Per andare da Roma verso Nord – prima che i cavalli equini a quattro zampe fossero sostituiti dai cavalli motori a quattro ruote, e che le Sette sorelle, per incentivare il consumo di petrolio, li sfrenasse in un tobogan cementizio di autostrade e superstrade, incaprettando il Paese in un mastodontico, ridondante, cervellotico intreccio di ponti, viadotti, snodi e svincoli e campate alla Escher – si prendevano, da Ovest a Est, l’Aurelia, la Clodia, la Cassia, la Flaminia, la Tiberina, la Salaria. Per andare in Etruria, ovvero Tuscia e Toscana, la Cassia era, e rimane, evitando l’A1, la via di elezione. A metà del percorso tra Roma e Viterbo s’incontra Sutri. Per quanto riguarda la storia, sappiamo che questa cittadina fu fondata dagli Etruschi, latinizzata a forza dai Romani, come avvenne per le altre città etrusche, costituita infine in municipio. Etrusca o romana che fosse, non poté mancare di costruirsi un rispettabile anfiteatro per venationes e ludi gladiatori, i cui resti, in condizioni assai buone, sono visitabili nella parte a valle dell’abitato, dove corre il tracciato della via Cassia. Sempre qui, a filo della rotabile, un tempietto, ricavato da un ipogeo etrusco, è dedicato alla Madonna del Parto. In questa regione non è infrequente una forma di pagurismo che ha utilizzato tombe singole, in tempi non lontani finanche intere necropoli, templi e adyton di Sibille come stalle, ovili, ripari per eremiti o per disadattati solitari, e nei casi piú nobili e rari, riadattati a cappelle e tempietti rurali, come appunto la chiesetta ipogea dedicata al culto della Madonna del Parto.
Ma lasciando le notizie storiche, in certa misura di dominio pubblico, è interessante sapere che questa defilata cittadina tosco-laziale, arroccata su un poggio tufaceo – anche in questo non dissimile dai centri abitati dei Rasena, come amavano anche farsi chiamare gli Etruschi, poi feudo a periodi alterni delle casate nobili, borghesi, papaline che se ne disputarono il possesso fino a Porta Pia, con armi, matrimoni, carte araldiche e bollate – ebbene questa discreta e appartata cittadina della gens fescennia ha dato i natali a Ponzio Pilato, personaggio controverso ed enigmatico della storia del Cristianesimo.
Ponzio Pilato, fino al suo ingresso nella storia, era uno dei tanti rampolli dell’aristocrazia provinciale, mandati a Roma non soltanto a studiare legge e retorica ma soprattutto per scozzonarsi, entrando nel giro della buona società per impararne gli usi e anche per trovarvi una moglie presentabile, istruita e con una buona dote. Il denaro era necessario per seguire il cursus honoris, con le amicizie giuste, quelle che gravitavano intorno al sole del Palazzo imperiale, se ne riscaldavano e magari gli aprivano la strada per accedere ai salotti buoni, da qui arrivare poi alla cerchia di Cesare. Claudia Procula era il partito migliore per i suoi progetti: bella, applicata con lode agli studi che egli stesso frequentava, sarebbe stata un’ottima moglie per aiutarlo a metter su famiglia, e soprattutto aiutarlo nella carriera forense. Ma Ponzio propone e Cesare dispone. Non aveva neppure mostrato il papiro di laurea a parenti e amici che dal Palazzo imperiale gli giunse la voluntas imperiale che gli ingiungeva di recarsi con urgenza a Palazzo per importanti notizie che lo riguardavano. Tiberio si trovava a Napoli e il funzionario che lo ricevette si scusava a nome dell’imperatore per la sua impossibilità a comunicargli di persona, come il protocollo avrebbe richiesto, la sua nomina a prefetto della Giudea. Gli si richiedeva discrezione e massima sollecitudine nell’eseguire l’ordinanza, approvata a maggioranza dal Senato. A Ostia era pronta la triremi per portarlo a Tiro. Aveva due giorni di tempo per salire a bordo. La situazione in Giudea non consentiva indugi. Era precipitata da quando, morto Erode il Grande, il regno era stato ridotto a provincia. In piú, Tiberio aveva decretato il bando degli Ebrei da Roma. La rivolta perciò serpeggiava, esplodendo in atti ostili contro il governo assente e contro il presidio romano che garantiva l’ordine a Gerusalemme, il punto focale del risentimento, che sempre piú spesso sfociava in odio e in violenza fine a se stessa. Matrimonio burocratico quindi, senza festa né musica. Due giorni dopo, dava la mano a Claudia su per la passerella della nave militare. Lei, a metà della salita, si arrestò per fissarlo con uno sguardo che voleva essere di sfida e auspicio insieme. Recitò il giuramento nuziale: «Ubi Caius, ibi Caia!» Poi furono tolti ormeggi e i remi s’immersero nell’acqua scura che si aprí schiumando. La prua della grande nave puntò verso l’orizzonte che fiammeggiava. Il faro di Anzio brillò dalla costa gareggiando in lucore con le prime stelle e con i falò accesi nelle fattorie costiere. Vale, alma Roma!
La Palestina era come gliel’avevano descritta: a settentrione la Galilea con il suo lago, che i locali definivano mare, un territorio fertile che un po’ gli ricordava la Tuscia, poi la Samaria, con il Garizim, una montagnola ritenuta sacra dagli abitanti, gente considerata dai popoli viciniori, specie dai Giudei, alquanto eccentrica per usi e costumi. E poi, a sud, la Giudea, che a vederne il territorio dall’alto di Gerusalemme, era una pietraia che si estendeva a perdita d’occhio dalla Valle del Cedron fino al deserto d’Arabia. Dal Cimino, a casa sua, la Tuscia appariva un mare di verde, foreste tanto fitte e intricate da smarrire il viandante incauto. Il deserto di Giudea appariva invece un oceano di pietre. Eppure, in quel tumulto di sassi e polvere scorreva il Giordano, una vena di refrigerio e conforto che attraversava tutto il territorio della Palestina, dal confine col Libano fino a perdersi nella caldera salina del Mar Morto. Il corso del fiume a tratti colmava avvallamenti del terreno formando pozze cristalline, spesso della grandezza e con la praticabilità di vere e proprie piscine. In una di queste, gli dissero, un certo Giovanni, una specie di eremita predicatore, battezzava immergendo i neofiti nell’acqua del fiume. Di quale religione facesse parte il rituale non era chiaro. E neppure, pensò Pilato, valeva la pena indagare. Tutto ciò di cui doveva occuparsi, stando nella Fortezza Antonia, il presidio del potere di Roma in Gerusalemme, una costruzione della stessa pietra del deserto, era di dirimere le questioni politiche nell’interesse di Roma, e quelle riguardanti l’ordine pubblico. Fungeva cioè da magistrato, procuratore e comandante. Per sua fortuna, non doveva occuparsi delle questioni religiose, di esclusiva pertinenza del Sinedrio, allocato presso il Tempio, nella Cittadella poco distante dalla Fortezza Antonia.
Cosí iniziò la sua vita in Palestina. Una vita in definitiva monotona, tutta casa e pretorio, il tribunale che dava sulla spianata del Tempio. Finché un giorno di aprile dell’anno 33 dell’era volgare, il Sinedrio non condusse al pretorio un uomo ammanettato, perché lui lo giudicasse e lo condannasse. La colpa? Aveva, dissero, bestemmiato, affermando di essere figlio di Dio. E allora? Materia del Sinedrio. Ma poi si è proclamato re, una minaccia al potere di Roma, quindi materia del procuratore imperiale. Una condanna a morte, sarebbe il caso. Quel giorno di aprile, Pilato, uscendo dal cliché dell’anonimo personaggio seriale, entrò di forza nella grande storia.
E non lo fece con un’impresa eclatante, tipo l’uccisione del Minotauro da parte di Teseo o la conquista di Veio compiuta da Furio Camillo. Ponzio Pilato entrò nella grande storia scambiando poche battute con quell’uomo che aveva fatto il suo ingresso il giorno prima in Gerusalemme cavalcando un asino preso in prestito. Il Sinedrio lo accreditava di un occulto e perverso potere di seduzione e sobillazione del popolo, che lo aveva acclamato agitando rami di palma e tributandogli un trionfo degno di un re.
Che il sommo sacerdote e gli altri membri del Sinedrio potessero temere un uomo simile, lo stupiva.
«Dunque tu sei re?» chiese in tono ironico Pilato fissando quell’uomo.
«Tu lo dici. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è della verità, ascolta la mia voce».
«Che cos’è la verità?» insistette Pilato.
L’uomo non rispose alla domanda. Allora Pilato si affacciò al rostro del pretorio e alla folla che tumultuava annunciò: «Io non trovo in quest’uomo alcuna colpa».
Il resto della storia è tristemente noto, primeggia nello sconfinato repertorio delle umane follie.
Gli esegeti testamentari, gli studiosi delle Scritture, hanno variamente e mai equanimamente giudicato il comportamento del procuratore romano di Giudea. I giudizi vanno dal cinico al distratto, persino al vile. Occorre semmai giudicare Pilato proprio sulla base del suo essere etrusco prima che romano. E pertanto da buon pragmatico Pilato non riusciva a capire come mai si potesse dare tanta importanza alle questioni religiose, come facevano i Giudei ad esempio, al punto da stilare decaloghi di condotta per ogni azione della vita, anche la piú prosaica, come fissare i cibi leciti e illeciti, stabilire l’aspetto puro o impuro di un oggetto, di una persona o di un animale. Spingere poi l’assimilazione umana alla natura divina al punto di credere possibile l’incarnazione di un dio in un mortale, ebbene tutto gli pareva assurdo. E piú ancora gli pareva esagerato condannare quell’uomo che era davanti a lui in attesa di conoscere la sua sorte perché si era dichiarato figlio di Dio. Semmai, riconosciuta palese la sua follia, piú che giudicarlo e condannarlo, persino alla morte, andava lasciato smaltire il suo delirio, vagando nella Valle della Gehenna insieme agli altri dementi e mentecatti.
Eppure, quello strano uomo non era sembrato un pazzo in preda a un delirio di onnipotenza. Il suo parlare di verità in termini assoluti, inderogabili, inequivocabili, ne asseriva la sanità mentale. Pilato, benché da etrusco disincantato e pratico ne fosse diffidente, da stoico qual era, come tanti intellettuali a Roma in quel periodo, era sedotto da qualunque possibilità di indagare la recondita natura delle cose. Non come Lucrezio, per negarne la possibilità di trascendere la materia bruta, bensí, nella scia dei neopitagorici, per scoprirne l’essenza divina. E quell’uomo diceva di essere possessore della verità. Ma di quale verità parlava? E se esisteva, in che modo conquistarla? Ricordava che Seneca affermava: «La verità è accessibile a tutti, non è dominio riservato di nessuno e il campo che essa lascia ai posteri è ancora vasto». Ossia, la verità è una, per tutti gli uomini uguale e disponibile, ma diverse sono le strade per raggiungerla. E inoltre ammoniva: «Se vuoi credere a coloro che penetrano piú profondamente la verità, tutta la vita è un supplizio. Lanciati in questo mare profondo e tempestoso, agitato da alterne maree, e che ora ci solleva con improvvise impennate, ora ci precipita giú con danni maggiori dei presenti vantaggi, e senza sosta ci sballotta, non stiamo mai fermi in un luogo stabile, siamo sospesi e fluttuiamo e urtiamo l’uno contro l’altro, e talvolta facciamo naufragio, sempre lo temiamo; per chi naviga in questo mare cosí tempestoso ed esposto a tutti i fortunali, non vi è altro porto che la morte».
La folla aveva gridato: «Crocifiggilo!» in risposta alla sua dichiarazione di innocenza di quell’uomo. Per guadagnare tempo, lo aveva inviato da Erode, tetrarca della Galilea, essendo il presunto reo di blasfemia contro il dio dei Giudei e di sobillazione antiromana, un galileo di Nazareth.
Eppure, mentre lo trascinavano via dal pretorio, Pilato aveva notato in lui come una segreta volontà di offrirsi al martirio, una noncuranza delle offese e dei tormenti. Mentre il corpo marcava i segni delle percosse e dei colpi di flagello, il suo sguardo era come un diamante puro, incorruttibile, e chi incrociava con i propri quegli occhi, veniva trascinato senza difesa nella profondità di quel mare di cui parlava Seneca. Ma era un oceano d’infinità senza tempeste, fermo nella calma dell’eternità.
Come temeva, Erode glielo rimandò. Ciò per compiere quella parabola dell’esito mortale, l’unico porto lasciato a chi avesse deciso di penetrare a fondo la verità. E anche la folla che gli aveva preferito Barabba per l’ipotesi di salvezza, sembrava obbedire a un segreto disegno affinché quell’uomo compisse fino in fondo il compito di riscattare, con la sua morte, non un popolo, ma tutta l’umanità. E lui, Pilato, essendo nel suo ruolo al contempo procuratore, giudice e sacerdote, a imitazione del pontefice massimo di Roma dopo un sacrificio, chiese l’acqua lustrale per detergere simbolicamente dalle sue mani il sangue della vittima che veniva offerta, anzi in questo caso si offriva, per il trionfo della Verità.
Quando tutto fu compiuto, dopo il terremoto che aveva squarciato il velo del tempio e la tempesta che si era scatenata, tornò una grande pace sulla terra. Sua moglie Claudia piangeva, nella convinzione che il Cristo era stato sacrificato, come tre anni prima il Battista, per nient’altro che la proclamazione della verità con voce alta e forte. Anche lui navigante del mare profondo e tempestoso che si offre come unico rifugio possibile a chi renda testimonianza della verità.
Pilato e sua moglie Claudia Procula, diventati cristiani, vennero richiamati a Roma ed esiliati da Caligola in Francia, a Vienne. Anche Erode e la moglie usurpata al fratello, Erodiade, finirono in Francia, esiliati a Lungdunum, preso Lione. Pilato morí nel 39 d.C. Erode un anno dopo. Intrecci occulti di un destino parallelo. Esecutori, con diversi intenti e modi, dello stesso disegno universale.
La domanda di Pilato «Quid est veritas?» è dialettica, viene da una speculazione filosofica, non dalla consapevolezza che essa è insita nella natura profonda dell’uomo, di ogni uomo. Si potrebbe quindi chiarire il quesito con l’asserzione: «Veritas est». Ossia la verità è, e cercarla è compito dell’individuo che pensa, sente e agisce.
I Giudei sapevano che Erode era un dissoluto, che aveva tolto la moglie Erodiade a suo fratello Filippo e che concupiva sua nipote Salomè. Di essere corrotto era egli stesso consapevole, e ne era edotto il popolo. Ma il potere ottunde la verità, ne tarpa gli effetti dirompenti. È come una carica esplosiva potentissima, latente nella coscienza collettiva, ma disinnescata dall’apparato repressivo che il potere, ogni potere, ancor piú se assoluto, mette in opera perché la verità non esploda. La gente tenta di ignorarla, per viltà, per quieto vivere o peggio per ricavarne vantaggi facendosi complice del potere. Poi arriva il profeta, il taumaturgo, che predica per le strade, sulle rive del fiume, da un poggio o da una rupe nel deserto. Si verifica cosí la rispondenza tra la verità del reale e quella giacente in narcosi nella coscienza di chi l’aveva ripudiata. La verità fa allora piazza pulita di tutte le menzogne messe in atto dal potere, che spaccia false verità per delegittimare quelle vere.
Tempo fa, un’eminente personalità femminile della politica ha elencato alla TV quelle considerate da lei, e dalla casta, le maggiori bufale mediatiche circolanti sul web, invitando, anzi ammonendo la gente a non prenderle per vere. Un elenco di menzogne ben orchestrate a livello globale. Viva serena la signora che le ha elencate: se sono vere bufale, si sgonfieranno senza colpo ferire il potere e chi lo detiene. Ma se, come ne siamo certi, sono vere, entrano in corto circuito con la coscienza collettiva, innescando un processo reattivo capace di risvegliare nell’Io profondo degli individui l’esigenza vitale della verità. Allora non c’è potere che riesca a impedire la deflagrazione del sistema. Poiché la verità possiede un suo potenziale dirompente da opporre a quello narcotizzante del potere. Soffocata nelle vie e nelle piazze, verrà predicata dai tetti.
Si può fermare il web, Facebook, Twitter, i blog, chiudere le reti Tv e le testate dei giornali antiregime. È già stato fatto. Ma non funziona. Poiché la verità è la fiaccola sotto il moggio, è il venticello che spira e può diventare una tempesta, è la nemesi inarrestabile che si fa gioco di ogni repressione. Se tarpata per legge, la verità entra nel dna della gente, diventa psicogenetica, passa dalla coscienza ai gesti, alle parole, alle idee di ogni individuo. Poiché la verità ci è piú necessaria dell’aria che respiriamo, del cibo che ci nutre. Senza verità, si muore. Poiché, se la via passa solo per la menzogna, non potrà portare che alla morte della civiltà. «Hoc est veritas», per Pilato, per tutti noi.
Ovidio Tufelli