Gli appassionati di Agatha Christie non si allarmino; non è la trama d’un ennesimo romanzo giallo, rimasto incompiuto e recuperato poi in via postuma. Anche perché qui il titolo comincia con la preposizione “Nel”, mentre la logica romanziera avrebbe invece preferito l’articolo “Il” onde porre subito qualche cosa di complicato e a un tempo affascinante di fronte al lettore. Di fronte, ma non dentro, interessandolo senza fagocitarlo. Qualcosa che sicuramente altri, forse anche l’autore stesso, risolveranno in seguito per lui, sprofondandolo d’un paio d’ore nell’amata poltrona con il sollazzo della lettura.
La situazione perciò è di gran lunga diversa, e anche piú seria; il “Nel” che campeggia per primo, ha un sapore d’intimazione, di accusa; giunge inatteso, senza nemmeno un avviso di garanzia; pare un macigno caduto sulla nostra strada, e ha tutta l’aria di non volersi scansare.
Con le dovute proporzioni, è accostabile all’inizio della Divina Commedia. A parte il caso dei rari cultori di letteratura italiana soggetti a reazioni sui generis, pesa quanto una scadenza non prorogabile; una resa dei conti nella quale viene chiamato in causa l’intero comparto della nostra soggettività, almeno per quella parte cui finora s’era badato poco o niente, ma proprio per questo, evidenziato il reato d’omissione fino alla consapevolezza, l’ultimatum risuona ancora piú sinistro. Suggerisce con cupa ironia: “Tu ci sei dentro”.
Del resto credo che pure Padre Dante, nel vergare il suo incipit, non fosse mosso da gaio esistenzialismo. È il dramma tra il dentro e il fuori. Sia qua sia là, c’è un mondo da cui non possiamo prescindere. Vorremmo liberarcene, per volare alti come aquile e incorporei come angeli. L’impossibilità di farlo ci atterra (e atterrisce). A lei ci siamo arresi un tempo e abbiamo conseguentemente eletto tale stato di non-libertà a metro e riferimento d’ogni cosa, dalla piú misera e squallida fino a quei grandi ideali che ci affascinarono da bambini. Oggi tutto è vincolato; anche i ricordi; standardizzata, della non-libertà non si parla piú: prevale il limite che ci siamo posti, un carcere o
un rifugio, dentro il quale nascondiamo da molto tempo quel che di noi abbiamo ritenuto inutile cercare e incontrare. Non potevamo darci una motivazione migliore per non cercarlo piú.
Quel “Nel”, per contro, è impegno, è fatica. Ci avverte di un compito in cui siamo immersi fino al collo e anche piú. Perciò niente sollazzi, niente poltrone. Il “bello della diretta” visto da fuori finisce qui. Troppo comodo. Ora siamo dentro una tomba vuota. Tra spavento e preoccupazione, ci aggiriamo, ci arrovelliamo, e soprattutto ci chiediamo come diavolo siamo capitati lí e che ci siamo venuti a fare. Piú ci pensiamo e piú l’ipotesi di esserci smarriti in una necropoli durante una visita guidata sfuma implacabile.
Eppure, a volte accade, ci siamo andati vicino. La nostra esistenza terrena poteva essere una specie di “visita guidata” del pianeta Terra. Ma riconoscerlo non è semplice: tra il vissuto e la sua verità c’è tutto un percorso da fare, non lo si improvvisa lí per lí. Trovarsi in una tomba vuota senza sapere come e perché fa vacillare anche l’egocentrismo piú coriaceo.
Filosoficamente non c’è motivo di spaventarsi oltre il dovuto. Se nella nostra vita un punto di partenza dev’esserci, allora sia benvenuto quello privo di segnali, starter, squilli di tromba o altre indicazioni; tanto, sono solo le nostre orecchie a udirlo; ogni momento, ogni circostanza vanno bene, se la decisione monta, accresce e scavalca l’umano timore.
Allora, la Tomba Vuota è il posto perfetto. Trovarvisi dentro ‒ consapevoli ‒ può essere l’inizio.
Se non voglio proseguire da solo, comprendo che si rendono necessarie alcune spiegazioni. Di certo non spiegheranno tutto, dal momento che, accingendomi al compito, neppure io ho un’idea precisa di dove voglio arrivare, ma la rappresentazione dell’uomo odierno che si accorge «nel mezzo del cammin di sua vita..» di trovarsi in un posto assurdo, irragionevole e d’infausto aspetto è una rappresentazione forte che mi è abbastanza chiara.
Sono passati secoli; la selva oscura si è fatta sepolcro. Del resto i mutamenti ambientali hanno seguito il loro corso, e i nuovi slanci idealistici per la salvaguardia dell’ambiente, della flora e della fauna si sono mossi con tale ritardo rispetto alla natura, che le buone intenzioni d’avanguardia si muovono in realtà con la diffidenza e la circospezione tipici di una ritirata strategica.
Che cosa può mai essere questa raffigurazione pressante e dolorosa della Tomba Vuota?
Potrei elencare una serie di motivi, triti e ritriti, per dare un primo sostegno al concetto. Abbiamo tutti un’anima imprigionata in un corpo, abbiamo una coscienza imprigionata nell’anima, abbiamo un corpo imprigionato nelle forze telluriche, e abbiamo un cervello che ha imparato a fare il cervello uccidendo, depredando e saccheggiando per necessità, nei tempi selvatici, e dando conforti di saggezza, di politica e di organicità sociale nei tempi in cui uccidere, depredare e saccheggiare veniva riservato solo per grandi ideali e comunque praticato per vie traverse, senza dar troppo nell’occhio. Grosso modo questo è quel che divide i periodi della preistoria da quelli delle ère civili.
Un membro di una razza cresciuta in tal modo non può che paventare la morte, al punto che il suo simulacro, come lo scheletro o la stessa tomba, sono diventati tutt’uno con il terrore e con il concetto di fine della corsa, per i maniaci dei videogiochi equivalente al game over.
Ma perché devo sempre cadere nell’errore di spiegare una determinata cosa, astratta e retorica, con ulteriori astrazioni? Ho sottomano degli esempi concreti che parlano la nostra lingua ed esprimono il concetto molto meglio di quanto io possa fare con le parole.
Poco tempo fa, non ricordo bene chi, credo un insegnante, uno psicologo o comunque un uomo avente una carica pubblica di un certo rilievo, ha rilasciato una dichiarazione nelle quale esprimeva la propria contrarietà e il personale rammarico di favoleggiare ai bambini, raccontando loro di personaggi inesistenti quali Babbo Natale o la Befana. Aggiungeva, a rincarare la dose, che prima o poi i bambini avrebbe scoperto le menzogne dei genitori che li avevano ingannati per anni, e, in prospettiva, la loro potenziale fiducia negli adulti avrebbe subito un duro contraccolpo.
Mi pare che dalla situazione appena descritta balzi evidente come il portatore di una simile pensata debba veramente essersi trovato in una Tomba Vuota, con l’anima a tal punto smarrita che per credersi ancora viva abbia coniato per l’occasione un incidente di percorso, in modo che qualcuno da fuori si accorgesse di lei, sepolta e sola là dentro, e sentendone gli strilli, arrivasse in aiuto.
Anni or sono, uno scienziato noto per i suoi studi sulla natura delle stelle, ai quali si può dire dedicò tutta l’esistenza, intervistato sulla possibilità che le ricerche fisiche sull’origine dell’universo sconfinino presto o tardi nel metafisico, replicò con l’affabilità, ma anche con la perentorietà che gli erano proprie: «Mi portino una forma di vita capace di organizzarsi, di svilupparsi e di agire secondo un principio d’intelligenza, e che tuttavia non partecipi minimamente a quanto fisica e chimica riferiscono, allora potremo porre una cauta ipotesi su quel che la non-scienza chiama col nome di “Spirito”».
Evidentemente, il minimo che si possa dire è che lo studioso in questione, nonostante la grande apertura sui mondi siderali, si sia rinchiuso pure lui in un Tomba Vuota, senza ovviamente rendersene conto, e da questa carcerazione l’anima ha continuato a cercare e trovare, nell’infinità degli spazi, tutti gli elementi di fisicità di cui aveva bisogno per continuare a ignorare la sua situazione interiore, ed anzi percepirla piú che mai equilibrata e obiettiva.
Si può anche fare una piccola controprova domestica, come fosse un esercizio (e infatti lo è): esiste il cosiddetto linguaggio dei fiori, che ha ispirato da sempre artisti, poeti e movimenti romantici. Prendiamone uno per tutti, la rosa: per dieci minuti cerchiamo di “spogliare” dialetticamente la rosa, annotando ogni proprietà, struttura, dinamica di cui pare composta, fintanto che non si sappia piú cosa dire, neppure con l’apporto di testi di botanica.
Prendiamo gli appunti e vediamo di cogliere tra essi quali siano gli elementi determinanti per dare alla rosa quel tocco di poesia, quella fragranza di sentimenti potenti e gentili, che le vengono universalmente riconosciuti come fatto assodato. Niente da fare; ricerca vana; nulla di poetico nelle molecole, negli atomi, nelle fibre vascolari, nella linfa, e nemmeno nelle forme e nei colori; se si persiste volutamente con la sola immediata percezione dei medesimi, non si va da nessuna parte.
La magnificenza del cosmo, la sua sacralità non è diversa dalla poesia che può spirare da un fiore.
Proprio come nella nostra immaginazione ci fu un tempo in cui la valenza di personaggi quali Babbo Natale, o la Befana, esprimevano una ben precisa esigenza di esistere all’interno di anime infantili che stavano misurandosi con la vita.
Cercare di toglier loro una simile possibilità, equivale a schiacciare il mondo adulto sotto il peso del classico imperativo materialistico: «Se Dio esiste, ce ne dia le prove».
Come si può ora meglio comprendere, non dipende dall’Essenza diventare Esistenza, come non dipende dalla rosa diventare un simbolo d’amore; né è colpa della Befana, o Babbo Natale, scomparire dalla visione dei maggiorenni. Bisogna che ci sia prima di tutto un percipiente, il quale abbia sviluppato la capacità di afferrare la metamorfosi e capire che ad ogni livello le cose si presentano in vesti nuove.
Mancando tutto questo, il nostro esser uomini può solo consistere in un aggirarsi alla cieca, brancolando tra resti e rovine; piangere, interrogare le urne e provare su di sé il peso della sofferenza del mondo. Ma non ne verrà fuori un nuovo poema omerico, perché la corrente del puro sentire, l’aedo dell’amore e del fondamento epico-eroico non c’è piú, ha fatto il suo tempo. Dalla scomparsa emergono come relitti i frutti amari dell’ingratitudine: rimpianti, accuse, lamenti e improperi.
Perché questo è quel che sappiamo fare bene; e lo facciamo tuonando e pontificando dall’alto dei vertici che abbiamo disseminato ovunque arando e coltivando campi del potere.
Le riflessioni qui svolte sono elementari, alla portata di chiunque; eppure – devo chiedermi – sarei stato capace di opporle immediatamente al dotto che ipotizzava una specie di reato di corruzione coltivando i piccoli in credulità anomale? O al superesperto delle stelle che pretendeva una rivelazione divina misurabile in peso, volume e sostanza? Avrei avuto il coraggio di affrontarli in pubblico, alzandomi in piedi e ribadendo loro un fermo e deciso: «Mi dispiace contraddirla, ma lei si sbaglia di grosso!»?
No, lo ammetto; non ne sarei stato capace. Avrei dovuto dapprima sostenere, magari vacillando, il peso di queste assurdità, disintossicarmene, e solo dopo molto tempo, come infatti è stato, avrei potuto raccogliere i pensieri atti a respingere le espressioni della depravazione intellettuale umana, mascherata da rigorismo scientificale e razio-cinismo deviato.
Costruire delle controdeduzioni che fulminino la sedicente attuale “retorica dell’ovvio”, svelandone l’impurità di fondo, dovrebbe essere un fatto immediato, naturale, svolgentesi senza sforzo alcuno. Invece ogni volta devo risalire i percorsi della coscienza e tornare alla percezione diretta di quel che rappresenta la Tomba Vuota, per potermici ritrovare dentro senza eccessivi timori, anzi sentendo essa medesima come unico sicuro intangibile riparo.
Cosí come gli antichi Greci, attraverso Platone e il suo mito della Caverna, ebbero la folgorante intuizione di quel che sarebbe la vita della conoscenza se si fosse continuato ad accontentarsi dei riflessi della realtà, al pari, oggi, quella Tomba, resa vuota dall’Uomo Gesú, detto il Cristo, è diventata il limite entro il quale abbiamo permesso venisse imprigionata la vita dell’anima umana, imbalsamati da un finto progredire nella scienza astratta, dalla speculazione filosofica depauperata del suo fondamento, dalle facoltà del pensare, sentire e volere esclusivamente rivolte secondo natura e necessità materiali, non secondo lo Spirito, senza il quale natura e materia neppure esisterebbero.
Effettivamente in questa epoca il livello di non-cultura raggiunto ci induce a errori madornali che un logico d’altra estrazione avrebbe sfatato in poche parole; invece restiamo incantati davanti a tromboni parlanti che ne inventano di tutte pur di confondere, circuire, depistare gli esseri umani, spingendoli nell’equivoco, nell’incertezza e nel possibilismo nichilistico.
Ci fu uno scienziato, analista geologo, che, chiamato in causa, durante un convegno sulle sorti ecologiche del globo, rivolse parole di fuoco contro le compagnie petrolifere per le devastazioni da esse compiute a furia di trivellare terreni, ghiacciai e fondali marini. Ma aveva contro di sé uno dei migliori legali, un professionista di grido, specializzato in quel tipo di vertenze, e – occorre dirlo? ‒ profumatamente pagato dalle stesse compagnie. Dopo la filippica appassionata dell’esperto, il celebre legale esordí: «Abbiamo già sentito le argomentazioni del Dottor XY. In realtà sono anni che ripete le medesime cose, caricando ogni volta l’indice di catastroficità. Noi questa volta ci attendevamo prove nuove e convincenti. Abbiamo già capito che non sono nuove; vedremo adesso se sono almeno convincenti…».
Un’accoglienza del genere, proferita da un pulpito altisonante, fece l’effetto di una doccia gelata per il nostro scienziato, che si vide cosí di primo acchito abbattere il cinquanta per cento delle sue argomentazioni, con la forte probabilità che pure quelle restanti risultassero poi indebolite dalla mazzata iniziale.
L’uomo onesto purtroppo è cosí: di fronte al torto villano e alla sicumera tracotante del malvagio opportunista e smaliziato, non sa controreplicare con immediatezza, e nel passare di pochi secondi capisce di aver irrimediabilmente perduto la posta. Nell’élite del mondo forense, da un punto di vista puramente dialettico processuale, la guerra si fa in modo molto sporco, senza guanti né riguardi. È cosí che certi grandi avvocati diventano grandi: demolendo speranze, annientando ideali e distruggendo vite di lavoro con quattro parole brucianti sparate ad alzo zero. Quanto basta per affascinare giudici, giurie e la sonnolenta pubblica opinione.
Ma qui sta il bello dello scrivere: che io, volendo, posso intervenire nella vicenda, creando un’appendice a parte, e inserendovi delle cose che nella realtà dei fatti non sono esistite, né esisteranno mai, eppure, tuttavia, hanno il pregio di destare, in chi legga con attenzione, un senso di comprensione, di avvertimento quasi presagistico che può rivelarsi buono in situazioni future, se e quando si presenteranno.
Pertanto mi diverto a trasferire nel professore/scienziato, avvilito e confuso da non riuscire a riprendere la parola, uno spiritello superdialettico, scaltro e preparatissimo: diciamo, ma solo per intenderci meglio, un qualcosa di simile al daimon socratico, e vediamo quel che ne salta fuori.
Che sarebbe dunque accaduto se il “geniaccio” di Socrate si fosse trasferito di colpo nel nostro amico aulicamente strapazzato?
Avrebbe replicato senza indugio e con voce stentorea:
«Devo dichiarami soddisfatto e anche compiaciuto per il mio avversario accusatore; io infatti ero venuto qui ingenuamente pensando che quelle quattro prove documentali che mi portavo dietro fossero sufficienti a dimostrare la mia teoria. Purtroppo non avevo fatto i debiti conti con la mia presunzione, e apprendo ora che i miei discorsi sono ancora piú vecchi e malmessi di me. Mi spiace quindi per voi tutti che vi siete incomodati a intervenire su una diatriba, in fondo, di poco spessore. Vi ho fatto perdere del tempo prezioso, e di ciò mi rammarico, anche perché capisco quali altri impegni probabilmente avete dovuto disertare per colpa mia, che vi costringo qui ad ascoltare le mie storie sui disastri ecologici cui sta andando incontro il nostro pianeta. Per quanto gravi e imminenti essi siano, non potranno mai stare a confronto con le vertenze e le azioni legali che avrete senz’altro dovuto lasciare in sospeso nei vostri incartamenti e nei vostri studi; di tale impiccio mi sento d’essere l’incauto impedimento.
Rimango altresí ammirato dalla semplicità e dalla sbrigatività con la quale è stata respinta una metà delle mie deduzioni, e posta ad ipoteca la restante altra metà. Non posso fare altro che constatare la debolezza dei miei assunti e prendere atto che, ancora una volta, con la giustizia non si scherza.
Prima tuttavia di abbandonare la postazione d’imputato, alla quale mi sto quasi affezionando, chiedo a questo onorabile consesso il favore di una spiegazione, proprio una mia curiosità personale, perché è l’unica cosa in tutto il contesto che non riesco a cogliere con chiarezza, e ‒ cosa volete fare! ‒ se io non colgo le cose con chiarezza, poi non digerisco i pasti e passo le notti insonni.
Mi è stato detto, anzi mi è stato addebitato, che le prove da me portate avrebbero dovuto essere nuove e convincenti. Sicché ora io qui mi chiedo: come fa una cosa essere nuova e contemporaneamente convincente? Perché a me sembra che una cosa sia nuova quando ancora non la si conosce; subito dopo averla saputa sarà magari convincente o meno, ma non è piú nuova.
Allora io penso di dover intendere diversamente quel che l’egregio avvocato voleva dirci, e che forse, cercando la sola sbrigatività, non gli è riuscito di dire bene: che le prove addotte non appaiono nuove rispetto ad altre piú vecchie che evidentemente dovevo avere già esibito in precedenza. Ma se quelle vecchie non ebbero allora il crisma del convincimento, come potrebbero averlo ora queste ultime se simili alle precedenti nel fatto della non-novità?
Chiedo quindi all’illustre esperto di questioni giuridiche, ma anche tutti voi signori competenti in materia qui intervenuti, se una prova vecchia, riproposta ex novo, possa essere altrettanto convincente di una prova nuova il cui grado di convincimento è ancora da stabilire, ovvero se, viceversa, una prova del tutto nuova abbia in sé un potenziale di affidabilità pari a quello già esperito sí, ma attraverso una probatiodesueta. Perché da quel poco che posso capire, a causa della mia incompetenza in materia, il nuovo e il convincente sono due concetti che non viaggiano mai sullo stesso piano: vi sono cose vecchie che non hanno mai convinto nessuno, come vi sono cose nuove che portano in sé un grado di convincibilità cosí forte da contagiare anche quelle vecchie e creare in esse uno spiraglio mai prima supposto.
Sappiamo e diamo per scontato che “di notte tutti i gatti sono bigi”, che “in assenza del gatto i topi ballano”, e che “tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino”.
Ci sono degli assiomi, ossia princípi generici, nella cui validità poter credere; ma possiamo forse noi riferirci ad essi e usarli per misurare volta per volta specifiche situazioni, come queste nostre, in rilevante contrasto? Se lo facessimo, ci troveremmo di fronte l’implacabile avvocato dell’accusa, che, e io dico in tal caso molto giustamente, non ce lo perdonerebbe mai e non mancherebbe di dimostrare in quattro e quattr’otto che i gatti bianchi o rossi rimangono tali anche a notte fonda, che il ballo dei topi non è assolutamente rapportabile alla presenza di uno o piú felini, né che tampoco una gatta debba restare monca per essersi procurata un pezzetto di cibo.
Tutto ciò potrebbe certo essere avvenuto, una o anche piú volte nella storia del mondo, e dal momento che in esso succede di tutto, non v’è motivo di pensare che non sia successo anche questo. Ma noi qui abbiamo bisogno di prove, e non basta, nossignori, perché esse potrebbero essere valide ma vecchie, oppure nuove ma inaccettabili. E tuttavia dovremmo in tutti i casi mantenere integri i riferimenti, sia pure allegorici e astratti, al principio giuridico, non essendo noi in grado di provarli come fatti spontaneamente accaduti. Al mondo, cari signori, ci sono molte cose che vanno prese alla lettera, ma ciò non significa che il prenderne alla lettera alcune s’identifichi in via automatica con il conferire la patente di verità a tutte le altre.
No, per quanto lo si riguardi, il presupposto vincolo concettuale tra il nuovo e il convincente non solo non è di per sé logicamente valido, ma è anche privo di qualsiasi fondamento discorsivo, dialettico o giuridico che dir si voglia. Non attiene ad alcun principio né allegorico, né astratto né pratico. Il suo valore sta unicamente nella roboanza e nell’impetuosità della foga oratoria con la quale è stato esibito, come vien fatto nei giochi d’illusionismo per catturare l’attenzione del pubblico meno provveduto.
Questo simile espediente è stato qui usato ad arte, contro di me e le mie teorie, con la sicurezza che peso, autorità e scioltezza di lingua bastassero a plagiare le opinioni dei presenti, o almeno di quella parte di essi che, di bocca buona, se ne fossero accontentati, e che la vertenza poteva quindi chiudersi fin dall’inizio.
In tal caso però ci saremmo posti al di fuori e al di sotto della norma della vis capiendi; saremmo caduti in quella teatralità di bassa lega che per mascherare la propria inconsistenza deve ricorrere all’uso di effetti speciali.
Tutto ciò riconosciuto, purtroppo per la parte o le parti coinvolte in simile atteggiamento ‒ non certo ispirato da Dike (Giustizia) né da Sofrosine (Conoscenza) ‒ crollata una volta la logica d’ouverture, quanto ne deriva in conseguenza, fosse anche l’arringa piú splendida e geniale, viene travolto nel disastro e non ne esce piú. L’effetto domino non è un espediente teatrale, quando si verifica funziona in tutti i campi e nessuno può porvi riparo.
Per cui, mentre ora l’accusa cercherà di recuperare un filo conduttore adeguato alle sue fumose istanze, io sono qui a ribadirvi l’imminenza di una catastrofe ecologica su scala planetaria. Essa è alle porte, e il bisogno di prove nuove o di convincimenti speciali, quando sentirete la terra tremarvi sotto i piedi, verrà inghiottito dall’insana, vanagloriosa cecità con la quale è stato fin qui tentato d’impedirmi diffondere la comunicazione».
L’intermezzo descritto ha tolto molto spazio all’articolo, al punto che viene da chiedersi cosa tutto questo c’entri con il mistero della Tomba Vuota. Eppure sono molti i riferimenti che si possono trarre dal quadretto del legal-thriller, e che ricadono nella situazione in cui è venuta a versare la vita dell’anima umana nei tempi correnti. Sarà sufficiente coglierne due aspetti per poter formare una prima visione d’insieme valida ed esplicativa: la presunzione umana che occlude la capacità di pensare, di sentire e di volere in modo chiaro, naturale e pulito, obbligando le tre funzioni ad interagire solo secondo le brame e le fobie dell’ego; e di conseguenza la cecità generale per la quale riesce impossibile, oggi come oggi, intravedere la reale priorità e urgenza dei problemi collettivi, tenendo ben presente che prima d’ogni altra cosa essi sono vissuti dalle singole individualità.
Queste cause bastano a cogliere la terribile prova cui viene sottosta l’anima umana che, tormentata e confusa, si aggira in una Tomba rimasta Vuota? Secondo me sí. Credo che l’allegoria sia comprensibile e credo anche rispecchi la caratteristica evolutiva epocale: una repulsione contro lo Spirito, cosí potente da tendere alla regressione; poco infatti ci manca. Tuttavia, in questo marasma generale, non dobbiamo perdere di vista la soluzione, dato che non si dà problema che non sia umanamente sostenibile, affrontabile e risolvibile.
Per tradizione religiosa, se non per fede coltivata, siamo in grado di ricordare, non dico riconoscere, nella Tomba rimasta Vuota, la Luce della Resurrezione. Da duemila e passa anni Essa sta illuminando il cammino degli uomini, e quel che ciascuno in cuor suo saprà elaborare misurandosi su quel paradigma è frutto di un’azione capace di sovvertire di colpo la situazione negativa in atto, qualunque essa sia e comunque si presenti; la rivivifica nell’impegno e nel calore delle forze ridestate dell’anima.
Il segreto della Tomba e il segreto dell’ anima sono congiunti infatti da un’unica verità. Si può ignorare, sviare, dimenticare, omettere e avversare, nel precario miracolo di una libertà non ancora resa tale nel pensiero che la pensa. Al quale si può pervenire attraverso infinite strade. Quando tuttavia ho creato, quasi per gioco, lo strano mixage prestando il genio di Socrate allo scienziato dialetticamente sconfitto, intendevo evidenziare proprio questo catalizzatore decisivo, tanto determinante quanto essenziale, dal quale può balzar fuori la Vittoria proprio nel momento meno immaginabile; cosí come dall’emicrania di Zeus, saltò fuori un tempo, la Dea Atena, armata di tutto punto: la coscienza pensante diventa Autocoscienza.
Quanto in merito ci viene dalla Scienza dello Spirito offre questa meravigliosa, splendida, impareggiabile risorsa a chiunque abbia praticato gli esercizi del pensiero con leale assiduità, e continui a farlo con tenace perseveranza. Grazie ad essi, l’equivalente moderno dell’antico daimon socratico può ora riapparire, ma con una marcia in piú, il che, nei tempi precristiani, sarebbe stato impossibile: ossia con una interiorità in cui arde la corrente del Logos, capace, dall’Eternità, di far sentire la sua voce anche là dove forze, speranze e soluzioni sembrano cessate per sempre.
Rinforzata da questo pensare esercitato verso lo Spirito, ovvero attinto dall’essenza della sua stessa Essenza, l’anima umana è in grado di non temere piú nulla, né consimili, né oggetti, né situazioni critiche che ne derivino. Sa d’essere qui per questo.
Può incontrare alfine il Mistero della Tomba Vuota, in quanto le è evidente di cosa riempirla. E comprende anche come e di cosa svuotarla, quando il suo momento culminerà nella perfezione.
Angelo Lombroni