Quark

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Domenico si alzò presto come di consueto, ma era sveglio già da un pezzo. Anzi, per essere esatti non aveva chiuso occhio per tutta la notte. Si era agitato, rivoltandosi nel letto, sbuffando, andando di continuo in cucina a bere. Finché sua moglie, Erminia, non si era svegliata anche lei.

«Ma si può sapere che hai?» gli aveva chiesto.

«Niente – aveva risposto Domenico – saranno stati i cetriolini sotto aceto. Non sono riuscito a digerirli».

Ma non era vero, perché lui digeriva anche i sassi. Quello che non aveva digerito invece era una parola. Due sillabe soltanto, che ricordavano il verso delle oche da cortile, o delle anatre nella palude. Si trattava di una trasmissione presentata da un solerte conduttore, che ospitava esperti in varie materie scientifiche.Galassia Quella sera un professore aveva parlato di astronomia. Era un uomo di mezza età, ma­gro e con radi capelli. Aveva illustrato per quasi un’ora i segreti delle stelle e delle piú remote galassie, come se le avesse visitate personalmente. Elencava cifre a piú zeri riferendosi alla distanza tra i pianeti, alla loro massa, formulava ipotesi sulla possibilità per l’uomo terrestre, in un futuro neppure tanto lontano, di andarvi ad abitare, riuscendo persino a coltivarvi dei campi e a costruirvi condomíni come sulla terra. Puntando una bacchetta sulle immagini riprodotte su uno schermo dello studio televisivo, affermava che si sarebbero potuti fare salti di spazio e di tempo superando misteriosi portali di cui si conosceva l’esistenza, anche se non si erano ancora potuti varcare. Quelle ipotesi venivano sciorinate con disinvoltura, sicurezza e anche con un’aria di garbata sufficienza verso gli spettatori lontani anni luce non dalle supernove ma dal suo cosmico sapere.

Dopo il programma scientifico era venuto il telegiornale. Il giornalista parlava con la stessa sicumera dello scienziato, usando termini complessi, molti in lingua straniera, e diceva tra l’altro che a Bruxelles era stato deciso, per la stagione incombente, che il prezzo delle olive, che quell’anno risultavano in eccesso, sarebbe stato necessariamente calmierato. Meno olio d’oliva e piú olio di semi, per il quale doveva essere incrementata la coltivazione di mais e girasole. Quanto al grano, il prezzo al quintale sarebbe calato del quindici per cento, mentre per le galline ovaiole il promesso stanziamento per le aziende avicole non sarebbe stato accordato. Per quelle però che avrebbero accettato di smistarsi all’allevamento di pecore, per il latte e la lana, la sovvenzione sarebbe stata erogata, ma in una misura che non era stata ancora decisa dai tecnici.

Fu non tanto lo sciorinamento di notizie che riportavano le decisioni delle autorità di Bruxelles a stranire Domenico ‒ tanto c’erano abituati lui e gli altri suoi amici agricoltori e allevatori ‒ quanto a scombinargli l’umore fu proprio la somiglianza di modi e termini che avevano in comune il professore delle stelle e gli esperti delle stalle. Tutti quei signori che sedevano a Bruxelles nei loro comodi seggi imbottiti, con davanti la placchetta a caratteri dorati con il loro nome e accanto la bottiglia di acqua minerale, le cuffie alle orecchie per la traduzione simultanea e il computer portatile per farsi passare i dati se un improvviso mancamento della memoria li avesse traditi, sfoggiavano lo stesso sorriso di benevola consapevolezza e di onnipotenza. Sembravano dire al volgo: «Noi siamo quelli che tutto sanno e tutto possono. Lasciate fare a noi che capiamo i misteri della vita e delle coltivazioni di rape rosse, pomodori e mais. Voi dovete limitarvi a fare come noi vi diciamo di fare. Vi troverete bene solo se asseconderete i nostri dettami. Siamo noi a poter decidere i come e i perché delle rotazioni di colture, perché siamo pagati per pensare al posto vostro. Soprattutto, non vi illudete di poterci scalzare dalle nostre poltrone dirigenziali».

Quelle considerazioni Domenico le aveva ruminate dentro di sé davanti alla Tv mentre il professore parlava di orbite stellari su Quark e il conduttore del telegiornale di linee direttive sulle coltivazioni, e ci era tornato su durante tutta la notte insonne. Gli avevano confermato quello che aveva intuito da molto tempo con quel suo buonsenso contadino: lui e gli altri coltivatori come lui non avevano il diritto di pensare né di prendere decisioni autonome. Solo chi pensa comanda, era la conclusione. Gli altri, i sottoposti, dovevano limitarsi a seguire le disposizioni imposte. Dovevano continuare ad alzarsi alle quattro del mattino per curare i campi, con la pioggia o il solleone, andare a letto presto, far partorire le vacche, pulire le stalle…

Anche se capiva che le cose ormai stavano cosí, la faccenda non gli andava giú. Quei sapienti facevano parte di un’altra congrega, addirittura di un’altra specie umana. Lo si capiva da come parlavano e muovevano le mani, con gesti rituali, come quelli del prete in chiesa. Erano mani che aprivano le porte dei misteri e dei segreti. Grazie a loro girava il mondo nel verso che consideravano, a loro discrezione, valido e giusto.nuvole e sole Domenico arrivava a immaginare che potessero fermarlo, il mondo, far piovere o far uscire il sole, a seconda della propria convenienza. Era certo che ci fosse una convenienza nelle cose che facevano e dicevano. Ci guadagnavano, oltre ai soldi, il prestigio. Poter disporre della vita degli altri, amministrarne il corso. Quelli come lui non potevano farci nulla. Avreb­bero dovuto lavorare vita natural durante per sfamare quei signori azzimati e saccenti, sottostando sen­za opporsi, pena l’esclusione dal con­sesso civile, dalla categoria dei coltivatori. Avvertiva che il professore astrologo e il mezzobusto del telegiornale esibivano quella sicurezza perché avevano alle spalle non la parete dello studio televisivo ma l’universo intero, con tutto l’olimpo del potere nazionale e mondiale. Una rete di poteri che si era intrecciata per imprigionare quelli come lui e costringerli a piantare patate invece che broccoli. E sentiva, per la sua atavica disposizione alla cautela, che a monte di quella apparenza garbata e liscia c’erano le bombe atomiche, le case farmaceutiche, le industrie chimiche e informatiche, che avrebbero drasticamente abbassato la cresta a chi, accortosi dell’inganno, volesse in qualche modo porvi fine con qualche rivolta.

Quella mattina uscí come al solito presto, ma invece di avviarsi verso il suo campo, se ne andò al paese. Alla moglie, che gliene chiese la ragione, raccontò che doveva recarsi all’emporio per certi attrezzi che aveva ordinato la settimana prima. La vera ragione era che tutti i pensieri che gli erano venuti sull’ineluttabilità della sua condizione di sottomesso all’ordine occulto del mondo, e soprattutto dell’impossibilità di ribellarsi allo strapotere della cultura e della politica, gli avevano tolto la voglia di andare nei campi, che fossero i suoi o quelli degli altri contadini, perché non erano in definitiva veramente di proprietà di chi li coltivava, ma appartenevano in realtà a chi poteva decidere come amministrarli e coltivarli. La politica e la finanza erano entrati nella sfera delle competenze agricole e vi avevano impresso il marchio del loro modo di intendere la vita, di indirizzarla dove e come faceva loro comodo.

contadinoDomenico non aveva piú voglia di mettere mano, vanga e zappa, ai filari e ai solchi. Quegli arnesi di norma lo gratificavano con la loro essenziale funzionalità tributaria della sua forza e della sua volontà. Per la prima volta gli sembrarono strumenti inaffidabili, venduti alla causa del potere mondiale, succubi, come gli uomini che li usavano, delle trame ordite dal professore e dal conduttore del telegiornale. Ma forse, a ben vedere, anche questi obbedivano a ordini superiori sulla scala della gerarchia del potere assoluto. Gradini, ma non il vertice della piramide. Un potere diverso ma non meno perverso li dominava.

All’emporio trovò Antonio, un vecchio commesso con il quale aveva una certa amicizia. Ci scambiava delle idee quando andava a rifornirsi di materiale e attrezzi per le sue colture.

«Che hai – gli chiese Antonio – ti è successo qualcosa?».

«Ho dormito male…».

«E si vede, perbacco, se si vede!».

«Per la verità, non ho chiuso occhio tutta la notte».

«Ah, volevo ben dire – disse Antonio – la tua non è la faccia di uno che ha dormito male, ma di un morto di sonno». Lo scrutò pensoso, poi fece oscillare l’indice con fare inquisitorio: «Non me la conti giusta, cosa ti è capitato?».

Domenico tergiversò qualche attimo prima di rispondere: «Tu lo sai cos’è una galassia?» chiese alla fine, rapido.

«Che? – Antonio si protese verso Domenico arricciando il viso. – Cos’è, una nuova specie di parassita che divora le viti?».

«No, si tratta di stelle, di pianeti, quella roba lí…» e con la mano tracciò nell’aria una parabola come aveva fatto il professore alla Tv.

Antonio, scosse il capo. «No, non so di che stai parlando» reagí impacciato, sorpreso che il suo amico ne facesse un problema al punto da non poter dormire.

«Tu la guardi mai la televisione, la sera?» chiese poi Domenico.

Antonio scrollò le spalle: «Mia moglie la guarda. Io finisco sempre con l’addormentarmi».

«Allora non hai visto ieri sera la trasmissione con quel nome che imita le oche e le papere, quella che fa quac».

Antonio scoppiò a ridere, scuotendo il capo: «Ma fammi il piacere! E vuoi perdere il sonno per una parola?».

«Non è cosí semplice – replicò Domenico – non si tratta solo di una parola, ma di tutto il resto che si porta appresso…».

«Sentiamo, cosa si porta appresso quel quac?».

Domenico, già mezzo consolato per aver trovato un sodale alla sua problematica, iniziò il resoconto di quello che lo aveva turbato, del quark, del professore e del fatto che con i paroloni, con la cultura, con i misteri della politica, quelli, seduti nei loro seggi imbottiti, a Roma come a Bruxelles, tramavano per costringere gli illetterati come lui e come Antonio a fare esattamente quello che loro avevano deciso si facesse. Insomma, gli ignoranti dovevano rassegnarsi a obbedire.

Manuale di Astronomia«E tu – reagí bonario e anche un po’ divertito Antonio – istruisciti. Va’ alla libreria in paese e compra un libro sulle stelle, magari ci trovi anche quel quac lí che ti tiene sveglio. È una soluzione. Ti costerà qualche euro, ma è sempre meglio che imbottirti di pillole per dormire».

In libreria gli rifilarono un manuale sull’astronomia pieno di illustrazioni. Il commesso lo aiutò a trovare il termine quark nel glossario e glielo spiegò in qualche modo. Ma quella cortesia, invece di aiutarlo, gli confuse ancora di piú le idee. Tornò a casa deciso però ad andare fino in fondo e saperne di piú sulle galassie, le stelle e tutto quello che riempie il cielo, come i pianeti e le comete.

«Vedrà – gli aveva detto il commesso – l’aiuterà molto…».

La moglie lo accolse con un: «Che roba è?» indicando il libro. Non domandò quanto avesse speso perché aveva in mente di fare un acquisto in profumeria di lí a qualche giorno e le serviva il beneplacito del marito. E poi, Domenico era uno assennato. Se aveva acquistato quel libro di certo gli serviva per le coltivazioni: lunazioni, colture biologiche, prodotti a chilometri zero. Tutte novità che portavano scompiglio nella vita dei campi e in quella dei coltivatori. Magari, in una di quelle pagine suo marito avrebbe scoperto il modo di attrezzarsi con un macchinario moderno e risparmiare soldi e fatica.

La sera, dopo cena, Domenico si chiuse in cucina con il libro. Si versò del caffè avanzato dal pranzo. Avrebbe fatto l’alba per capirci qualcosa. Ma già dalle prime pagine i termini, i numeri, le immagini, peraltro sorprendenti, lo frastornarono. Meccanicamente, sfogliando, arrivò al­l’ultimo paragrafo. E lí ebbe la rivelazione: l’autore, un astronomo, professore all’Università di Oxford, concludeva avvertendo il lettore che, al di di là dei quanta, dei quark e delle stringhe, era l’uomo che contava. Tutto l’ordine cosmico gli era subordinato.

Lo prese una strana euforia. Uscí nel podere. Il cielo era pieno di stelle. Per la prima volta, da suddito e servo, si sentí re della terra che coltivava: sacerdote del rito agreste, antico quanto il mondo.

 

Fulvio Di Lieto