Alberto Giacometti (1901-1966), scultore esistenzialista secondo alcuni critici, secondo altri surrealista, dalla nativa Svizzera si trasferí appena ventenne a Parigi, dove negli umori delle varie correnti intellettuali ed artistiche imperanti nella capitale francese tra Belle Époque e Anni Venti, si distinse per una sua ricerca di modelli ridotti all’astrazione materica. Tentativi, intuizioni del nuovo, ma nulla che lo distinguesse dalla pletora di artisti di ogni provenienza che avevano eletto Parigi quale nuova Atene in ogni settore della creatività, del costume.
Poi, nel 1945, la rivelazione: un bronzetto etrusco visto a Tarquinia, il cosiddetto “Ombra della Sera”, gli forní l’ispirazione per realizzare da allora in poi sculture di varia grandezza, tutte rifacentesi al modello etrusco, figure esili, filiformi, scarne, per dare la suggestione dell’inconsistenza carnale, dell’immaterialità, tipiche della condizione del corpo abbandonato dall’anima, come nell’opera piú notevole del periodo in questione: “L’Oggetto Invisibile”.
La credenza degli antichi popoli italici, e degli Etruschi in particolare, voleva che nel corredo funerario venissero posti oggetti di cui il defunto potesse sentire la mancanza, oppure amuleti e manufatti per ingraziarsi i Mani dell’Oltretomba, e ancora, come nel caso delle Ombre della Sera, di figure protettive, capaci di accompagnare e difendere l’anima del defunto dalle aggressioni di demoni e spiriti avversi. Il clone di una di queste ombre serali etrusche, definito da Giacometti “L’Homme qui marche”, l’Uomo che cammina, del 1961, a un’asta di Sothesby’s, nel 2010, ha spuntato la cifra record di 74 milioni di euro. Per essere un’ombra, o comunque un viandante scarnito, un bel risultato di concretezza.
Eppure, a un giornalista che gli chiese un giorno: «Maestro, in caso d’incendio, quale opera del suo studio porterebbe in salvo?» Giacometti, senza esitare, rispose: «Il mio gatto»!
Il fatto è che in caso di emergenza, sia incendio o naufragio, dovremmo salvare i valori veri della nostra vita. Dovremmo però comprendere quali siano, piuttosto che decidere di salvare oggetti inutili a ricominciare la nostra nuova esistenza di sopravvissuti in maniera piú degna e fattiva della precedente.
Non sappiamo, o almeno la storia non ce ne consegna memoria, se Nerone avesse un gatto e se lo amasse al punto di volerlo salvare dall’incendio che devastò la Città Eterna il 19 luglio del 64 d.C. Fino a qualche anno fa, nei negozi di souvenir a Roma, tra le palle di vetro con la neve imbiancante i massimi monumenti dell’Urbe, tra le statuine in vetroresina rappresentanti il pacioso centurione con la lorica di plastica argentata, il gladiatore con la grinta che piú feroce non si può ma tutto sommato accomodante, da ‘volemose bene’, spiccava un Nerone che accennava la fuga dalla Città Eterna in fiamme. L’imperatore impugnava con la sinistra una lira e con la destra una torcia fiammeggiante, con la quale, si intuiva, aveva appiccato il fuoco a botteghe, palazzi e condomini popolari, le insulae della Suburra e di Trastevere. Era l’icona dell’incendiario.
Vile maniaco per alcuni storici detrattori del personaggio, fine esteta con intenti catartici, depurativi e sanitanti, per altri. Come che sia, un enigma. Anche perché in quel drammatico incendio, il piú disastroso che abbia mai colpito una grande città nelle varie epoche della storia umana, da Persepoli a Chicago, passando per Londra e Mosca, Nerone si comportò, se non da eroe, da sollecito e razionale pater patriae, e soprattutto da uomo di rapide e risolutive iniziative di contenimento dei danni a persone e a beni pubblici e privati. Uno Zamberletti o Bertolaso ante litteram, con poteri assoluti di tale estensione da far invidia ai pur validi titolari della Protezione Civile del nostro paese nelle varie emergenze sismiche, alluvionali e geologiche degli ultimi decenni, tra le piú rovinose.
Storici a favore come Tacito, contrari come Svetonio e Plinio, persino il precettore filosofo Seneca, non seppero vedere nell’incendio di Roma altro che un evento meccanico, accidentale, una casualità. Eppure qualcosa doveva ben significare la perdita di luoghi sacri come la Casa di Numa, l’Atrio delle Vestali, il Santuario della Magna Mater, di Giove Statore voluto da Romolo. Il fuoco catartico distruggeva i simboli della Roma arcaica e repubblicana, quella non ancora contaminata dagli eccessi di amoralità e dissennatezza cui erano giunti i Romani sudditi dell’Impero, nonostante i tentativi di Augusto di riportarli alle antiche virtú civiche e familiari. Si volle pertanto leggere il grande incendio come un fatto episodico. Eppure i simboli che le sue fiamme avevano divorato erano, a volerli interpretare esotericamente, di chiara lettura. Nerone, anima incline, per corredo genetico comune a tutta la gens Giulia-Claudia, alle imprese eccelse come alle perverse bassezze, intuí per via sensitiva che l’incendio non era soltanto un dramma qualunque, ma il punto di arrivo di una civiltà.
Ecco allora la necessità di costruire un’arca in cui stipare quelli che secondo lui erano i valori eterni di Roma e della civiltà che di Roma era stata maestra: la Grecia. La Domus Aurea fu quell’arca. L’imperatore ne fece una Wunderkammer con statue elleniche, affreschi cui si ispirarono secoli dopo i pittori rinascimentali, come lo stesso Raffaello, che a rischio della vita si calarono nei meandri della Domus, che la damnatio memoriae di Tito aveva soffocato sotto il complesso termale che porta il suo nome. E poi i marmi pregiati, i mosaici con incastonate pietre preziose. Mancavano ormai però i numina primigeni, che i prodigi architettonici, i mirabili giochi d’acqua, le volte vertiginose richiamanti l’Olimpo ‒ da cui piovevano petali odorosi sui commensali mollemente adagiati nei triclini per conviti esotici ‒ non bastavano a rimpiazzare. Ed è proprio lo spirito vitale che occorre salvare da un incendio.
Ma oggi, da materialistica come è diventata, l’attuale civiltà non sa cogliere negli eventi le lezioni impartite dall’Alto per migliorare. Messaggi che il Mondo spirituale invia da sempre agli uomini, attraverso varie profezie apocalittiche.
Tutte le dottrine mitocosmogoniche, le tradizioni esoteriche, le religioni universali concordano nel ritenere l’acqua, il fuoco e il sisma gli elementi che presiedono ai cambiamenti ciclici della storia della Terra, degli uomini e della natura tutta, vegetale e animale, gatti compresi…
Gli Aztechi e i Maya previdero che dopo il Quinto Sole, o Sole del Movimento, a causa dei grandi sommovimenti della Terra, molti uomini sarebbero periti. Nell’anno 13 del periodo detto “Canne”, corrispondente al preludio del Terzo Millennio, prevedevano la venuta del Sole che illumina la nascita degli uomini cari agli dèi. L’antica cosmogonia Maya riporta il racconto degli eventi al passato, sia per il resoconto cosmologico delle epoche già trascorse sia in termini profetici per quelle di là da venire. La narrazione rientra nel mito del dio Quetzalcoatl, il Serpente Piumato. Gli dèi, infatti, decisero di porre fine alla loro rivalità e di dare origine a un’èra nuova. La loro prima opera fu quella di costruire una nuova terra; presero una creatura mostruosa, provvista ovunque di occhi e di bocche (Apocalisse di Giovanni?) e la spezzarono a metà: una metà fu la terra, l’altra la volta celeste (Nut e Geb degli Egizi?); dai capelli della dea nacque poi la vita vegetale, alberi, fiori; dai suoi occhi le fonti e le caverne; le montagne e le ampie valli ebbero origine dal naso e dalle spalle della dea-terra (Demetra, Cerere, Cibele, Feronia, Iside). Bisognava poi dare nuova origine al Sole, alla Luna, e quindi all’umanità. …Perché nascessero gli uomini, fu Quetzalcoatl a offrirsi di andare nella regione dei morti, accompagnato dal suo nahual, il suo doppio (il mito di Osiride, quello di Orfeo, la discesa di Cristo agli Inferi). Con il suo sacrificio, Quetzalcoatl, resuscitato, ricompose le ossa sparse dell’uomo e della donna, le rimise insieme e le portò alla dea Quilaztli che le macinò, ne versò la polvere in un prezioso bacile (il magico Calderone dei Celti). Il dio Quetzalcoatl si ferí e con il suo sangue irrorò la polvere delle ossa nel bacile. Gli dèi esultarono, poiché con quel sacrificio anche essi erano riscattati, avendo creato i nuovi esseri umani esenti dal dolore e dalla morte. Esclamarono: «Sono nati, o dèi, i macehuales, coloro che sono stati redenti».
Anche nel Vangelo di Luca (Cap.17, 26-36) c’è una visione profetica riguardante la venuta del Regno di Dio e il ritorno glorioso del Cristo Gesú: «Come accadeva nei giorni di Noè, cosí accadrà anche nei giorni del Figlio dell’Uomo. Mangiavano e bevevano, si ammogliavano e si maritavano fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca; poi venne il diluvio e fece perire tutti. Similmente è avvenuto nei giorni di Lot: si mangiava, si beveva, si comprava, si vendeva, si piantava, si costruiva; ma nel giorno in cui Lot uscí da Sodoma piovve fuoco e zolfo dal cielo e tutti perirono. Cosí succederà nel giorno in cui il Figlio dell’Uomo si rivelerà. In quel giorno, chi si troverà sulla terrazza, se avrà in casa i suoi arnesi, non discenda a prenderli. Chi sarà in campagna similmente non ritorni indietro. Ricordate la moglie di Lot. Chi vorrà mettere in salvo la propria vita, la dovrà esporre alla morte e chi la esporrà la conserverà. Quella notte, vi dico, di due che si troveranno in un letto uno sarà preso l’altro lasciato. Di due donne che si troveranno a macinare insieme una sarà presa l’altre lasciata. Di due che si troveranno nello stesso campo uno sarà preso l’altro lasciato».
Tante sono le previsioni apocalittiche rivelate nel tempo, per avvertire gli uomini di quanto accadrà se non vorranno percorrere il retto sentiero. Sul giornale «Neues Europa» di Stoccarda, il 15 ottobre 1963 fu pubblicato un articolo, a firma L. Einrich, riguardante il terzo segreto che la ‘Signora’ di Fatima aveva rivelato: «Il 13 ottobre 1917, dopo una serie di sei apparizioni, la Vergine apparve per l’ultima volta ai pastorelli Lucia, Giacinta e Francesco. Dopo l’avvenimento del Miracolo del Sole, la Madre di Dio rivelò a Lucia un Messaggio speciale, che, fra l’altro, diceva: “Un grande castigo cadrà sull’intero genere umano, perché l’umanità ha peccato e calpestato il Dono che le avevo fatto. In nessuna parte del mondo vi è ordine e Satana regna nei piú alti gradi della Chiesa. Egli riuscirà a sedurre gli spiriti dei grandi scienziati che inventano le armi, con le quali sarà possibile distruggere in pochi minuti gran parte dell’umanità. Avrà in suo potere i potenti che governano i popoli e li aizzerà a fabbricare enormi quantità di quelle armi. E se l’umanità non si opporrà, sarò obbligata a lasciare libero il braccio di mio Figlio, che la punirà peggio di quanto non abbia fatto con il diluvio”».
Peter Deunov, l’esoterista bulgaro noto come Maestro Beinça Douno, profetizzò anch’egli la fine dell’attuale civiltà: «Il Kali Yuga è terminato. Stiamo entrando nella Nuova Era. Il Fuoco Divino purificherà tutto il vivente e l’uomo si eleverà ad un grado superiore di coscienza per la sua entrata nella Nuova Vita. Sarà questa l’Ascensione di cui parlano le Scritture. Questo fuoco trasformerà il mondo portando una nuova morale. Questa onda immensa giungerà dallo spazio cosmico e inonderà tutta la Terra. Tutti coloro che vi si opporranno saranno spazzati via e trasferiti altrove. Questa trasformazione non toccherà solo la Terra, ma l’insieme di tutto il cosmo. …I sentimenti, i pensieri e gli atti negativi saranno consumati e distrutti. Ogni cosa che ora circonda l’umanità crollerà e scomparirà. Nulla resterà di questa civiltà e della sua perversione; tutta la Terra sarà scossa e non verrà lasciata traccia di questa fallace cultura che mantiene gli uomini sotto il giogo dell’ignoranza. La Terra sta ora seguendo un movimento ascendente e ognuno dovrebbe sforzarsi di armonizzarsi con le correnti ascensionali. … Il denaro e il potere, ora venerati come se fossero i padroni assoluti della vita, saranno sottomessi all’Amore e lo serviranno. Ma è attraverso la sofferenza e le difficoltà che la coscienza umana sarà risvegliata. I terremoti, ad esempio, non sono solo dei fenomeni meccanici. Il loro obiettivo è anche di risvegliare l’intelletto e il cuore degli uomini, cosí che essi possano liberarsi dagli errori e dalle follie, e perché comprendano che non esistono solo loro nell’universo. Per questo si avvereranno molte delle predizioni dei profeti. Ci saranno inondazioni, uragani, fuochi giganti e terremoti che spazzeranno via tutto. Il sangue scorrerà in abbondanza. Ci saranno rivoluzioni, terribili esplosioni risuoneranno in numerose regioni della Terra. Là dove c’è terra, arriverà l’acqua, e là dove c’è acqua arriverà la terra. La Terra sarà percorsa da onde di Elettricità Cosmica. Chi si è macchiato di amoralità non sarà in grado di sopportare l’intensità di queste onde. Sarà assorbito dal Fuoco Cosmico, che consumerà il male che lo possiede. Ma alla fine, come è scritto, “tutta la carne glorificherà Dio”».
Rudolf Steiner aggiunge agli elementi ciclici con cui l’umanità dovrà confrontarsi per la catarsi, l’affermazione che questa civiltà non sarà spazzata via, come le precedenti, dal fuoco o dall’acqua, ma dall’odio, nella guerra dell’uno contro tutti.
Constatando la miserrima condizione morale cui è giunta la civiltà umana, un livello di bassezza, perversione e follia mai toccato prima, l’osservatore è portato a chiedersi se l’Eterno abbia ristretto i suoi parametri di valutazione delle malefatte umane e per contro allargato i perimetri della sua misericordia, per cui colpe e trasgressioni che avrebbero fatto vergognare gli stessi abitanti di Sodoma e Gomorra vengono tollerati e perdonati senza che piogge di ceneri, lapilli e zolfo scendano dal cielo ad annichilire i rei, facendo tabula rasa delle loro peccaminose città, riducendole a inerti paludi salmastre. Che poi persino da queste morte gore l’homo economicus ricavi sostanze rigeneranti che attirano da ogni dove valetudinari infiacchiti per riprendere quota, ebbene è un mistero nel mistero.
Accanto a questa frustrante considerazione sorge alla mente di chi osserva quella che ipotizza la rassegnazione dell’Onnipotente per la vana attesa di vedere l’homo salvatico di leonardesca memoria farsi uomo-Spirito. Per cui deve essersi risolto a lasciare l’uomo confezionarsi in vita, se capace, il Paradiso, oppure, in libera scelta, l’Inferno, in cui espiare le colpe, autoinfliggendosi i castighi, con un trattamento peggiore di quello in uso nelle Malebolge dantesche. In effetti, i gironi infernali danteschi ignorano certe maligne raffinatezze cui è arrivato l’essere umano del melting pot, ossia la promiscuità globale in cui ogni specificità del Sé viene dissolta in una sterile omologazione.
Questo fai-da-te, corroborato dai sempre piú sofisticati congegni tecnologici e presídi chimici e sanitari, ha reso l’uomo arrogante. Per cui, anche se Dio in prossimità di una catastrofe globale come il Grande Diluvio volesse istruire un Noè disponibile a gestire l’operazione traghetto oltre i quaranta giorni di precipitazioni alluvionali, non troverebbe l’uomo timorato di Dio, l’umile servo della Casa del Signore, pronto persino ad immolare uno di famiglia pur di accontentare l’Onnipotente, ma l’uomo superbo che ignorerebbe ogni sua richiesta. «Salvare tutti gli animali? – direbbe, esibendo un risolino sprezzante – Ma neanche uno, neppure il gatto!».
«Usque tandem?» insinuerebbe Cicerone. La risposta seguirebbe prontamente: «Fino a quando varrà il culto idolatrico del mefistofelico potere del denaro!». Il Beffardo è in realtà l’animatore del perverso gioco del trading, che ha del teatrale nel medianico apparato digitale delle migliaia di Wall Street che hanno, non invaso, bensí invasato il mondo intero. Mulini che macinano a vuoto una ricchezza inesistente, i derivati del Nulla. Sale per queste ed altre ragioni la febbre degli inermi, degli incapaci a reggere il gioco, dei bisognosi. Per loro occorre approntare l’Arca della comunità sociale organizzata secondo l’Ordine Tripartito: Pensare, Sentire, Volere espressi nell’ordinamento Culturale, Politico, Economico, autonomi ma connessi in unità di intenti ed azione: Libertà, Eguaglianza, Fraternità. È tempo che dalle parole si passi ai fatti. Se vogliamo salvarci dal Diluvio della violenza, dal Fuoco del furore. Non uno contro tutti ma tutti per uno, uno per tutti.
Su Nerone corrono molte dicerie storiche. La piú nota è che avesse incendiato Roma per ripulirla dal degrado, dal sovraffollamento e dalla sporcizia dei sordidi quartieri popolari che assediavano le dimore aristocratiche, gli edifici pubblici, i monumenti e i sacelli dell’Urbe Quadrata. Diceria infondata, poiché l’incendio finí col ridurre in cenere proprio gli edifici pubblici, i monumenti, i santuari aviti e sacri dei Fori, le grandi residenze private, compresa la sua, sul Palatino, il colle nobile per eccellenza, risparmiando invece Trastevere e Campo Marzio, con le sovraffollate e misere insulae dei fuori censo. Se mai lo avesse fatto, il discendente di Giulio Cesare avrebbe commesso uno di quegli errori che possono inficiare il destino di un uomo e di una civiltà.
Credere infatti che la distruzione di una realtà ritenuta, a torto o a ragione, imperfetta valga a migliorarla o persino a trasformarla, è disegno da folli. Scorrono sul web le immagini di Aleppo, in Siria, distrutta dalle bombe ‘salvifiche’ della crociata occidentale contro gli infedeli. Visioni spettrali, da Armageddon, orrida, mefistofelica deflorazione di una civiltà umana tra le piú antiche e ricca di memorie civili e religiose, di tutte le civiltà e di tutte le fedi, un’arca degli aneliti universali alla trasfigurazione e alla trasumanazione. Ma è chiaro che in tutto ciò opera lui, il Beffardo, che fa credere a chi manovra gli strumenti di guerra che dal fuoco dell’odio possa venire la catarsi liberatoria dell’umano, finalmente emancipato dalla subordinazione al divino. Un inganno che si perpetua, con maliziosi, strategici aggiornamenti, dai roventi giorni della Lemuria.
Non sappiamo se Giacometti avesse veramente un gatto nel suo studio, ma è molto verosimile, conoscendo l’abilità dei felini di accasarsi ovunque, soprattutto ove ci sia tolleranza per la vita in ogni sua forma, persino se racchiusa in un filiforme aggrumato bronzeo che evoca la dimensione oltre la morte. Forse la battuta di Giacometti era una metafora per dire che, salvando il gatto, a vincere è la vita stessa. Quella che va oltre la materia, che l’inganno mefistofelico vuole da sempre imporre all’uomo come ideale. Da salvare, cioè, non è il prodotto creativo, per quanto magistralmente elaborato, ma piuttosto ciò che nell’artista l’ha posto in essere, in simbiosi e unisono con il genio della natura, con le forze cosmiche. Per la Grande Opera che lo Spirito compie attraverso l’uomo.
Ovidio Tufelli