Il sogno di Alessandro

Socialità

Il sogno di Alessandro

Il 13 giugno dell’anno 323 a.C. moriva a Babilonia Alessandro Magno. Aveva trentatré anni. Alcuni biografi dicono che a ucciderlo fu un eccesso di alcol, altri insinuano che fu il veleno, una letale mistura inviata da Atene e fatta bere al padrone assoluto dell’Asia, che si temeva volesse diventarlo anche della Grecia al suo ritorno. Ma forse Alessandro, nato per compiere una missione universale, moriva al termine di un ciclo karmico preordinato. Altri anni di vita non lo avrebbero accresciuto in gloria e in potere, anzi lo avrebbero avviato al declino di un uomo ordinario. E lui, tale non era. Chi era allora il bambino nato a Pella nell’anno 356 a.C., da Filippo e Olimpia, sovrani di Macedonia?

Il poema di GilgameshSteiner lo spiega nella conferenza del 27 dicembre 1923, in La storia alla luce dell’antroposofia (O,O, N° 233): «Abbiamo dunque parlato di due personalità menzionate nell’antico poema con i nomi di Gilgamesh e di Eabani (“Il poema di Gilgamesh”, conferenza del 26 dicembre 1923, op. cit.); ho potuto mostrare come esse siano vissute nel periodo egizio-caldaico, e come piú tardi …abbiano conseguito un approfondimento delle loro anime nei misteri di Efeso. Ho anche già messo in rilievo che quegli stessi esseri umani si ritrovarono inseriti nella storia del mondo, nelle persone di Aristotele e di Alessandro Magno» Un’anima destinata quindi a compiere azioni per il bene universale, non per la ristretta cerchia di una famiglia, di una singola nazione. Gli antichi Greci definivano tali anime soggette a “evergetismo”: un termine in disuso, ma il cui significato e piú ancora i suoi effetti sarebbero quanto mai necessari.

Un lettore scrive al Direttore di un celebrato quo­tidiano nazionale: «Si chiama evergetismo, è una virtú etica praticata in età ellenistica e romana e vuol dire che un privato ricco elargisce, regala alla comunità “doni” come ristrutturazione di strade, ponti, edifici, teatri. In un momento in cui il Comune di X non riesce neanche piú a colmare le buche terzomondiste delle nostre strade, perché il signor Sindaco non coinvolge i nostri concittadini ultraricchi perché regalino alla città la ristrutturazione di fatiscenti edifici ex industriali, o …Esposizione, Manifattura Tabacchi, Palazzo del Lavoro, Caserma …parco ecc.? Oltre alla fama eterna, una lapide celebrativa e, a futura richiesta, un epigramma funebre di celebrazione scritto dai loro uffici stampa, questi super ricchi potrebbero ottenere dal Comune intelligente dei vantaggi sotto forma di particolari sgravi fiscali ed altri incentivi economici. Durante l’Impero Romano era una prassi comune: molte opere architettoniche che ancora oggi possiamo ammirare sono il frutto di queste elargizioni. Mi domando: lo straricco, prima di coricarsi, gode di piú a contare le centinaia di milioni di euro frutto della sua attività lavorativa, oppure a pensare che gli sono grati migliaia di concittadini che, grazie alla sua lungimirante munificenza, possono studiare, fare sport, radunarsi, giocare e usufruire di utili servizi?».

La risposta al quesito ovviamente il Direttore non la dà, lasciandola gravitare sospesa nell’umoroso clima creato da una delle mille e piú denunce che i cittadini fanno in ambito pubblico e privato, scrivendo appunto ai giornali o affollando gli studi dei fori televisivi dove vengono messi alla gogna vizi e difetti di una società malata di autocensura.

Ma i rituali di autodafé non assolvono i peccati di azione e di omissione, e non risarciscono i danni. Una risposta però la si potrebbe dare al lettore: tutto deriva dalle “magnifiche sorti e progressive” di cui si lagnava il Leopardi, e per meglio capirci potremmo aggiungere che sono i piaceri della democrazia che fanno deperire in abbandono edifici e strutture volute e finanziate in passato da una monarchia ereditaria e affermata, insomma da un potere assoluto, che per farsi bello con il volgo, con le altre potenze e con la storia, progettava, erigeva e manteneva in efficienza e decoro le prove della sua forza. Che poi a breve distanza dal fasto del castello e del palazzo venisse su la sordida fungaia del borgo e della favela, non importava, anzi, ribadiva o per lo meno esplicitava quanto forte era la capacità repressiva o persuasiva: ciò dipendeva dai cromosomi etici del castellano, del signore, del reggente. Il lettore, citando il termine evergetismo, ha voluto sicuramente riferirsi al versante nobile del potere di fare e costruire, non alle sue spesso ovvie degenerazioni dettate dalla cupidigia o dalla cortezza di vedute. Si tratta cioè della consapevolezza di chi fa e costruisce che lo scopo è la diffusione della civiltà, ossia della condizione più consona ed efficace per consentire alla creatura umana, e attraverso essa a tutto il creato, di vivere in decenza e armonia.

Alessandro e Aristotele

Alessandro e Aristotele

Tali erano, in maniera piú o meno definita, gli ideali che ispiravano il giovane Alessandro quando, nella primavera dell’anno 334, diede il segnale di partenza per la campagna d’Asia a un esercito composto da 35.000 uomini e 160 navi. Scopo dichiarato dell’impresa era la liberazione delle città greche e di tutte le regioni dell’Asia Minore dal giogo persiano. Nel suo intimo però il neo re macedone, succeduto al padre Filippo, covava il sogno di portare la civiltà greca ai ‘barbari’ che, in tribú sparpagliate, o in popolazioni come la per­siana coese e ricche ma povere di cultura filosofica, occupavano le terre che dalle coste dell’Egeo si estendevano, oltre i monti altissimi del Caucaso, verso l’ignoto delle steppe mongoliche e le foreste dell’India. A quei popoli, immersi nelle loro fosche credenze idolatriche, andava portata la luce della dottrina che il suo maestro Aristotele gli aveva impartito. Di quelle conoscenze, egli, il sovrano dell’Ellade, era l’apostolo.

A quale tipo di conoscenze ci riferiamo? E quale il disegno occulto ispirante la spedizione in Asia? Il lavorío occulto di sostanze e umori della crosta terrestre sottoposta a pressioni e ardori tellurici produce alla fine del processo la gemma di minerale che risulta completamente avulsa dalla ganga rocciosa che la contiene. Allo stesso modo nascono, in determinati periodi storici e collocazioni geografiche e sociali, individui che si avvalgono delle qualità biologiche e delle disponibilità materiali e culturali del consesso umano in cui operano. Strumenti di un disegno trascendente, espletano il compito loro assegnato dalle Gerarchie superiori.

Alessandro era nato in una realtà sociale, quella macedone, quasi primitiva rispetto alla civile e progredita Grecia, e suo padre Filippo era un uomo irruento, carnale e grezzo, seppur dotato di un forte senso del potere e capace di conquistarlo, esercitarlo e tenerlo con tutti i mezzi, politici e militari.

Medaglia Filippo II di MacedoniaMoneta AlessandroUn soldato e stratega, che doveva fornire al figlio predestinato, oltre al trono e ai tesori, l’esercito piú valido dell’epoca, dotato della invincibile falange che aveva soggiogato tutte le città dell’Ellade. Alessandro era la gemma, Filippo la ganga. Il padre irsuto, tozzo, belluino, viscerale, san­guigno; il figlio cherubico, alto, biondo, slanciato, gli occhi cerulei, anche se uno, il sinistro, si incupiva come un cielo in tempesta quando denunciava i tumulti dell’anima pronta all’ira, come rapido era il giovane al gesto eroico, all’espansione di una generosità piú che regale, sovrumana. Doti utili al suo karma.

Ma insieme alla natura fisica del padre, tonica, irruenta, audace, Alessandro aveva ereditato dalla madre, Olimpia, sacerdotessa di Dioniso ‒ il dio dinamico dell’evoluzione ‒ la passione tumultuosa, la fusione e identificazione dell’anima con la natura, che portava ogni miste del dio al ritorno al Tutto. Un naturalismo tuttavia razionale ribadito dall’insegnamento di Aristotele, maestro negli anni della formazione, consigliere e amico nel corso dell’impresa che voleva portare al mondo il genio greco. Disegno che rientra nel quadro tipologico della civiltà ellenica, disposta per karma all’evergetismo. Dice infatti Schuré in Evoluzione Divina: «Il ruolo della Grecia si riassume nell’idea madre che essa ha irradiato sul mondo. L’opera ellenica fu la piú perfetta realizzazione del Divino nell’umano sotto la forma del Bello».

E Steiner, in Conoscenza vivente della natura, conferenza tenuta a Dornach il 19 gennaio 1923 (O.O.N° 220), riferendosi al rapporto dell’uomo greco col divino nell’arte, ci dice: «Quando il Greco si avvicinava al suo tempio, o quando addirittura vedeva nel tempio la statua del dio, sentiva calore, sentiva in sé qualcosa come un’intima luce solare. Sentiva persino in sé come una specie di disposizione per le forze irraggianti che nel suo essere compenetravano i singoli organi. Un Greco che entrava nel tempio e vedeva la statua del dio si diceva con tutto il cuore: “Mai sento la forma, la struttura di un mio dito, tanto chiara fino all’estrema periferia come quando ho davanti a me la statua del dio; mai sento come la mia fronte si incurvi al di sopra del naso, mai la sento nella mia interiorità, se non quando entro nel tempio e ho davanti a me la statua del dio”. Di fronte alla bellezza, il Greco si sentiva interiormente compenetrato, riscaldato, illuminato, vorrei dire toccato dagli dèi. E altro non era se non il sentire nel corpo eterico. Il Greco aveva un tutt’altro sentimento di fronte alla bruttezza rispetto all’uomo moderno. Questi sente la bruttezza al massimo in una forma molto astratta, volendola localizzare nel viso. Al Greco la bruttezza provocava freddo in tutto il corpo, una forte bruttezza lo faceva rabbrividire. Il reale sentire il corpo eterico esisteva ancora davvero molto forte in tempi piú antichi. Nel corso dell’evoluzione abbiamo perso una parte della nostra umanità».

L’armata del giovane sovrano macedone avanzava dunque non soltanto per conquistare il mondo.

Rivela ancora Steiner ne La storia alla luce dell’antroposofia (O.O. N° 233): «In realtà nella spedizione intrapresa da Alessandro si manifesta in modo veramente meraviglioso che non si trattò di una spedizione di conquista, nemmeno di conquista culturale; non si cercò affatto di imporre esteriormente agli orientali la civiltà greca: al contrario, Alessandro Magno non solo adottò i costumi dei diversi paesi, ma apprese subito a pensare e a sentire secondo il cuore e il sentimento delle varie genti. Quando per esempio giunse a Menfi, in Egitto, egli fu acclamato come liberatore da tutta la schiavitú spirituale che aveva fin allora dominato. Egli portò nell’Impero persiano una civiltà e una cultura che i Persiani non avevano mai potuto conquistare da se stessi. Raggiunse infine l’India, avendo concepito il piano di armonizzare tra loro la civiltà greca e quella orientale.

La Biblioteca di Alessandria d'Egitto

La Biblioteca di Alessandria d’Egitto

Sappiamo che egli fondò ovunque delle accademie, la piú importante delle quali fu, per la posterità, quella di Alessandria in Egitto. La cosa piú importante fu proprio il fatto che in molte località del­l’Asia egli abbia fondato piccole accademie, nelle quali si continuarono a studiare per lun­go tempo le opere di Aristotele, e a coltivarne la tradizione. Questo continuò per secoli ad esercitare un’importante influenza nelle regioni asiatiche occiden­tali, in modo, si potrebbe dire, che vi si è a lungo ripetuto, quasi come in immagine, ciò che Alessandro aveva inaugurato. Egli cominciò con il trapiantare in Asia con la massima energia le conoscenze della natura. …Fin nel cuore dell’India e dell’Egitto Alessandro trapiantò le conoscenze spirituali sulla natura che aveva apprese da Aristotele. …Fra le accademie fondate da Alessandro in oriente, oltre a quella di Edessa, fu soprattutto l’accademia di Gondishapur ad accogliere sempre di nuovo, per secoli, studiosi e maestri greci. …Poiché i Misteri di Efeso erano andati fisicamente distrutti nel giorno della sua nascita [anzi, piú precisamente la notte del 21 luglio del 356 a.C. quando, nell’insano convincimento, poi rivelatosi fatale, che il suo nome sarebbe passato alla storia, il pastore Erostato gettò la fiaccola incendiaria nel tempio di Artemide causandone la distruzione]. Alessandro volle fondare una Efeso spirituale che inviasse i suoi raggi luminosi tanto verso l’Oriente, quanto verso l’Occidente».

Nei Nessi karmici, undicesima conferenza del 14 agosto 1924 (O.O. N° 240) si legge: «Di come negli antichi tempi, attraverso le spedizioni di Alessandro la civiltà greca si fosse diffusa in Asia, oggi si ha solo una pallida idea. Tutto ciò che viveva nella civiltà greca era stato trasferito in maniera geniale da Alessandro Magno in Asia. …Prima di ogni altra cosa era passata in Asia con Alessandro

Magno una sana mistica razionale e scientifica, e quindi coloro che piú si basavano sulla concezione filosofica che era cosí giunta in Asia, vedevano dappertutto diffusa nel mondo l’intelligenza cosmica. In Asia gli uomini …si dicevano: tutto quanto è pensato, lo pensano gli dèi, lo pensa anzitutto quell’unico Dio che viene indicato già nell’aristotelismo. L’intelligenza umana singola è una goccia dell’intelligenza universale che si manifesta nell’essere del singolo; cosí il singolo si sentiva …come immerso con la mente e con il cuore, nell’intelligenza universale. …Ora però sopravvenne l’epoca in cui sempre piú si doveva preparare il talento umano atto allo sviluppo dell’intelletto per forza propria del­l’anima; non ricevere solo la rivelazione dell’intelligenza del cosmo, ma divenire intelligenti per forza propria. Ciò venne preparato con l’aristotelismo, la particolare concezione filosofica del mondo, sorta al crepuscolo della grecità, che poi diede l’impulso alle spedizioni di Alessandro in Asia e in Africa. Nell’aristotelismo vi era il distacco, il liberarsi dell’intelligenza terrestre da quella cosmica. In quella che piú tardi si chiamò la logica di Aristotele vi era l’enucleazione di una struttura di pensiero che divenne poi l’intelligenza umana in tutti i secoli seguenti. Va considerata, come ultima azione derivante allora dagli impulsi di Michele, la fondazione dell’intelligenza umana terrestre e mediante le spedizioni di Alessandro l’inserimento della civiltà greca nei popoli allora disposti al cosmopolitismo; e fu un’azione unitaria».

Nell’ottava conferenza sui Nessi karmici, il 19 luglio 1924 (op. cit.), Steiner ribadisce la presenza di Michele quale ‘amministratore’ dell’agire umano nell’epoca di Alessandro: «Se ora risaliamo a ritroso l’evoluzione dell’umanità e ci domandiamo quale sia stato l’ultimo periodo di Michele che precedette il nostro, giungiamo al tempo che si concluse nelle azioni cosmopolitiche avvenute sulla base della migliore vita spirituale greca di allora, nelle spedizioni di Alessandro in Asia. …Avvenne il fatto importantissimo che in quell’epoca si effettuasse la diffusione cosmopolitica di quanto attraverso la Grecia, era stato raggiunto dall’umanità. Nel fiorire della città di Alessandria nell’Africa settentrionale, si ha in un certo senso il coronamento di quel periodo micheliano».

Resti dell'Oracolo di DodonaLa madre Olimpia raccontava spesso al piccolo Alessandro la favola delle due colombe inviate da Zeus sulla terra per scegliere le due località piú adatte ad accogliere la sua divina presenza in forma di oracolo. Una delle co­lombe si posò su una quercia a Dodona, in Epiro, l’altra volò piú lontano, in Africa, e si posò su una palma nell’oasi di Siwa. In ciascuna delle due località venne eretto un tempio: quello di Dodona fu consacrato a Zeus Naio, ossia acquatico, per le molte sorgenti del luogo, e quello di Siwa a Zeus Amon, del pantheon egizio. A Menfi, dove Alessandro era arrivato risalendo il Nilo dopo le vittorie sui Persiani al Granico, a Isso e a Tiro, i sacerdoti gli consigliarono di recarsi a Siwa per conoscere dall’oracolo di Amon le sorti della sua spedizione in Asia e per avere conferma della sua discendenza da Zeus.

Oasi di Siwa - resti dell'oracolo di Zeus AmonNell’inverno del 332 a.C. Alessandro, con una scorta di Etèri, il corpo speciale della guardia reale, comandati da Eumene, intraprese il viaggio per l’oasi di Siwa. Percorsero il delta del Nilo con il suo dedalo di bracci che da Menfi si aprivano a ventaglio dal deserto verso la foce. Una lingua di terra buona e asciutta tra lo stagno di Mareotide e il mare, oggi Golfo di Abukir, venne scelta per l’accampamento. Il luogo era bello, lussureggiante di palme, acqua, argilla, calcare in abbondanza: ideale per costruirvi una città, la sua città. La prima di circa sessanta che edificò lungo tutto il percorso della sua periegesi alla ricerca della sovranità assoluta, della devozione agli ideali, della bellezza perfetta. All’architetto Dinocrate, incaricato di costruirla, disse appunto che la città che avrebbe portato il suo nome doveva essere una città perfetta. Dinocrate si accinse a tracciare la pianta della futura Alessandria con il gesso. A un certo punto il gesso terminò e l’architetto lo sostituí con la farina delle vettovaglie. Subito uno stormo di uccelli divorò la traccia appetitosa, inconveniente che venne presto risolto, lasciando però un presagio inquietante sul futuro della città. Ma l’indovino Aristandro, consultato, disse che l’evento non era di cattivo augurio, ma che al contrario la città sarebbe stata una provvida fonte di lavoro e di sostentamento per tutte le genti che vi fossero convenuti da tutto il mondo. Rassicurato dall’indovino, Alessandro, ancora debole per le ferite riportate durante gli assedi e le battaglie campali fino ad allora sostenute, si assopí e fece un sogno sorprendente: vide una città meravigliosa per i suoi edifici, le sue vie, per il magnifico ed ampio porto corredato da un lungo molo che si protendeva nel mare e che alla sua estremità aveva una torre altissima che proiettava un fascio di luce per indicare alle navi in arrivo l’imboccatura del grande bacino. Il re vide in quel sogno la prefigurazione della città perfetta che la sua impresa avrebbe realizzato. Non solo conquista, dunque, non solo potere da esercitare sulle genti conquistate per trarne un profitto materiale, o quel godimento meschino derivante dalla prevaricazione del sottomesso, dell’ilota.

Il sogno di Alessandro è la risposta della storia passata, presente e ci auguriamo futura al quesito del lettore del celebrato quotidiano nazionale italiano. Un sogno condiviso, una speranza che la ricchezza, materiale e morale, scientifica e umanistica della nostra gente non venga mai dispersa, occultata in caveau, o in conti offshore, o nei pretenziosi villoni che si annidano, mimetizzati, iperprotetti, nella fascia suburbana che da Roma arriva ormai in Abruzzo e in Umbria da un lato, a Pomezia e Terracina dall’altro. Denaro pietrificato, sangue mineralizzato del popolo innocente. Che invoca un nuovo Alessandro, l’Evergete, l’Uomo nuovo, inedito, che ha deposto la spada e tutto ciò che pensa e fa non è per il proprio tornaconto ma per l’eterna civiltà del Logos. La città perfetta sognata tanti anni fa da un eroe Iniziato, che può essere realtà concreta per noi tutti.

 

Ovidio Tufelli