Non sono i fiumi a dare l’acqua potabile. Per quanto grandi e possenti, se uno vi si abbevera rischia ogni tipo di infezione. Possono fornire solo energia motrice e abbellire i panorami. Dove, come a Parigi, si è voluto utilizzare quella della Senna per uso domestico, i costosi e complessi impianti di depurazione installati hanno fatto lievitare le bollette dei parigini in maniera esorbitante. E cosí è stato altrove quando si è voluto ricavare acqua potabile dai fiumi di grande portata. L’acqua da bere viene dalle sorgenti naturali, che pescano nelle viscere della terra, o dalla pioggia, la cosiddetta acqua meteorica, ossia del cielo, raccolta in pozzi, cisterne o piscine. Oppure la si va a prendere dai monti, che sono le naturali torri dell’acqua. Ma occorre averli, i monti, a portata di mano, anzi di brocca. I Romani antichi i monti li avevano a una ventina di chilometri a Est: i Simbruini e gli Albani. Per portare in città l’acqua piovana che le alture ricevevano dal cielo e lasciavano defluire, furono costruiti acquedotti maestosi e funzionali che tuttora resistono.
Ma gli Egizi, che pure nulla avevano da invidiare ai Romani in fatto di bravura edilizia e ingegneria idraulica, montagne a portata di anfora non ne avevano, e neppure colline di un certo rilievo. La loro capitale, Menfi, era assediata dal piatto, infinito deserto rovente e annegata nel delta fangoso del Nilo, che salvo il limo, fecondatore di zolle, acqua potabile non ne dava. I pozzi e le sorgenti facilmente si intorbidavano per le infiltrazioni di limo e sabbia. Acqua per irrigare e pulire, non per bere. Le alture piú vicine erano quelle dell’Haggar, del Sudan, del Sinai. Troppo lontane. A portata di mano c’era però una modesta altura, un rilievo calcareo, poco fuori città: l’altopiano di Giza, non alto abbastanza tuttavia per operare lo scambio delle masse nuvolose in pioggia da raccogliere e far defluire in vene o far sgorgare dalle sorgenti. Ecco allora il genio egizio all’opera: tre colline piramidali a quattro facce in blocchi di arenaria. Ma occorreva produrre il meccanismo di estrazione dell’acqua dalle nubi, che difficilmente si tramutavano in abbondanti piogge. L’acqua poteva invece essere ricavata dall’inversione termica tra il calore solare e l’umidità dell’aria notturna, satura di molecole d’acqua in sospensione. Bastava farle condensare, quelle molecole, con il calore della grande insolazione diurna, e quindi farle cadere, durante il rigore notturno, scivolando lungo le facce delle piramidi per essere raccolte nelle apposite vasche scavate ai loro piedi. C’era un problema: l’arenaria, tramontato il sole, si raffreddava rapidamente perdendo il suo potere di condensazione. Venne in aiuto dei costruttori la memoria della scienza degli antichi Atlantidi, dai quali essi discendevano: ricordarono come nel continente perduto le città brillassero per il rivestimento dei tetti con lastre di un metallo, l’oricalco, ottenuto con una lega di rame e oro. Il Sinai abbondava di miniere di rame purissimo, un metallo conduttore di calore. Ne rivestirono le tre piramidi dell’altopiano di Giza, dedicate a tre faraoni della IV Dinastia: Cheope, Chefren e Micerino.
Eressero a guardia dei tre mausolei la Sfinge, simbolo della forza che protegge il Mistero.
L’acqua che ogni notte scivolava giú dalle tre piramidi in ruscelletti di pura acqua siderea si raccoglieva ai piedi del grande leone dalla testa umana che i Francesi della spedizione napoleonica si divertirono a sfregiare a cannonate. Gli archeologi hanno individuato, dai residui calcarei del grande bacino ai piedi di ogni piramide, i vari livelli cui era arrivata l’acqua nei vari periodi storici. Le lastre di metallo e il pyramidion, l’apice d’oro, furono asportati dai mamelucchi nel XII secolo.
Una teoria, certo, quella delle grandi piramidi destinate a macchine dell’acqua. Come quella che vede nel Castel del Monte, in Puglia, otto torri dell’acqua, che oltre a vincere la siccità della regione veniva usata per riti lustrali. Federico di Svevia, Stupor mundi, vagheggiante un Regno Universale degli uomini, nel frusciare di quell’acqua indagava la perfetta misura del creato.
Elideo Tolliani