È il titolo di un libro della fotografa Gabriella Vigo, ormai introvabile, ma l’immagine dell’Armenia come “terra sacra” è autentica e vera. Risponde alla realtà di una terra particolare, che Dio ha scelto come luogo prediletto per dare inizio alle epoche postatlantidee; una terra che per prima ha scelto il Cristo. Se pensiamo alle parole del Vangelo di Giovanni: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto, e il vostro frutto rimanga» (15, 16), allora dopo il Padre è stato il Figlio a scegliere questo popolo, semplice e fiero, per testimoniare nel mondo per primo la fede in Lui (301 d.C.), ancora prima che l’editto di Milano del 313, per merito dell’imperatore Costantino, facesse terminare le persecuzioni e concedesse libertà di culto ai cristiani.
Nella Bibbia le sue origini
Recita il Genesi (8, 4-17): «L’arca si posò sul monte Ararat. Le acque andarono via via diminuendo fino al decimo mese. Nel decimo mese, il primo giorno del mese, apparvero le cime dei monti. …L’anno seicentouno della vita di Noè, il primo mese, il primo giorno del mese, le acque si erano prosciugate sulla terra; Noè tolse la copertura dell’arca ed ecco la superficie del suolo era asciutta. Nel secondo mese, il ventisette del mese, tutta la terra fu asciutta. Dio ordinò a Noè: “Esci dall’arca tu e tua moglie, i tuoi figli e le mogli dei tuoi figli con te, tutti gli animali d’ogni specie che hai con te …falli uscire con te, perché possano diffondersi sulla terra, siano fecondi e si moltiplichino su di essa”». E da un discendente di Jafet, figlio di Noè, hanno origine gli Armeni.
Hayq fu, secondo la tradizione di questo popolo, il loro progenitore, che diede il nome anche al paese. Lo chiamarono infatti Hayastan, come si chiama tuttora, che significa “Terra di Hayq”, in cui il suffisso comune al sanscrito e al persiano –stan indica appunto un territorio.
Gli Armeni dunque, discendendo da Jafet, sono fra i piú antichi popoli indoeuropei, autoctoni della regione, situata a sud del Caucaso, nell’alta valle del Tigri tra i laghi di Sevan e di Urmia, lago salato a occidente del Mar Caspio. In loro, chiamati “Armènioi” da Erodoto (484-430 a.C.) e da Eudossio (importante esponente dell’Arianesimo – 300-370 d.C.), che li collegavano ai Frigi, residenti nell’Anatolia centrale, l’elemento indoeuropeo si è mescolato a stirpi asiatiche o anatoliche, che non appartengono ai semiti né agli indoeuropei. Il nome “Armenia” deriva dall’eroe e condottiero Armenak (o Aram), discendente di Haiq, e fu coniato dai popoli vicini.
Testimonianze di vita neolitica sono state rinvenute in Anatolia, risalenti al 3000 a.C. circa.
Montuosa e di origine vulcanica, l’Armenia è attraversata dall’antica Via della Seta. Pertanto occupa una posizione strategica per il controllo delle vie di comunicazione tra Oriente e Occidente e a lungo le maggiori potenze militari se la sono contesa.
Per molto tempo gli Armeni combatterono gli Ittiti, anch’essi indoeuropei, insediati nella parte centrale del-l’Asia Minore, poi, tra l’800 e il 600 a.C., sorse il primo Impero armeno, la civiltà di Urartu o Ararat, compreso tra il lago di Van (Turchia orientale), il lago di Urmia (Iran nord-occidentale) e il lago Sevan, che si trova nell’attuale Hayastan. Subirono le invasioni dei Cimmeri, degli Sciti, dei Medi e degli Assiri e dopo il 600 a.C. iniziò la decadenza del primo Impero, che finí per essere dominato prima dai Persiani e poi dai Macedoni di Alessandro Magno. Dopo la morte del grande macedone (323 a.C.), il suo impero fu smembrato e dalla satrapia d’Armenia sorse l’Armenia Maggiore o regno d’Armenia, che fu un regno ellenistico indipendente dal 190 a.C.
Con Tigrane II, dal 95 al 66 a.C., il regno d’Armenia raggiunse la sua massima estensione, dal mar Nero e dal mar Caspio fino al Mediterraneo. Le campagne militari di Pompeo e Lucullo lo portarono entro la sfera d’influenza romana nel 66 a.C., ma, data la sua estensione, divenne oggetto di contesa fra l’Impero Partico e Roma, fino a che gli Armeni, dopo alterne vicende, nel 63 d.C. divennero un protettorato dell’Impero di Nerone.
Nel 380 i Mongoli, sotto il comando di Tamerlano, devastarono la regione e nel 642 la Terra di Hayq fu conquistata dagli Arabi, ma il popolo continuò a praticare la religione cristiana.
Fra il IX e l’XI secolo tornò regno indipendente sotto la dinastia dei Bagratidi, che scelsero come capitale Ani, ora in territorio turco, chiamata la città “dalle mille e una chiese”.
Nel 1045 Ani cadde sotto il dominio bizantino.
Quando iniziarono le Crociate, gli Armeni sperarono che i cristiani, provenienti dall’Europa occidentale, potessero contrastare e vincere il potere dei regni musulmani, ma anche dei Bizantini.
Nel secolo XII l’Armenia e la Cilicia rifiorirono fino al 1375, anno in cui furono conquistate dai Mamelucchi d’Egitto.
Le vicissitudini di questo popolo continuarono, poiché nel 1514 gli Ottomani la invasero. L’Hayastan non si libererà di tale dominio – molto pesante, poiché fu imposta la sharia – fino al 1923, ma è verso la fine che si consumò la tragedia del popolo armeno, il primo genocidio del secolo XX.
Dall’inizio del secolo si era andata sempre piú affermando la fazione dei “Giovani turchi”, che sognavano un impero turco che comprendesse il Caucaso, la Crimea e l’Asia Centrale, fino alla Cina. Per questo doveva essere sacrificato un popolo fiero e combattivo, che aveva nel cristianesimo il proprio punto di forza e in esso trovava il senso della propria identità. Il 24 aprile del 1915 furono arrestati e uccisi circa mille intellettuali armeni. Trecentomila giovani furono chiamati a far parte dell’esercito turco, poi disarmati e sterminati, e il popolo, privo ormai di difesa, fu avviato alla deportazione nel deserto. Nessuno fu risparmiato, neppure le donne e i bambini.
A ricordare il sacrificio di un milione e mezzo di Armeni (il “Grande Male”, Mitz Yeghem) sorge oggi a Jerevan, la capitale, sulla Collina delle Rondini, un obelisco, ma ancor meglio lo ricordano le parole di William Saroyan, un figlio di questo popolo: «Avanti, distruggete l’Armenia! Vediamo se ci riuscirete. Mandateli nel deserto senza pane e acqua. Distruggete le loro case e chiese. Poi vedrete se rideranno, canteranno e pregheranno ancora. Perché quando due o tre di loro si incontrano da qualche parte del mondo, vedrete se non creeranno una Nuova Armenia», come ricorda Nilo Marocchino nel suo libro Armenia, peregrinando lungo la Via della Seta.
Ma non fu questo l’ultimo periodo infelice per questo popolo. Quando, dopo la I guerra mondiale, l’Armenia entrò a far parte dell’Unione Sovietica, la fede cristiana fu messa a dura prova. I luoghi di culto furono spesso dissacrati e adibiti a magazzini o a musei e veniva favorita la delazione anche all’interno delle famiglie. Gli Armeni, nella loro caparbia fede, intessevano i simboli cristiani nei tappeti, in modo che non fossero facilmente riconoscibili per gli atei comunisti.
Nel 1971 il poeta Puruyr Sevak, conosciuto come dissidente, perse la vita in uno strano incidente d’auto vicino al confine con la Turchia. Egli aveva cantato l’amore per la sua terra senza libertà: «Ecco il mio paese dal dolce nome, il mio paese dal nome solenne, il mio paese tormentato, la mia gloria. Testimone parlante della strage, e occhi limpidi di pianto estinto, severa corte di giustizia, fodero di spada, libro d’amore, sempre antica e nuova, terra mia d’Armenia». Si dice che le opere dei poeti siano peggio di una guerra perduta per i regimi. È vero, perché ne minano profondamente la credibilità.
Il 21 settembre del 1991, caduta l’URSS, l’Armenia si è dichiarata repubblica indipendente, poi ha dovuto affrontare un lungo conflitto con l’Azerbaijan per il controllo del Nagorno Karabakh – come abbiamo riportato in “Siti e miti” nel numero di ottobre di quest’anno – una guerra che non è ancora terminata.
Attualmente la piccola Armenia, che conta tre milioni di abitanti – altri dieci sono sparsi per il mondo, costretti all’esilio dalle vicissitudini storiche – sta aiutando la Siria di Bashar Al Assad, sia perché c’è sempre stato con gli alawiti, una minoranza islamica a cui appartiene il presidente siriano, un legame di amicizia, sia perché la Siria è alleata con la Russia, amica dell’Armenia, sia infine per proteggere la comunità armena di Siria. Fu ad Aleppo, a Damasco e a Deir el-Zor che si rifugiarono i pochi superstiti della marcia attraverso il deserto. Con il tempo conquistarono la prosperità e divennero centomila. Ma dopo l’esplosione di quest’ultimo conflitto, le “rondini” armene hanno ripreso la via dell’esilio.
Arte armena: la scultura…
Tipici esempi di scultura armena sono i khachkar, le “croci di pietra”, che abbiamo già visto molto diffuse nel Nagorno Karabakh. Possono essere semplicemente delle croci finemente cesellate oppure dei cippi funerari, ma non solo. Alti e di forma rettangolare, venivano scolpiti ed eretti per ricordare vittorie militari, in onore di personaggi illustri, oppure con intento votivo per chiedere protezione da disastri naturali, per impetrare la salvezza dell’anima e persino per un amore infelice.
Generalmente, nella parte centrale è scolpita una croce e sotto un disco solare, intorno una cornice a disegni astratti, foglie o grappoli d’uva. Al di sopra possono essere rappresentati scene sacre o immagini di santi. Il tutto artisticamente ricamato nella pietra. Non lontano da Gavar su una collina, dalla quale si vede il lago Sevan, si estende il cimitero di Noraduz con 900 khachkar, la raccolta piú numerosa di tutto l’Hayastan.
…e l’architettura
Unico esempio di architettura ellenistica nell’Armenia odierna e nel Caucaso è il tempio di Garni. Costruito nel I secolo d.C. da Tiridate I su un promontorio a 32 chilometri circa dalla capitale, fu dedicato a Mitra. A differenza degli altri templi greco-romani il basamento sul quale s’innalza è di basalto. Sembra un piccolo Partenone con la sua copertura sorretta da 24 colonne ioniche.
Il monastero di Zvartnots, che in armeno significa “gioia degli angeli”, si trova ad Ovest della città di Echmiadzin. È un complesso che risale al VII secolo e fu dedicato a san Gregorio l’Illuminatore, che in questo luogo ebbe l’ispirazione d’incontrare il re Tiridate III per convertirlo. Invasioni e terremoti distrussero il complesso che fu riscoperto da archeologi all’inizio del ’900. Quattro absidi semicircolari formavano la croce greca della basilica all’interno, circondata da un poligono a trentadue facce, che da lontano doveva apparire circolare. Le colonne che ornavano la basilica erano decorate da intarsi, croci, rose celtiche, che si trovano in tutto l’ambito indoeuropeo, a sottolineare che gli Armeni, antichissimo popolo indoeuropeo, fa parte dell’Europa occidentale, che la considera parte di sé per cultura e religione. La città di Echmiadzin, il cui nome significa “discesa dell’Unigenito”, è sentita come sacra perché dal 301 d.C. è sede del Catholicos, il Patriarca della Chiesa apostolica armena. Sorse a circa venti chilometri dalla capitale Yerevan intorno alla cattedrale dallo stesso nome, fondata da San Gregorio su un tempio pagano.
Il monastero di Harichavank, a quattro chilometri da Artik, si trova a 2.000 metri di altezza su una terrazza del monte Aragats. La chiesa principale, a croce greca e con la tipica cupola armena a forma di ombrello, è dedicata alla Santa Madre di Dio (Surp Astvatsatsin) e risale al XIII secolo. Attraverso un gavit, o vestibolo esterno, è collegata a una chiesa del VII secolo, dedicata a San Gregorio.
Il monastero di Haghpat, il cui nome significa “mura solide”, è vicino alla città di Alaverdi e al confine con la Georgia nell’Armenia settentrionale. È un insieme di chiese, gavit, corridoi e una biblioteca. La Chiesa di Santa Croce è la piú antica e risale al X secolo. Nella galleria che conduce alla biblioteca si trova il Khatchkar del Salvatore, che rappresenta nei dettagli la storia della Crocifissione: il Cristo Gesú in croce con il capo reclinato, apostoli ai lati, angeli e il Padre in alto. Di grande bellezza, è oggetto di speciale devozione, in quanto opera miracoli.
Del monastero medioevale di Gladzor, piccolo comune armeno, resta la chiesa, nella quale sono custodite copie di codici miniati con colori intensi. Nel XIII secolo nel monastero aveva sede un’Università, in cui venivano insegnate la religione e altre discipline. Vi era anche una scuola di miniatura che formò autentici artisti in grado di creare capolavori.
La Chiesa apostolica armena
Nel 1307 Filippo IV il Bello, re di Francia, ordinò l’arresto dei Templari in tutto il regno, per impossessarsi dei loro beni e annientarne la potenza. Sotto tortura ottenne false confessioni, in seguito alle quali papa Clemente V intimò la cattura dei Cavalieri nell’ambito di tutta la Cristianità e nel 1312 sciolse l’Ordine. Il 18 marzo del 1314 Jacques de Molay, ultimo Gran Maestro dei Templari, fu mandato al rogo davanti a Notre Dâme, ma prima di morire rinnegò le confessioni fatte sotto tortura. Molti dei Cavalieri superstiti si rifugiarono nella Chiesa armena, portando con sé oggetti, documenti e volumi, che furono conservati in un archivio segreto. Essi aderirono all’ala più integralista, la Chiesa Ortodossa Gregoriana.
Nella Chiesa armena, come nelle altre Chiese ortodosse, la Messa viene officiata solo una volta, la domenica mattina, ed è molto piú lunga della Messa cattolica. Assumono molta importanza i Vespri, specialmente quelli officiati prima di un giorno sacro. I canti sono solenni e i gesti ieratici, tanto da creare una suggestione assente nei riti della Chiesa cattolica. I sacerdoti celebrano elevati su un palco, quindi separati dai fedeli, i quali non partecipano attivamente alla liturgia, se non facendo spesso il segno della croce. È d’uso che i fedeli chiedano e ricevano spesso la benedizione, e anche questo distingue la Chiesa armena e le Chiese ortodosse da quella cattolica, dove le benedizioni non vengono elargite, neppure su esplicita richiesta. Chi scrive ne ha fatto esperienza.
Il dolce mare…
Non lontano dal confine con l’Azerbaijan si stende, a duemila metri di altezza da Nord-Ovest a Sud-Est, il lago Sevan, che occupa un ottavo del territorio dell’attuale Hayastan. È chiamato “la perla dell’Armenia” per la sua bellezza. Con un’area di 940 chilometri quadrati sembra un mare, di cui s’intravede da lontano la riva opposta e fornisce acqua potabile non solo all’Armenia, ma a tutta la regione caucasica. Intorno al Sevan si sono formate suggestive leggende. Narra la tradizione che gli abitanti del luogo, inseguiti dagli Arabi, abbiano attraversato il lago e si siano rifugiati nel monastero di Sevanavank, che sorge su un promontorio, un tempo un’isola. Quando gli Arabi si inoltrarono sul lago ghiacciato, la superficie si ruppe e affondarono nelle acque gelide annegando.
Un’altra leggenda racconta di un giovane che, nuotando nella notte, cercò di raggiungere l’amata sull’altra sponda, ma l’impresa fu superiore alle sue forze e fu travolto dalle acque. A ricordare questo infelice amore c’è la statua di una ragazza che scruta il lago, nella speranza che l’amato giunga.
…e la Sacra Montagna
Per gli Armeni, che vivano in patria o dispersi nel mondo, dovunque la diaspora li ha portati, il simbolo del loro paese è l’Ararat, la Montagna Sacra che avvolge di magico fascino l’Armenia e dona al suo popolo la fierezza di appartenere a questa terra e la speranza in un futuro diverso. Vulcano dormiente che raggiunge i 5.156 metri, s’innalza sull’altopiano armeno, la cui altezza media è di circa 1.000 metri. La vetta, a forma di cono, è sempre innevata. Chiamato “Mais” dagli Armeni, è affiancato dal Piccolo Ararat, detto Sis, un vulcano spento che non giunge ai 4.000 metri. L’Ararat si trova a Oriente della Turchia. Poiché s’innalza in un territorio oggetto di contesa fra Armeni e Turchi, questi ultimi, con la forza della superiorità bellica e con estrema crudeltà, lo hanno sottratto all’Armenia, ponendo postazioni militari lungo il confine che corre nella valle ai piedi del monte. Su una collina in territorio armeno si trova il monastero-fortezza di Khor Virap, sul quale la montagna sembra incombere, tanto è vicina, ed è nel monastero che i turisti si recano per ammirare la bellezza dell’Ararat e percepirne la sacralità che, come un’aura, lo circonda.
Il poeta Azad Vartanian usa parole enfatiche per la Montagna: «Un gigante che dalla sua enorme altezza vede tutto e non si lascia toccare. Una donna affascinante, bellissima, ma anche altera e inavvicinabile».
Il canto del pane
«Nelle plaghe d’Oriente
sia pace sulla terra…
non piú sangue, ma sudore
irrori le vene dei campi,
e al tocco della campana di ogni paese
sia un canto di benedizione.
Nelle plaghe dell’Occidente
sia fertilità sulla terra…
Che da ogni stella sgorghi la rugiada
e ogni spiga si fonda in oro,
e quando gli agnelli pascoleranno sul monte
germoglino e fioriscano le zolle.
Nelle plaghe dell’Aquilone
sia pienezza sulla terra…
Che nel mare d’oro del grano
nuoti la falce senza posa,
e quando i granai s’apriranno al frumento
si espanda la gioia.
Nelle plaghe del Meridione
sia ricca di frutti la terra…
Fiorisca il miele degli alveari,
trabocchi dalle coppe il vino,
e quando le spose impasteranno il pane buono
sia il canto dell’amore».
Antasdan è il nome del canto di benedizione che il poeta Daniel Varujan innalza ai campi dei quattro angoli del mondo; i campi che producono frutti e soprattutto il grano, che le spose impastano per fare il pane. Ma il pane non serve solo a nutrire gli uomini: è anche il “corpo di Cristo”. E questo gli Armeni lo hanno ben presente.
Lavash è il nome del pane armeno, una piada sottile di un millimetro di spessore. Quanta maestria e dedizione serve a chi lo fa per rispettare lo spessore millimetrico! I forni tradizionali, chiamati tonir, sono di terracotta. La piada cruda, lievitata naturalmente, si attacca al piano del forno e si cuoce in due-tre minuti. Con il lavash si preparano anche involtini ripieni di formaggio o di verdura. Lo produce una comunità che comprende una decina di persone, dal contadino al mugnaio al panettiere, della città di Chambarak, che sorge lungo il fiume Getik, non molto lontana dal confine con l’Azerbaijan. Questa comunità produce il lavash tradizionale, molto apprezzato da chi non si accontenta del pane di scarsa qualità che si vende nei negozi, e ne preserva la qualità. Fatto con grano coltivato a Chambarak, il lavash è bianco; quello nero si ottiene mescolando frumento, segale e avena. La comunità, d’estate, produce una provvista di pane che viene essiccato e si conserva cosí per i mesi invernali.
Fiabe d’Armenia
«C’era e non c’era una volta», cosí iniziano le favole armene. È un incipit al quale non siamo abituati, ma che ci suggerisce come questo popolo intenda il mondo delle favole: sospeso in un tempo che non è tempo, in quanto i personaggi e le storie narrate appartengono all’eternità e all’infinito. Quasi fossero consapevoli, gli Armeni, che le fiabe furono diffuse da centri iniziatici segreti, per comunicare verità che non potevano essere trasmesse se non in modo velato: chi aveva orecchi per intendere avrebbe inteso, gli altri avrebbero accolto la suggestione che avrebbe lavorato nelle loro anime facendole comunque evolvere.
Ma ci sono altre formule che rendono particolari queste fiabe. Del protagonista che parte per raggiungere una meta, che è sempre lontana e difficile da conquistare, si dice: «…e si mise in cammino. Andò molto, andò poco, se andò molto o poco lo sa solo Iddio». Il nostro «Che Dio ti benedica!» si esprime con la frase:
«Padre, salute del Signore!». Laddove le nostre fiabe terminano con le parole: «…e vissero felici e contenti», in Armenia la formula finale e beneaugurante per chi ascolta, recita: «Essi hanno realizzato il loro desiderio, che anche voi possiate realizzare il vostro!».
«Dal cielo cadono tre mele:
una per chi ha narrato, una per chi ha ascoltato
e l’altra per tutto il mondo».
Possiamo dire che queste che abbiamo appena esaminato sono espressioni che rimandano a un mondo contadino, che la sera si riuniva intorno al focolare e, dopo una dura giornata di lavoro, si lasciava andare ai racconti che venivano tramandati di generazione in generazione. È un mondo tipologicamente antico, ma simile a quello delle nostre campagne, dove la gente si riuniva anche nelle stalle, al tepore del fiato degli animali.
A cavallo del vento è un bel libro di fiabe raccolte da Sonya Orfalian per nostalgia della sua terra e al fine di salvarne il patrimonio di tradizioni: «Conservare la memoria e testimoniare la continuità di una cultura di un popolo senza territorio – scrive la Orfalian – è essenziale per chi ha vissuto e vive nella nostra condizione, riconoscere il cammino giusto da percorrere per poter infine pronunciare con allegra solennità la formula conclusiva piú diffusa nelle nostre fiabe di tradizione: “Che dal cielo cadano tre mele…”».
La ragazza nella melagrana narra che il principe Ghul Zatà, giocando con altri giovani, ruppe per sventatezza l’anfora di una vecchietta, che si adirò moltissimo e lo maledí: «Che l’amore per la ragazza nella melagrana entri nel tuo cuore e possa bruciare e ardere!». Il principe arse all’istante e partí, deciso a girare tutto il mondo, pur di trovare l’amata. La trovò infine, addormentata dentro una melagrana, «ed era cosí bella che sembrava dire alla luna: “Non sorgere, illuminerò io la notte”. Si avvicinò, le diede un bacio sulla guancia e quella si svegliò».
Il cavallo di fuoco è una fiaba iniziatica e complessa, nella quale l’eroe, il figlio minore di un re, dopo molte prove e avventure, libera una fanciulla immortale, che a sua volta gli dona l’immortalità. Ma può liberarla perché è la sua “sposa celeste”, l’altra metà dell’Androgine.
Haprmaní, il serpente meraviglioso è una fiaba che ricorda il mito di Amore e Psiche e la storia di Lohengrin, il Cavaliere del cigno, e di Elsa di Brabante. La sposa può godere dell’amore dello sposo, purché mantenga il silenzio sulla sua vera personalità, sul suo vero essere, che è spirituale, divino, immortale. Sono immagini dell’Io, la parte spirituale nell’uomo, che si congiunge all’anima.
Nel segreto e nel silenzio dell’interiorità, piena di venerazione e dedizione, si compie l’unione sacra, che va rinnovata ogni giorno fedelmente. Cosí si rinnova ogni giorno la fedeltà al Cristo in noi e all’Altissimo.
La forza meravigliosa, il potere di miracolo dell’Amore ci viene donato, in quanto uomini dotati di Io, dal Mondo spirituale. Il dono in realtà viene dal Cristo, che è l’Io cosmico, l’Amore cosmico.
Quando l’anima viene meno all’intima fedeltà al Sacro Amore, fatta di silente venerazione, devozione e ascesi, passa allora attraverso dure prove per giungere a riconquistare l’Amato.
E cosí accade anche alla principessa della fiaba che rivela i poteri meravigliosi del suo sposo, Haprmaní: dovrà indossare sandali di ferro, portare un bastone di acciaio, camminare per sette anni e passare per sette fortezze o castelli. Quando avrà consumato i sandali e del bastone sarà rimasto solo un pezzetto, allora ritroverà lo sposo. Nuove prove attendono la coppia, una volta ricongiunta, ma ne usciranno vittoriosi.
«E che il Signore faccia scendere sulla terra la Sua benedizione!».
Con questo augurio e questa implorazione si chiude la favola.
E noi, che in una notte lontana abbiamo sognato una Grande Armenia, diciamo: «Che Dio Padre benedica questa Terra sacra e il Cristo benedica gli Armeni che Lo portano nel cuore, dovunque essi siano!».
Alda Gallerano