Melissa e Amaltea erano due ninfe boscherecce che frequentavano la Selva Ercinia, l’immensa foresta di querce, frassini e castagni che marca il confine tra le terre dei Latini e l’Etruria, oggi Lazio e Toscana, con l’Umbria a far da cuscinetto con i suoi aneliti di santità, spazi di fuga verso il cielo, sempre blu di Sèvres, e con gli struggimenti per le libertà marine che le mancano. La geografia è impietosa, ma la mitologia addolcisce le grandi rinunce con i suoi misteri. Ebbene, le due ninfe, riferisce appunto il mito, un bel giorno suscitarono l’interesse di Ercole, un semidio sempre alla ricerca di occasioni per dare prova della sua smisurata forza. Difficile capire in che modo a un tale superuomo potessero interessare due creature elementari, leggiadre sì, ma inconsistenti, poca materia e molta suggestione, nulla che potesse aggiungere un valido trofeo al già vastissimo repertorio di strabilianti imprese compiute un po’ ovunque nel mondo antico, che non era ancora quello moderno ma pure non scherzava per la sua estensione dall’Asia all’Iberia, dall’Egitto agli Iperborei. E infatti, quello che capitò all’Eroe transumano nella regione di cui si tratta non fu a causa delle due ninfe, che per la cronaca neppure riuscì a trovare, ma gli venne dalla sua stessa rinomanza di uomo erculeo, dotato di una forza smisurata cui nulla poteva resistere. Non ci crediamo, dissero gli abitanti delle città e dei borghi che sorgevano tutt’intorno al Monte Cimino, un antico vulcano estinto e ricoperto da foreste talmente impenetrabili che neppure i lupi vi trovavano ricetto.
Ebbene, a una tale provocazione, lui, il ripulitore delle stalle di Augias, il vincitore di Nemeo, dell’Idra di Lerna, del Centauro Nesso, non poteva lasciar cadere la sfida. Non credete alla mia forza semidivina? Ebbene, vediamo se riuscite a svellere dalla roccia di questo monte la mia clava. Detto fatto, con un gran colpo l’eroe infisse la sua clava ben dentro il masso della montagna. Poi Ercole, con lo sguardo fiammeggiante, sfidò i più forzuti del luogo ad estrarre la clava. Niente da fare. Vennero anche dai paesi vicini, accorsero da ogni dove guerrieri e maniscalchi, scaricatori e nobili cavalieri. La clava rimaneva ben salda nella roccia. A quel tempo, non era stata ancora elaborata la favola del povero, smilzo, sparuto garzoncello che estraendo la mitica spada Excalibur diventava re col nome di Artù dando vita alla saga del Graal. Si era allora in pieno regime precristiano, vigendo forze ed entità telluriche e non solari. Nessun Artù in divenire strappò dal tufo fescennio la clava del supereroe. Il quale irascibile e poco sportivo, irrise i poco dotati che ci avevano provato e con gesto teatrale sfilò con un solo strattone la clava dalla roccia, la brandì, la fece roteare e la scagliò nella terra, che si aprì in un profondo cratere. Nasceva così il Lago di Vico, un catino di acqua limpidissima e pura, che dalla superficie cerulea a ciel sereno, argentea con nebbia e nuvole, scende a una profondità di 507 metri, un record, dicono, per un lago di montagna. La clava è rimasta lì, perché Ercole aveva di questi gesti di megalomania. O forse perché si era ricordato che lui era lì per le ninfe e non per gareggiare con gli umani. E poi, di clave ne aveva altre. Che quella servisse da monito e memento a chi aveva osato sfidare un dio. Ma esperti geologi, insieme ad astronomi e astrofisici, dopo approfonditi studi e accurate indagini, rifuggendo, come è nel loro credo, ogni illazione metafisica o trascendentale, hanno stabilito che quella che si riteneva clava di un semidio altro non è che un meteorite caduto illo tempore (qualche milione di anni fa) causando un sisma catastrofico che ha destato un vulcano dormiente il cui cratere, raffreddatosi, ha inglobato il dardo meteorico. Ma gli umani del posto, irriducibili fautori e consumatori di favole e sogni, com’è nel loro sentire, hanno ritenuto che quello sperone di roccia conficcato nello specchio del lago, ora smeraldo ora turchese, sia un segno dell’amore che terra e cielo vivono dal primo attimo della vita creata e lo hanno dedicato alla dea dell’amore, il monte di Venere, appunto. Vi colgono more, fragole e mirtilli. E non siamo nelle terre degli Iperborei, ma nella Tuscia, a pochi chilometri da Roma. Un altro mondo.
Elideo Tolliani