La domanda è antica ma ultimamente capita udirla risuonare da molte parti; nelle case, nelle strade, al bar prendendo un caffè, o negli autobus affollati, tra giornalieri, pendolari, turisti e bagnanti di questa strana estate piú funesta che bisesta. Emerge dai discorsi della gente comune e da quelli di provveduti opinionisti appostati ovunque vi siano opinioni da opinare. Secondo vox populi, dovrebbe contenere qualcosa di vero. Ma cosa? È il momento buono per pensarci.
Nessuno dice Nazaret in chiaro, eppure è facile comprendere che il nome, anche se sottaciuto, non indica soltanto la minuscola località ricordata in apposite circostanze: Nazaret è un mondo, un universo parallelo, tuttavia contiguo al nostro; tanto contiguo da sforare il punto di tangenza, e attraverso il varco irrompere dilagando nella dimensione adiacente, in cui ci troviamo noi.
Nella domanda di Natanaele (Giovanni I-46) è racchiusa l’amarezza dell’uomo maturato, colto nel momento del giudizio ortodosso; anzi, un giudizio ritorto in sé nello smarrimento di un luogo comune, che magari in altri momenti non si sarebbe concesso. Cosa può venire di buono dalla Galilea? Niente; cosí è stato e cosí sarà ‒ continua a pensare Natanaele – uomo pur verace e aperto alle Scritture quel tanto che ancora non basta all’incontro con l’Uomo Nuovo.
Le cose invece si svolgeranno diversamente, anzi, molto diversamente da ogni supponibile qualunquismo. Nel tempo corrente, in cui la figura di Natanaele, con il suo disincantevole commento, potrebbe assurgere a paradigma di modello iniziatico rispetto al livello medio, noi riceviamo gli echi, piú o meno confusi e storpiati, da luoghi i cui nomi si erano smarriti nei labirinti di un approssimativo quadro geopolitico; sfogliare i depliant di vacanze e crociere o misurare i rendimenti dei nostri risparmi astutamente allocati, in tali siti, è parte consolidata dei passatempi collettivi generazionali.
Ci siamo abituati alle etichette di prestigio, le abbiamo semidivinizzate: i Caraibi, Acapulco, le Antille, Galapagos e Saint Tropez cullano i nostri sogni di fuga dall’impegno quotidiano. Altri con nomi ancora piú misteriosi ed esotici, del tipo: FTA, DAX, Dow Jones, Nasdaq, S&P, DJ Shanghai, trastullano le nostre speranze di incremento pecuniario.
È quindi con un certo imbarazzo che adesso apprendiamo notizie provenire da luoghi desueti, come Mogadiscio, Mozambico, Sudan, Darfur, Angola e dai restanti focolai che qualcuno (di noi) ha acceso (o lasciato accendere) disseminati ovunque nel globo sotto l’efficace protettorato dei ‘Quattro Cavalieri’.
Pertanto è inutile star lí a chiedersi quale sia la Nazaret di cui si parla o di cui non si vuol parlare; un posto nel mondo è un luogo della terra, da dove, in certe circostanze e con determinate premesse, giunge il grido d’aiuto di genti sconosciute; un luogo della terra come lo sono le spiagge della Libia, della Somalia o le zone piú tormentate del Medio e dell’Estremo Oriente, dalle quali profughi e fuggitivi arrivano a frotte, sbandierando davanti al nostro sguardo accigliato il loro diritto a sopravvivere.
Ci chiediamo inquieti se non agitati: «Cosa ci può venire di buono da questi posti?».
Ma noi non siamo ‘natanaeli’; siamo preparati all’Incontro peggio di quanto lo fu lui in quei tempi non sospetti. Anche se, volendo dirlo in franchezza, di tempo per una eventuale preparazione ne abbiamo avuto parecchio di piú.
Per sopperire a tale mancanza, abbiamo avuto invece modo di incontrare il pensiero di uomini contemporanei, professionisti della devozione, araldi della fede, autentiche guide confessionali; li abbiamo sentiti manifestare ad alta voce – proprio nei giorni seguenti la devastazione del terremoto nell’Italia centrale – frasi che fanno trasecolare per la raggelante vuotaggine interiore. L’hanno fatto in sedi ufficiali nella convinzione di portare conforto alle anime dei superstiti afflitti dal dolore: «Signore! Spiegaci la tua incomprensibilità!», «Mio Dio, era davvero necessario tutto questo?» e ancora «Signore Iddio, ora che faremo?».
La battuta del buon Natanaele diviene pertanto scusabilissima se messa a confronto con quel che
alcuni ministri del culto hanno pensato e proferito
pubblicamente duemila anni dopo.
Dicono che l’errore sia proprio all’umano, ma che per i disastri necessiti il computer. Infatti siamo giunti nell’era dei computer e i disastri che saltano fuori rivelano ampiamente lo scollamento tra il nostro ordinario modo di pensare e l’iper-reattività emotiva, tanto immediata quanto volatile, del sistema nervoso ridotto alla friabilità dei wafer.
L’elemento sacro del percorso del Vangelo di Giovanni non viene tuttavia turbato in alcuna misura dal moto d’ironia, poco cortese ma bonario, di Natanaele. Le frasi riportate e diffuse oggigiorno, invece, non solo disturbano per mancanza assoluta di cortesia e bonarietà, ma sconvolgono letteralmente quel minimo di autoedificazione d’anima che ciascun uomo, messo alle strette, sa trarre (rari, preziosi momenti) dal profondo di sé.
Chi conosce l’Antroposofia, e si sia anche per poco addentrato nel pensiero di Rudolf Steiner, riconosce in quelle frasi la bestemmia contro lo Spirito, pronunciata da esseri nella cui anima la corruzione ha prodotto devastanti, forse irreversibili, effetti. Nostro compito, nostro impegno dovrebbe essere il tentativo di porre rimedio, di drizzare le storture, di rendere concretamente edificante e positivo il momento presente e quelli che verranno dopo, datosi che ogni momento attuato non è soltanto contestualità isolata ma reclama imperiosamente la presenza di una coscienza umana, salda, centrata nel pieno della sua forza, non nascosta nel groviglio dell’afflizione sforzata, ridotta a segnalibro come un fiore rinsecchito per chissà piú quale ricordo.
Cosa può venire di buono da Nazaret? Niente, e lo si può affermare ad alta voce, perché tutto il bene dell’universo è già venuto da Nazaret, e noi, o chi per noi, ne ha fatto quel che ha fatto. E non è neppure possibile classificare tale accadimento come negativo per la semplice constatazione che quel Bene ci è stato dato effettivamente, anche se la Sua portata fu per davvero al di fuori delle normali capacità di percezione. Se lo fu allora, di certo non si è migliorata nel tempo.
Arrivano dunque gli emigrati, arrivano i terremoti, arrivano gli sconvolgimenti di questo nostro vecchio mondo, e con esso dello status quo che ci portiamo dietro da secoli. Forse è l’unico modo mediante il quale qualcuno, particolarmente toccato nel punto giusto, o nel momento giusto (ma in fondo sono la stessa cosa, perché nei casi speciali spazio e tempo coincidono) comincerà a vedere con occhi nuovi avvenimenti, ribaltamenti e sconquassi vari, terrificanti forse, ma certamente vecchi. Dalle macerie ancora fumanti e dal dolore delle vittime, fino all’ultimo ignare del compito cui sono state chiamate, usciranno inevitabili le prove delle nostre meschinità, delle nostre bassezze, delle nostre velleità di opportunismo esasperato, accuratamente riposte dietro le maschere convenzionali della recitazione sociale, civile e religiosa.
Attraverso l’accoglimento, forzoso, imbarazzato, discorsivamente dibattibile all’infinito, della moltitudine di profughi, esuli e rifugiandi, uscirà allo scoperto ancora una volta la nostra incapacità di amare, la nostra predisposizione a detestare, il nostro egoismo di fondo che non vuol sentire ragioni, che non vuol concedere tolleranza, che da troppo tempo non sa piú cosa sia la carità, se non dove essa richieda poche paroline cordiali, una pacca sulla spalla o qualche spicciolo.
Eppure ci fu un’epoca in cui il nostro paese divenne il campo prediletto delle invasioni barbariche, invasioni tutt’altro che incruente: ad ogni nuova ondata, carneficine, saccheggi, razzie e devastazioni segnavano il passo di stranieri che parlavano altri idiomi e non vedevano in noi che dei poveracci incapaci di tener loro testa. Durò per secoli, ma nessuno sporse lamentele a Bruxelles, nessuno ricorse alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo.
Se oggi il sommovimento etnico degli arrivi e degli sbarchi lungo le nostre coste segna l’inizio di un ribaltone nel quadro geopolitico continentale, null’altro avendo, potremmo formulare almeno un pensiero di ringraziamento verso il destino (chiamiamolo cosí) che ci sta procurando una sorta di nuove invasioni barbariche senza l’eccesso di sangue e altre atrocità che non vennero risparmiate ai nostri avi tra il V il XIII secolo.
È una constatazione veramente da poco, e serve ancor meno, lo so; ma possederla e lavorarci sopra significherebbe almeno un iniziale capovolgimento del corso dei pensieri funesti, ora in grado di trasformare una ridda disordinata e volgare di sensazioni fobiche in una visuale piú distensiva e allargata.
Tuttavia è comprensibile che ci vuole ben altro. Un’alterazione aggravatasi al punto di sfociare in malattia non può essere curata mediante terapie compiacenti o metodi di ripiego. Bisogna risalire al quid originario, e se non lo fa l’ammalato (la malattia consiste appunto nel perdere la consapevolezza della possibilità di farlo) interviene l’Io superiore attraverso le vie del karma.
Per quanto seguirà, passo a parlare in prima persona trattandosi di problematiche che pur coinvolgendo interamente l’umanità, devono essere affrontate singolarmente. L’esperienza personale non può venir spacciata per elisir di lunga vita, ma per lo meno chi vuole potrà valutare le sue vittorie e sconfitte su un paradigma a lui estraneo e, forse per questo, stimolarsi quanto basta per un richiamo decisionale. Ho sempre avuto grosse difficoltà a legare insieme i concetti di karma (come tutti, lo chiamavo destino), necessità e libertà. Avvertivo oscuramente che un legame c’era, ma non abituato a speculazioni filosofiche che andassero al di là del semplice ipse dixit, segnavo il passo e con me pure la mia problematica invecchiava irrisolta.
Poi venne Scaligero (La Logica contro l’uomo), poi Steiner (Filosofia della Libertà) e poi di nuovo Scaligero (Magia sacra, Meditazione e Miracolo, La Via della Volontà Solare). Mi limito a citare le fonti salienti del mio cammino, secondo ordine cronologico. Queste letture, o meglio queste applicazioni di pensiero, tra tutte le vicissitudini di vita, lavoro e famiglia, mi tennero occupato per quasi quarant’anni, e oggi ancora, se riprendo in mano quelle antiche letture, non manco di sorprendermi per l’approccio nuovo che colgo nelle medesime e che queste mi concedono ulteriormente di cogliere.
L’uomo vuole la libertà, anela ad essa con tutte le sue forze, perciò di conseguenza tenta di liberarsi quanto prima dalla necessità, o da tutto quello che egli, al momento, scambia per necessità: una serie di ostacoli che intralciano il cammino verso la “sua” personale concezione di libertà.
Non potevo essere piú ingenuo; al ricordo, mi sorrido con tenerezza, senza indugiare in pietismo. Incontrare la necessità per via dell’esperienza sensibile del mondo, e non accorgersi che è impossibile incontrarla se non per via di quel pensiero che possa, sappia e voglia incontrare, è veramente la follia, o la demenza che in me ha tardato il processo evolutivo di un tempo pari a quello dell’attesa.
Ma doveva andarmi cosí, non sono qui a lamentarmene. Mi ritengo fortunato d’aver incontrato i Maestri perfettamente validi per il sottoscritto e allo stesso tempo sfortunato per non aver avuto il coraggio di riconoscerli come tali con la prontezza che oggi mi sarebbe piaciuto avere allora.
Come tutti i miei simili, mi rapporto al mondo mediante pensare, sentire e volere; ovvero mediante Spirito, anima e corpo. Fin qui tutto appare chiaro e semplice. Il problema invece sorge dalla proporzione di questo dosaggio interiore, che spesso è tutta (per non dire solo) anima, oppure è pura cerebralità astratta, o in alternativa è corrente di scontri e tensioni tra le tre forze, e invece di armonizzare, squilibra, vanificandolo, l’apprendimento della realtà.
In questo gioco di dinamismi endogeni, dei quali ho contezza soltanto quando provocano manifestazioni sensibili, tipo nevralgie, mal di pancia, astenie e altre forme di alterazioni somatiche (in pratica scariche di disarmonie neurovegetative), il pensare è sempre l’illustre escluso.
Non che sparisca completamente (anche se mi son dato parecchio da fare in tal senso), ma viene trascurato, al punto che di esso accolgo esclusivamente l’impiego che ogni volta devo puntualmente attuare nel tentativo di capire cosa mi stia succedendo, a livello fisico e a livello psichico.
Usato soltanto in tali opportunità (ce ne sono a centinaia, notte e giorno, e pian pianino hanno cercato di trasformare il mio soggiorno terreno in una costellazione di smanie morbose, recitazioni, autoinganni e trappole varie), il pensare, anziché rinforzarsi, si adatta alla situazione, in sostanza rinunciando a se stesso.
L’anima diventa una pianta alla quale si tolgono lentamente l’acqua, la luce e l’aria, e finisco sul lettino di un qualche raccomandato terapeuta, rivelandogli di sentirmi male di qua, male di là, di avere questo e quest’altro sintomo, e in sostanza, d’essere depresso e tutt’altro che felice. Tutto ciò normalmente è racchiuso nella formula classica “mi sento incompreso” e “non vengo amato quanto io mi sentirei capace di amare”.
Quando poi terapeuti e sedicenti pastori d’anime non trovano nulla di meglio nella tesoriera della propria sapienza, che levare la voce al cielo implorando, non di rado per conto terzi: «Signore Iddio! Perché ci hai fatto questo e quest’altro? Che faremo ora noi?», allora poco ci manca (credo che non ci manchi nulla, ma per beneficio d’inventario, uso il limitativo “poco”) che si erigano presto nuovi totem e si scelgano tra le popolazioni meno abbienti un certo numero di vittime sacrificali da destinare a qualche mostruoso New Moloch.
Il pensare, conosciuto poco e male, e usato peggio, non può che concedere all’uomo quella libertà che egli è in grado d’intendere al suo livello; la quale, pur attraverso le peripezie di mille ingannevoli soluzioni e centomila speranze di recupero altrettanto fittizie, comporta il fallimento della missione umana, nel mondo come nell’universo. Ma poiché il senso che io voglio attribuire al mio personale esistere è tutto rivolto nella direzione opposta, mi pare giusto e doveroso illustrare, con le parole che sono in grado di esprimere, s’intende, almeno il punto critico in cui poter conquistare un iniziale affrancamento dalla soggezione all’elemento fisico sensibile.
Se corpo e anima mi presentano una realtà ingannevole, o almeno parziale e quindi imperfetta, perché dovrei inchinarmi ad essa ed eseguire da scimmia ammaestrata tutti i riti e le liturgie esistenzialistiche del tempo? Pianto e riso compresi? Già questa esperienza dei sensi e dei sentimenti sarebbe nulla se non ci fosse un rimasuglio di pensiero a farmi distinguere un risotto alla milanese dalle penne all’arrabbiata, o una stizza d’invidia da una delusione d’amore. Quindi mi accorgo, che solo se penso, distinguo, e forse capisco. E posso proseguire, che solo se rafforzo il mio pensare, distinguerò meglio e, forse, capirò qualche cosina in piú. Se una farfalla batte le ali a Tokio, a New York nevica. Cosa significa? Cosa può venirmi di buono da Tokio o da New York? Apparentemente niente.
Ma il pensiero umano mi racconta di una teoria, chiamata Teoria del Caos: tra i due fatti, inizialmente slegati da ogni ragionevole rapporto, si può costruire – nel senso astratto della parola – una lunga, lunghissima concatenazione di pensieri, tutti ben allacciati l’un l’altro e , di per sé validi secondo logica vigente, tale che alla fine emerge chiaro e limpido il rapporto che prima non si vedeva.
Detta cosí sembrerebbe una cosa non eccessivamente scaltra; ma si può fare una verifica e vedere se la teoria funziona in altri casi. Prendiamo due numeri: il 56.902.605 ed il 7197,395016. Chiediamoci: c’è un rapporto tra questi numeri? E quale? Naturalmente bisogna lavorarci sopra; prima o dopo si scoprirà che il secondo è il quoziente del primo ove venga diviso per il numero 7.906.
Se tuttavia di questa triade si conoscesse solo due dei numeri dati, ritrovare una precisa relazione tra essi fra le tante possibili, sarebbe altrettanto difficile quanto trovare un legame logico tra la farfalla di Tokio e la nevicata newyorkese.
Qual è l’elemento intervenuto per risolvere il problemino? La conoscenza delle operazioni di matematica, che, se non vado errato, fin dal VI secolo a.C. era una riconosciuta attitudine del pensiero umano; attitudine – e questo è l’importante ‒ esercitabile e affinabile a piacere, senza limite alcuno. O quanto meno senza quei limiti che invece sono posti a freno delle altre facoltà umane, fisiche e psichiche.
Acquisire la consapevolezza che al mio pensare non si contrappone alcuna forma di restrizione ma che, anzi, la sua specifica prerogativa è quella di restare libero in qualsiasi altra forza esso possa immergersi, e che sia in grado di ravvisare in questa forza, o campo, una ulteriore variante di se stesso, segna un momento in cui l’anima si affaccia all’eternità e la riconosce per sua dimensione.
Riassumo per non perdere il filo conduttore:
►Prima cosa: o colgo una realtà compiuta grazie al mio pensare, il piú possibile libero dall’influenza sensibile, oppure, in caso contrario, dovrò dare valore di realtà a quel mondo instabile, monco e incomprensibile che la mia organizzazione psicofisica, avvalendosi di un pensare sottosviluppato, mi proietta davanti. Questo reale Io l’assumerò per oro colato; non c’è niente da fare, e tale impostazione cozzerà di continuo contro la vita, rendendola un mistero sempre piú intricato e inspiegabile; diverrà l’insieme di vicissitudini umane dalle quali ho voluto ‒ per insufficienza di pensiero ‒ escludere a priori la presenza di una divinità amorevole e intelligente; oppure dovrò dipingermela come un dio malvagio e prevaricatore, il quale, per suo oscuro disegno, mi ha concesso di vivere, per poi divertirsi ad affliggermi mediante dolore, malattia e obbligo di morte.
►Seconda cosa: dato per vero quanto sopra, conseguentemente non c’è alcuna cosa del mondo esteriore o interiore di cui aver paura, o di cui lamentarmi fino alla disperazione, giacché tutto accade sempre e solo per suscitare in me la scintilla di ribellione all’incancrenita acquiescenza alle categorie sensibili-emotive.
►Terza cosa (e non mi pare poco): per quanto sopra, m’accorgo d’essere stato malato fin dalla mia venuta al mondo e che l’esistenza stessa altro non è che un lungo processo di guarigione, presentando essa tutti quei dispositivi karmici atti a destare la volontà, la forza e l’impegno, volti al ripristino di uno stato di salute originario perduto; quello medesimo che ha accompagnato il mio Spirito ancora non incarnato nell’avventura terrestre, e che al primo vagito, si è ritirato affidandomi il compito di ritrovare ora lo Spirito della mia individualità nella caduta dentro il terrestre; il tutto attraverso un cercato e consapevolizzato processo di disintossicazione del pensiero.
Ho dei contatti con insegnanti e docenti sia di scienze che di filosofia; una è stata addirittura la mia insegnante di matematica ai tempi eroici del liceo. Tutti costoro, per quanto diverse siano le loro formazioni e le loro specifiche peculiarità sfociate in scelte di vita ben differenziate, concordano con il sottoscritto sul fatidico tema “La realtà non è quella che appare”. Ci sono mille risvolti filosofici al riguardo cosí come vi sono altrettante, se non piú, teorie scientifiche che ribaltano ogni assioma precostituito. La piú semplice e antica fra tutte è che il punto, come da definizione, non può esistere nella realtà sensibile in quanto ente privo di dimensioni. Ma se al posto del punto subentrasse l’atomo, la cosa non muterebbe aspetto.
Quindi a tutti costoro, io provo a dire: «Visto che la pensi cosí, perché non accettare la teoria delle ripetute vite terrene? Molte cose oggi incredibili, o rimaste senza una plausibile spiegazione, tornerebbero logiche e permetterebbero la costruzione di ulteriori ragionamenti». Vedo i loro volti impensierirsi alquanto, tentennare e poi sorridermi educatamente scuotendo le teste canute. «No, no, mio caro, sarebbe troppo. Possiamo tentare di immaginare realtà a piú dimensioni, o universi paralleli, e anche una futura possibilità di viaggiare nel tempo, ma la reincarnazione, no, è roba orientale, non è pane per cristiani. Ci dispiace, ma non ci è possibile prenderla in considerazione».
E pensare che è stato grazie al loro insegnamento se un tempo accolsi la Teoria del Caos come uno dei miei punti di forza per un risveglio interiore!
Metti una metà dei significati possibili dell’umano esistere, sul piatto della bilancia in cui c’è scritto “senza reincarnazioni”, metti l’altra metà sul secondo piatto avente la dicitura “con reincarnazioni”, e vedi tu quale sarà la pesata preponderante. Questo, solo per restare nel mondo del peso e della misura, senza scomodare la metafisica. Eppure non sufficit! Perché? Avvalendomi dell’esperienza trascorsa credo sapermi rispondere: perché la malattia (o il sogno di vita, o l’illusione d’essere nella miglior vitalità) protratta nel tempo, si cronicizza, e diventa un’ipocondria rovesciata. Ci si aggrappa al senso sbagliato della vita credendo sia quello sano e non si vuol piú intendere che quella che tu credi vita è soltanto una forma di alterazione egoica priva di ogni consistenza oggettiva. Ma comunque capace di condurti alla morte senza averti lasciato capire niente, proprio niente, del perché tu sia esistito. Se scambio l’essere con l’esistere, se confondo l’eterno col caduco, se pareggio il sacro col profano, non avrò capito nulla neppure della morte, che è un passaggio ad un’altra forma di vita. Di essa potrò darmene semmai ragione solo nella misura in cui, durante la vicenda terrena, avrò riconosciuto nel pensare, sollecitato – non sedotto e depotenziato ‒ dalle categorie sensibili, l’unica forza capace di farmi sopravvivere anche in assenza di materia.
Nell’interiorità umana il pensare crea la coscienza; questa crea l’autocoscienza, e l’autocoscienza è la parte di me che può degnamente aspirare ad una vita ulteriore fuori dell’anima e del corpo.
Nel tentativo di precisare meglio al riguardo della vita dopo la morte, voglio riferirmi ancora una volta, e non sarà l’ultima, al pensiero di Massimo Scaligero. Nel suo insegnamento, ha cesellato una frase davanti alla quale è impossibile restare indifferenti, e che mi sono scolpito con cura là dove è ora indelebile. Tre sono le vie in grado di ricondurre lo spirito dell’uomo sulla strada verso i Mondi Superiori: “la luce della conoscenza, la possibilità del dolore, il dono della morte”. Mi pare, a questo punto, che il messaggio giunto da Nazaret possa definirsi chiaro e limpido: in sé vi erano, compiute, tutte e tre le possibilità. Ma si tratta del caso piú eclatante della storia universale e della sua contropartita sul piano dello Spirito. Da parte mia, in quanto membro imperfetto di un’imperfetta umanità, sarà già molto se potrò seguire in modo esauriente i Maestri che hanno dato linfa vitale al mio pensiero asfittico, e troverò quindi la luce della conoscenza. O forse sarò capace d’imboccare la strada della sofferenza, come scelse Madre Teresa di Calcutta, e crescere il mio umano nella donazione di sé, e allora scoprirò nel potere della compassione la mia rinascita interiore.
Oppure, e questa credo ‒ anche se un po’ la pavento – sarà la soluzione che mi si adatta maggiormente, condividerò con tanti altri il dono della morte. Non avendo avuto la forza sufficiente d’inoltrarmi nella prima e nemmeno nella seconda strada, voglio ringraziare il Cielo di avermi garantito la terza. Che non è un’eventualità, è una sicurezza matematica. Ma quanto meno, a dispetto della venatura satirica o di quel briciolo di guasconeria col quale a volte cerco di sottrarmi all’anonimato, non chiederò: «Cosa può venirmi di buono da Nazaret? o da Aleppo, da Bamako, da Peshawar? Piuttosto che da Amatrice, da Accumoli e da Arquata?».
Non sarà necessario: la realtà che andrò ad incontrare non dovrà piú venir filtrata, distorta e micronizzata da una corporeità e da un’anima ancora poco adeguate alla coscienza dello Spirito. Nella Luce della Sua Verità, tutto tornerà perfettamente logico, ben comprensibile, facilmente spiegabile. Soprattutto, conquisterò la prova evidente che ogni accaduto, di qualunque accaduto si tratti, non può essere piú giusto di quanto in effetti sia stato.
Con buona pace degli studiosi di teodicea.
Angelo Lombroni