Cosa c'entriamo noi con la resurrezione

Considerazioni

Cosa c'entriamo noi con la resurrezione

Capra e unicornoVi siete mai cacciati in un dialogo con uno di quegli esseri speciali, tutto corpo e metà testa, il quale (o la quale, fate voi) con atteggiamento aggressivo al limite del paranoico, sostiene a spada tratta che non c’è alcun’anima, né co­scienza e neppure autocoscienza, alme­no cosí come concepiti dai suoi ‘nemici’, che, da quanto ho capito, nell’ordine sarebbero: religiosi, mistici, occultisti, inguaiati, sognatori, indovini, fattucchieri ed elegiaci?

Non mi si chieda la ragione di questa ultima categoria; avrei voluto conoscer­la anch’io, ma da come è andato l’in­contro, non ho avuto il tempo di farlo. Sarà per un’altra volta, sempre che l’interlocutore non venga armato, nel qual caso ricorrerò alla criptopsicografia.

«Non c’è nessun’anima, è inutile che tu mi tiri fuori Platone, Agostino, Tertulliano e compagnia bella! Mi vieni a raccontare di resurrezioni, di redenzioni, di coscienze ordinarie che diventano autocoscienze ecc. Tu e i tuoi amici (sic!) avete bisogno di fondarvi sulla vecchia storiella di un qualche dio che muore affinché un’umanità si salvi! Ma non sei in buona fede. L’umanità si salva perché pensa. È il pensiero razionale-astratto che funziona! Prima con il razionalismo di Cartesio, poi con l’Illuminismo, ha guidato il mondo. Che c’entra l’anima? Che c’entra la coscienza? La trasformazione da coscienza in autocoscienza è quella dell’uovo che diventa pollo. Ma se non vuoi essere tu il pollo, allora dimostrami scientificamente questo processo di trasformazione: numeri, cifre, dati alla mano! Altrimenti taci, sta’ zitto per sempre!».

Ho deciso pertanto di star zitto per sempre. Non mi sono tuttavia impegnato a non scrivere, e quindi, ecco qua, cercherò di stendere un resoconto e chiarire, nel possibile, il quadro del­l’ostica situazione.

In questa prospettiva, redigerò una specie di lettera aperta, ovviamente indirizzata all’amico di cui sopra, ma piú in generale dedicata a quanti ne condividono le opinioni che, pur essendo poca cosa, valgono un’intera (s)concezione filosofica.

A tutti costoro, sicuramente mossi anche loro da sete di sapere e fame di verità, auguro di non morire d’inedia.

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«Caro Amico,

ho riflettuto su quel tanto, anzi, su quel poco, che mi hai detto, e ho cosí deciso di esporre, nero su bianco, alcuni miei pensieri. Se vorrai leggerli ne avrò piacere, altrimenti mi terrò solo la soddisfazione d’averli scritti, senza il desiderio, o la tentazione, di contrariarti; l’idea di convertirti non mi sfiora neanche. Inoltre, quanto a idea, non sarebbe neppure onesta.

Lo dico perché rientra tra le mie convinzioni il fatto d’essere tutti su una stessa barca, in un mare molto agitato con preannuncio di burrasca, per cui volersi dividere e schierare in opposte fazioni, al grido di “O con noi, o contro di noi!”, oltretutto confidando nella possibilità di cambiare idea a piacimento (modalità forse non tua, ma, credimi, largamente diffusa), è il modo migliore per riversarsi a frotte, ora a destra ora a sinistra, con il rischio di capovolgere il natante e finire ammollo.

Se il quadretto ti parrà una frecciata alla situazione politica del paese e ai suoi governatori, affari tuoi. Non era nei miei intendimenti.

Parlerò, ops!, scusa, scriverò piuttosto di quanto avviene prima delle scelte, prima ancora delle opinioni e dei giudizi; parlerò del pensiero: lato, a dirla onestamente, non molto frequentato di noi stessi. Eppure anche tu, come del resto credo la maggioranza degli uomini, nulla potresti dire senza averlo prima in qualche modo pensato. Ho detto la maggioranza, ma tengo conto anche della minoranza. Sai, ho una preferenza per le cose complete.

Accade anche a me di pensare; però, al contrario di altri, mi piace studiare e dedicarmi a quel pensare che precede il dire. Mi è sempre sembrato molto importante: una cosa eclatante, del tutto speciale, che mi distingue dalle altre forme viventi nelle quali l’evoluzione della natura ha giocato un pochino a ribasso, o meglio, ha operato – ed è altamente probabile che continui a farlo tuttora – in tempi e gradi nettamente diversi.

Nell’essere umano ha quindi posto una marcia in piú, e già questo è un fatto straordinario, da non sottovalutare, come finora, ma da rivalutare appieno aprendone i limiti attuali ad ulteriori possibilità intrinseche.

Se il minerale è in letargo dall’inizio del mondo, se il vegetale dorme per cosí dire in piedi, e l’animale gode di un’ininterrotta fluttuazione di movimenti, mi sembrerebbe giusto collegare a ciascuno di questi regni naturali anche un differente potenziale di pensiero. Con l’uomo la natura ha inteso presentare la sua forma piú evoluta, in quanto creatura pensante, cosciente di pensare e perciò autocosciente. Non solo autocoscienza di esistere, ma autocoscienza in quanto pensante; il che è cosa molto diversa.

Perché lo sostengo? Ma perché in base a quel che ho capito, il pensiero è l’energia primaria, o primordiale, da cui è sorto l’intero nostro universo e tutte le belle cosine che si trovano in esso. Questa che tu credi follia, non lo è; si tratta di una semplice constatazione di chi ha posto in fila le percezioni offerte dalla natura allineandole con quelle derivanti dall’espe­rienza della vita e dalla scienza, e ha osservato come esse vadano a formare una catena di congetture intimamente intrecciate tra loro, sicché pare cosa spontanea supporre che tale catena non si esaurisca a monte né a valle. La mia modesta capacità di confezionare collanine di pensieri si protrae, continua nel tempo; prima e dopo di me, altri hanno iniziato e altri proseguiranno la piccola parte di lavoro di mia competenza.

Teoria del caosIn fondo, il paradosso moderno della “Teoria del Caos” che cos’è se non un’al­lusione a questa facoltà di creare connessioni di pensiero fortemente sinallag­matico? (Ho appreso questo aggettivo da un accademico-in-buona-fede e non vedevo l’ora di usarlo: significa che ogni concetto si lega al vicino in un rapporto di collaborazione reciproca, ossia ispira e rin­salda le parti congiunte come un muro di mattoni eretto da un provetto muratore, le cui connessioni si susseguono precise, senza difetti o sbavature, a prova di piom­bino). Solo cosí, infatti, ci si può creare un modello base per qualunque necessità; e se la necessità di un individuo è quella di conoscere la verità sui grandi temi della vita e dell’universo, bene farà costui a cimentarsi in quel senso, anche perché, se non lo facesse, l’indice di autostima andrebbe a farsi una bella vacanza senza garanzia di rientro a breve.

Pensa questa: se un bimbo ti chiede a bruciapelo “Cos’è un dito?” immagino che sapresti facilmente trovare una risposta valida; ma se la stessa richiesta ti venisse posta da un anatomo-patologo, o da un chimico, o da un esperto in particelle nucleari, oppure da un filosofo scettico-sincrasista, credi di cavartela cosí a buon mercato?

Per lo piú arriverai alle molecole, agli atomi di Democrito, o alla protehyle di Aristotele, mettiamoci pure le monadi di Leibniz, ma, detto tra noi, sarebbe un tornare indietro di secoli e ammettere implicitamente che questi ultimi sono trascorsi invano.

Capisco: tutto ciò di cui sappiamo della materia è che di fronte alle nostre analisi essa si fa sempre piú piccola, sempre piú impercettibile, fino ad arrivare al momento in cui anche lo scienziato piú brillante, il cosiddetto luminare, allarga le braccia e, se onesto, ammette: “Da questo punto in poi ci sono solo fotoni, quanti di luce; è probabile che dietro ad essi esista un’energia ancora sconosciuta”.

Non prendertela; non è colpa tua.

Ma se nella domanda anziché il dito fosse stata posta una goccia d’acqua, un pezzo di marmo o una mela, l’approfondimento non ci avrebbe forse condotti comunque alla medesima prospettiva?

In situazioni come questa, cosa meglio può fare un pensatore se non ipotizzare che quella benedetta energia primaria celi in sé il segreto stesso del pensiero?

Se non lo fa, se non se lo pone neppure per ipotesi, non gli resta altro che trovare una causa per l’incredibile disegno della natura e del suo divenire, e un’altra, totalmente diversa, per la fonte dei pensieri partoriti dai cervelli umani, incluso il suo. Invece di un problema irrisolto, si ritroverebbe ora di fronte a due, entrambi da risolvere; e non ci guadagnerebbe nulla.

Sostenere che tra il fisico e il metafisico vi siano delle zone di indipendenza entro le quali ciascun ente si fa gli affari suoi è un’idea piuttosto balzana. Eppure per quanto balzana, folle e sgangherata possa essere, questa è invece l’idea che, sia pure alla chetichella, in modo latente e inosservato, si è diffusa nel mondo e nell’umanità. A scuola abbiamo appreso che il panta rei di Eraclito si traduce in “Tutto scorre”, e ne abbiamo ricavato un dato senso. Ma una traduzione maggiormente accorta e prossima al pensiero del filosofo efesino, sa che il valore di quella frase sta in “ Tutto è in un continuo divenire”. Cosí, forse, l’approccio risulta diverso.

DeforestazioneLo storico successo del “Tutto scorre” è dovuto soprattutto alla tentazione mirante a far cadere la responsabilità del singolo; accogliere nella propria confusione, divenuta cara quanto il focolare domestico, l’assioma di non essere piú responsabile di quel che accade nel mondo, né lontano né vicino, è proprio ciò su cui contano i destabilizzatori dell’uo­mo e della civiltà, siano essi stragisti, giustiziomani o bischeristi d’altro genere.

Fintanto che il vento del destino si diverte a svellere gli usci altrui, i sostenitori del “Tutto scorre” si sentono al sicuro; accettando il “Tutto è in divenire” tale sicurezza mostra la corda, scopre un’insospettata labilità.

Al singolo, infatti, risulta difficile comprendere l’efferatezza dell’abbattimento di foreste avvenuto dall’altra parte del globo, mentre invece la sua attenzione si desta subito in allarmi quando si accorge che nel proprio condominio qualcuno ha predisposto un laboratorio d’esplosivi.

Tutto questo per dire che il pensare, ovvero la facoltà umana pensante, non si può liquidare sbrigativamente per il semplice fatto che c’è e ci è stata data; tante grazie e buonanotte ai suonatori.

Noi tutti siamo certi che Michelangelo conoscesse i segreti del marmo e della pietra, che Raffaello avesse notevoli ragguagli sul colore e che Arturo Benedetti Michelangeli ne sapesse qualcosa di pianoforti. Ma allora, potremmo veramente rimanere sereni in un’epoca in cui gli scienziati, capaci di creare sonde spaziali, di progettare viaggi planetari, nonché ordigni tali da sconquassare il pianeta, continuino a sapere poco o niente della facoltà principale, invero essenziale, cui debbono costantemente ricorrere per teorizzare, pianificare e costruire?

Potrai startene tranquillo a tinteggiare le pareti domestiche quando i capi plenipotenziari dei vari governi adottano decisioni politiche talmente folli e perverse da far scoppiare bombardamenti, sommosse e tumulti non a mille di chilometri di lontananza, ma sotto casa, nelle piazze e per le vie della tua città? Abbiamo contribuito a favorire, ad assecondare il loro grado di incoscienza, nel quale tuttavia si rispecchia il nostro? O ci siamo opposti prendendo una netta ed esplicita posizione in merito?

Cos’è mai l’incoscienza se non l’inettitudine? Una grandissima, terribile inettitudine a comprendere il senso ultimo di quello strumento che abbiamo chiamato pensiero e che continuiamo ad usare solo per soddisfare gli squallidi capricci dei nostri piccoli ego, tanto altezzosi quanto acerbi?

Amico caro, se non esistesse un’intelligenza cosmica, nel cui volere si esplica la direzione evolutiva d’ogni creatura esistente, allora un seme di patata artificiale, costruito in laboratorio, opportunamente gestito e coltivato, dovrebbe prima o poi generare una patata vera. Molti dei miscredenti, atei, laici, agnostici, materialisti e possibilisti, si darebbero un gran da fare per diventare coltivatori di patate. Il che non sarebbe un male, anzi.

Trovandoci di fronte all’immensamente piccolo e all’infinitamente grande, non occorre forzare il pensiero per afferrare l’idea che noi uomini ci siamo rapportati al centro di un sistema (i modelli base valgono anche per chi non li vuole) dal quale facciamo partire le nostre indagini verso tutte le direzioni possibili.

Ce lo possiamo permettere per il fatto che abbiamo costruito un riferimento; anzi, ci siamo costruiti milioni di riferimenti; questo è un bene prezioso per misurare, confrontarci e relazionarci, ma entro i limiti del sistema. Bimbo solo all'ErmitageAppena il nostro pensiero, resosi astratto, fugge per la tangente penetrando il micro o il macro, ovvero varcando i limiti del sistema, tutte le nostre unità di misura misteriosamente decadono. Le coordinate, prima utilissime a recuperare i dispersi e a fare il punto della situazione, ora non recuperano piú nulla, nel senso che la nuova situazione, ammettendo prospettive diverse, orizzonti alternativi e dimensionalità multistrato, ci vede impauriti e smarriti come un bimbo sfuggito alla sorveglianza dei genitori e che cercandoli si aggiri per i saloni del­l’Ermitage.

Le nostre leggi fisiche si frantumano; quelle nuove chiamano prepotentemente in causa l’integrità interiore delle coscienze indaganti, le quali avrebbero dovuto vigilare diversamente. Ma questo lo si capisce sempre dopo. E in molti casi, il ‘dopo’ vuol dire tardi.

Dobbiamo meravigliarcene?

Tu sostieni che il pensiero astratto sia l’anticamera delle grandi scoperte scientifiche e grazie ad esso sarà possibile raggiungere mete oggi incredibilmente lontane; non lo voglio negare perché c’è del vero in questo.

Mi sembra che dovremmo però osservare un po’ piú da vicino questo pensiero astratto; cosí, come sta, non convince molto. È una proiezione del razionale, del cerebrale; un pensiero che per farsi bello è andato a scuola di body-building, nelle beauty-farm, si è scolato tutti gli steroidi e anabolizzanti proposti dai maghi del fai-da-te, e in buona, anzi, in cattiva sostanza, oggi scende in pista e pretende gareggiare convintissimo del suo perfetto stato di salute.

Se ti aggrada una simile valenza non sarò io a contestarla. Credo tuttavia che, come spesso accade, tu mantenga questa convinzione solo perché non hai trovato niente di meglio che la possa integrare, se non sostituire.

Che diresti nel sentirmi esclamare ad un certo momento del mio percorso biografico: “Cosa c’entro io con la vita? Cosa c’entro io con la morte? Chi dice che devo evolvermi?”.

Conosco il tuo commento: “Veniamo dalla materia, torniamo alla materia. Non c’è nulla da eccepire né da protestare. Non puoi farci nulla. Quanto all’evoluzione ognuno fa quel che vuole quando ne ha voglia e quando può. Mi pare di non aver altro da aggiungere”.

Invece no, ti sbagli; avresti dovuto aggiungere anche la resurrezione, dal momento che hai sempre apertamente dichiarato fin dall’inizio che con essa tu non avevi nulla a che fare. Te la sei forse dimenticata? Guarda che è una dimenticanza sospetta, direi quasi freudiana, se non fosse per fatto che, in questo specifico caso, il buon Freud risulta nell’elenco dei sospettabili.

Chi, per problemi suoi, non se la sente di scrutare la vita dell’anima, può almeno darsi da fare e seguire il corso del pensiero. Quanti tipi di pensiero sarà in grado di distinguere? Razionale, logico, ordinario, elementare, frivolo, pellegrino, massimalista, volatile, nebulista e infiniti altri, numerosi quanto gli aggettivi che li qualificano.

Ma c’è tuttavia, amico caro, un pensiero attribuibile pure alla coscienza; e qui ci sarebbe da aggiustare tra noi un’incongruenza piuttosto ingombrante: se non c’è prima un’anima, come fa ad esserci una coscienza?

Perché tu non neghi l’esistere di una coscienza, vero? Accusi molte volte Tizio, Caio, il governo e i caporioni della cosa pubblica, d’incoscienza; anzi, se non erro, hai voluto definirla: “incoscienza di primo grado con fronde di quercia e spade”! Segno che sai che una coscienza c’è, anche se latitante.

E come chiamare quindi il pensare della coscienza se non pensiero cosciente? La differenza sostanziale tra questo pensiero cosciente e gli altri citati prima, sta tutta nel fatto che la coscienza ha impresso nel contenuto del pensiero un suo marchio di fabbrica, sempre ri­conoscibile, anche a posteriori e pure in situazioni ben diverse da quella in cui è sorto.

Un pensare cosciente oggi è aborrito al pari di una malattia infettiva ad alto rischio; lo si stronca sul nascere col tipico antibiotico dell’epoca: spregiandolo per moralismo, non di rado rafforzato col qualificativo di becero.

Non che sia sbagliato: i moralismi, e le reazioni dell’apparato sentimentale in genere, non sono l’ideale per accostarsi alla coscienza. Al momento giusto pizzicano, danno una scossa, un brividino che non realizza, ma turba; il processo innestato si blocca e non riesce a completare il decorso.

pupazzo pensatoreIl pensiero invece presenta un suo carattere ove il diavolo non può piú che tanto; la coscienza afferma forme di pensiero e di verità che non si accettano supinamente. Le tinteggiature psicologiche e le sinfonie corali che si accompagnano sono solo pretesti per scappare via e non prendere atto di un qualcosa che dal fondo di noi stessi è scattato d’improvviso, come il pupazzo a molla dalla scatola magica.

Non capita soltanto all’uomo del nostro tempo, Caino ne sapeva qualcosa.

Come sta il pensiero cosciente con quello astratto? Hanno un rapporto, almeno di buon vicinato, di cordiale contiguità, o fingono d’ignorarsi?

Il problema pesa non poco sui nostri equilibri interiori e di conseguenza anche su quelli con i quali ci relazioniamo al resto del mondo.

Il pensiero è cosciente quando sa di dover morire per offrire al pensiero astratto il senso profondo della sua morte. Tale morte, accusata come perdita irreparabile, dovrà venir gestita senza risparmi e cesure; necessita di tutto il tempo di cui avrà bisogno. Solo dopo un tale superamento, il pensiero astratto e razionale che ne uscirà si ritroverà risorto, ma a un livello prima mai pensato o supposto; o forse anche sí, ma non certo realizzato quale esperienza vissuta.

Sembrerà strano, sembrerà assurdo, ma è cosí; ci sta tutto.

Nel suo presentarsi spontaneamente alla morte, nel bussare fermamente alla sua porta, il pensiero cosciente sa di iniziare il mondo (e con esso l’anima umana intera) ad un principio paradigmatico che non si arresterà mai. Accada quel che accada, rimarrà avvolto nel mistero del suo segreto e tale resterà nel tempo fintanto che il pensiero astratto non sarà pronto a capire d’essere lui stesso il portatore d’eternità, e che la propria fine, fino ad allora paventata e sfuggita in tutte le maniere, comprese le piú subdole e meschine, altro significato non portava se non quello di passare coscientemente al successivo stadio d’evoluzione.

La morte del pensiero ordinario e la crocifissione dell’ego sono simultanee.

Ma dire, ovvero scrivere, alla “grillo parlante”, come sto facendo, intorbida le acque. Meglio portare un esempio: un esempio modesto, ingenuo, magari fiabesco, ma che la dica lunga e la dica bene, a chi voglia cimentarsi nel lavorío interiore. D’altra parte, siamo qui per questo.

 

UnicornoC’era una volta un mitico territorio, campestre e tranquillo, dove vivevano in pace molte caprette. Un giorno una di queste, mentre era intenta a brucare qua e là, vide arrivare un unicorno, bianco abbagliante, alto e maestoso. La capretta non aveva mai visto niente di piú bello, nobile ed elegante; ne rimase affascinata ma anche intimorita. Cercando di darsi un minimo di contegno, nel rispetto delle regole della buona educazione, lo salutò con un tremulo: “Salve, come va?”.

L’unicorno non rispose, sembrò disinteres­sarsi della capra, sembrò addirittura non vederla. Si scostò, andandosene per i fatti suoi.

La capretta se la prese piuttosto a male. Nei giorni successivi, pur scorgendolo in lontananza, si guardò bene dall’avvicinarsi: “Lui sarà pure alto, bello, slanciato, mentre io sono piccola, sgraziata, con le gambe storte e la barbetta; ma non si fa cosí. Villano maleducato d’un unicorno! Non gli rivolgerò mai piú la parola”.

Cosí fu; continuarono a ignorarsi a vicenda per molto tempo. Ma un giorno accadde una cosa grave. Feroce leoneS’era sparsa la voce tra le caprette di un leone gigantesco e terribile, che le sbranava ed aveva oramai invaso il territorio.

La capretta non ebbe molto tempo per elaborare la notizia: all’improvviso se lo trovò dinanzi, feroce e spaventoso; a quella vista si paralizzò di terrore.

Era già convinta d’essere arrivata al momento supremo, quando di colpo, con la furia di una valanga bianca, vide l’unicorno arrivare ventre a terra, attaccare il leone e ingaggiare con lui una battaglia furibonda, una lotta all’ultimo sangue.

Il leone fu vinto, ma ad un prezzo altissimo: ora l’unicorno giaceva a terra, in fin di vita grondante di ferite.

Ancora sconvolta, la capretta gli si avvicinò. Voleva fare qualcosa, ringraziarlo, spiegargli dell’equivoco in cui era caduta, scusarsi, dare un po’ di conforto al suo salvatore. Voleva piangere, disperarsi, manifestargli tutto quello che aveva rinchiuso in sé, nel suo piccolo stupido orgoglio capresco. Ma non ne ebbe il tempo.

Con l’ultimo fiato, levando a fatica la superba testa dalla polvere, l’unicorno le parlò: “Ascolta ‒ le disse ‒ devi andare via. Tu e le tue compagne dovete andarvene: verranno altre belve e io non potrò piú difendervi. Scappate sulle montagne, sui dirupi piú scoscesi, là i leoni non potranno raggiungervi. Và adesso, avverti tutte. Non hai un minuto da perdere”.

Morí cosí, dopo queste parole.

Passarono gli anni, la capra era sopravissuta assieme ad altre sulle montagne, divenute ora il loro nuovo territorio. Ma quando si volgeva alla valle e scrutava nel passato, era ben conscia che un solo ricordo prevaleva su tutti: era piú di un ricordo, era una consapevolezza scritta a caratteri di fuoco dentro di lei: laggiú, qualcosa di splendido e di nobile si era immolato, si era offerto di morire affinché lei, goffa, tonta e permalosa, potesse continuare a vivere.

Questa consapevolezza era uno strazio continuo nel cuore. Ma lei, capra, sapeva oramai che avrebbe dovuto imparare a gestire questa sofferenza, a convivere con essa, perché se non l’avesse fatto, avrebbe reso vano il sacrificio di colui che l’aveva salvata.

E questo sarebbe stato troppo, perfino per una capra!

 

Bene, il raccontino finisce qui e non chiedo a nessuno di farne l’esegesi. Ma ventilare l’idea che si possa porre il pensare comune, ossia quello ordinario, razionale ed astratto, che poi è il pensiero dell’uomo moderno, in una particolare relazione con il pensare cosciente, potrebbe aiutare a intravedere il giusto rapporto in terminis.

So che potrai ulteriormente obiettare: “Non ho ancora capito cosa c’entri il pensiero ordinario con quello che tu chiami cosciente. E che c’entra tutto questo con la mia resurrezione?”.

Ma a questo punto la risposta potrebbe forse scattare dalla tua stessa interiorità: “C’entra tanto quanto la capra con l’unicorno”.

Significherebbe che, bene o male, hai iniziato ad arrampicarti.

L’altro tuo Amico».

 Angelo Lombroni