce» chiarí Senta. Gli occhi di cielo avvolsero Dario in un alone di serenità. Lei lo prese per la mano e lo guidò fino alla scaletta del veliero. Erik li precedeva. Dario vide sagome di uomini prendere ordini da lui. Il veliero si distaccò dalla banchina, le vele fiottarono distese nel vento.
«Tutuila…» mormorò Dario. Poi prese coraggio e gridò quasi: «Tutuila, lí vorrei andare!». Senta applaudí, con le mani delicate che si urtarono come farfalle candide nel riverbero del mare.
Erik disse: «E Tutuila sia!». Trasmise con voce alta e sonante le coordinate ai marinai. Le vele si gonfiarono e il Pandora sembrò innalzarsi sulle onde e volare come un aquilone, libero nel cielo.