…Perché, dopo il nostro recente incontro al ristorante, cose molto importanti sono rimaste in sospeso. Provo l’urgenza di un chiarimento di fondo, nel tentativo, non dico di risolvere, ma almeno di smussare le nostre reciproche posizioni e accedere, se possibile, a una visione maggiormente allargata della questione. Pare che a volte, cosí facendo, si apra la via a una sinossi forse anche integrativa, precedentemente impossibile.
Ma bisogna arrivarci per gradi, e scrivere credo sia la cosa migliore per realizzare il proposito.
Il fatto che ci conosciamo da un sacco di tempo, ed essere consapevoli di aver indirizzato da decine di anni le nostre vite verso la Scienza dello Spirito, rende ancora piú spinoso il problema sorto or ora che, ovviamente, deve aver covato un bel po’ se nel saltar fuori all’improvviso, come uno di quei diavoletti in scatola caricati a molla, ci ha sorpreso entrambi, lasciandoci pure un gusto amaro in bocca, in notevole contrasto con quel che di buono abbiamo mangiato.
Sembra quasi che la vertenza avrebbe potuto trovare maggior giustificazione se uno di noi fosse stato un materialista qualsiasi, o una di quelle tante persone che al giorno d’oggi sanno rendersi sordi e ciechi al proprio mondo interiore; invece, per nascere da anime che hanno sin qui seguito due percorsi qualificativi paralleli, la nostra contrapposizione appare tanto piú incredibile e ingiustificata; ci fa capire che evidentemente non tutto di noi è venuto a galla, nonostante la dedizione e la perseveranza alla causa comune.
Secondo me, l’accaduto ci offre adesso la possibilità di un arricchimento riflessivo ed è quindi, teoricamente, un bene. Ti scrivo infatti nella speranza d’attuarlo.
Anzitutto è necessario definire, scolpendolo con precisione, il punto incriminato che sul momento ci ha scoperti su due sponde opposte. Prendo di peso la tua affermazione cosí come l’hai esternata: «Una persona davvero religiosa e osservante deve saper anche morire per la propria fede. Se minacciandomi di violenza (veramente tu qui hai detto “sotto tortura” ma non credo sia il caso di turbare emotivamente l’immaginazione) o di morte, io venissi sottoposta all’alternativa di salvarmi solo rinnegando tutto ciò in cui credo, ti dico che preferirei morire piuttosto che farlo. Non so se ne avrò la forza, ma dal momento che ne parliamo, ti manifesto chiaramente la mia opinione. Sono convinta che il principio sia giusto; provo nell’anima un impulso di forza e di candore che mi spinge a questo, e se non lo rispettassi mi sentirei veramente un essere spregevole per il resto della mia vita».
Lí per lí, lo ammetto, non ho saputo rispondere; il vigore che sottendeva la tua frase cosí come l’avevi pronunciata, era riconoscibilmente onesto; sapevo che non baravi, ma contemporaneamente, che vuoi che ti dica, la mia natura piú intima e sicuramente piú poliedrica, restava sconcertata e anche preoccupata per quella dichiarazione che, nella mia vita, ho già sentito risuonare da piú parti e in molti luoghi, e che non ha mai portato un soffio di pace e di vera fraternità al mondo degli uomini, ma di cui tuttavia è sempre certa potersi esibire in ampie dimostrazioni pratiche.
Sai, molto tempo fa, avevo anch’io questo tipo di turbativa; anzi, ci vivevo dentro e mi chiedevo con una certa angoscia: “Fino a qual punto è giusto… ecc.”. A volte mi pareva una cosa, a volte un’altra, ma nulla era determinante e solido. Annaspavo e basta.
Quel tipo di situazione interiore (ora capisco) segnava il passaggio tra uno stato d’animo e uno stato di coscienza; mi era sorta allorquando volli con una certa decisione affrontare la questione del Cristo.
Fino a quel momento, sarò stato magari un bravo steineriano e un attento scaligeriano, ma sul tema “il Cristo in me” non ci avevo ancora messo mano. Mi accontentavo di ritenerla un’enclave di atavica fede impartitami fin da piccolo; ma ora, da grande, dedicandomi poi all’Antroposofia, beh, mi dicevo senza dirmelo, la fede restava una roba da puericultori; ero passato a una classe superiore, e quindi mi sentivo impegnato su cose piú importanti della semplice catechesi.
In qualche angolo di me, te lo confesso, stagnava tuttavia un cruccio malcelato; il pensiero che – indipendentemente da ogni forma di culto e di fervore mistico – ci sia stato, in un dato momento della storia, un Uomo-Dio che per amore dell’umanità intera, presente e futura, compresi detrattori e carnefici, fosse salito volontariamente sulla Croce: ebbene! il minimo che avrei dovuto fare era sostenere la Sua figura in me con forze vive e riconoscenti dell’anima e del pensiero.
Ma questo bel proposito se ne restava invece lí, appeso al muro come un calendario illustrato; il memento di un qualche cosa che in fondo bastava tener presente; per il resto non c’è fretta, si può anche rimandare. Ero convinto di non avvertire alcuna urgenza.
Fintanto che una notte mi svegliai, scesi dal letto e scrissi una poesia, o qualcosa di simile, in quanto digiuno di metriche e rimari; mi limitai a buttar giú poche righe cosí come mi passavano per la testa in quel momento, senza neppure capire il loro senso, ammesso che l’avessero. Ma le ricordo ancora e devo dirti che oggi, grazie a te e alla tua esternazione cosí umanamente vitale e incisiva, mi suonano piú che mai portatori di una chiave di lettura essenziale per cogliere il tema nel pieno della sua centralità.
Te le riporto solo per l’ultima parte, perché è quella che può qui interessare:
…Ma quel falegname che a Nazareth nacque,
ben piú parlerà poi che si tacque.
Essere umani non è esser prodi;
male s’accorda la carne coi chiodi.
Nessun re mai e nemmeno regine,
s’incoronarono con delle spine.
Che tu abbia ragione o che abbia torto,
lascia che parli chi non è morto;
lascialo dire ancora quaggiú,
che sveli i peccati, che sproni a virtú.
Al cerebro tuo d’intellettuale,
non sarà lui a farti del male.
Nel letto del cosmo, scorre un gran fiume,
a chi lo percorre non basta l’acume;
là ogni ragion vi può naufragare
perché è lontano il libero mare.
Se di quel fiume tu vedrai la fine,
conoscerai la frusta e le spine;
se di quel fiume tu vedrai la foce,
conoscerai la morte e la croce.
Ma prima guadagnati il pan della fame!
Vai a bottega, fai il falegname,
e pesta e pialla quel tronco di noce,
ché tanto per altri sarà quella croce!
Cosí da profeta cessò quel discorso
che in me suscitava orrore e rimorso,
e rabbia e disgusto ora stavano a pari
in un lercio sacco con trenta denari.
Fu un colpo di vento che porta richiuda:
su quella porta il nome era: Giuda!»
Perché la tua affermazione, impetuosa e sublime nella sua tragicità, mi ha riportato alla mente quei versi tratti da un momento particolare del mio cammino interiore?
Credo sia per il motivo che come esistono i percorsi paralleli, debbano anche esistere i passaggi obbligati. Non scopriamo il Cristo in noi se prima non scopriamo il Giuda che c’è in noi. Questo si può verificare in molti modi; anche col millantato credito dell’incauto adoratore.
Questi modi si focalizzano nel mistero che aleggia attorno al supposto potenziale della propria spiritualità. Domandarsi “Nel caso succedesse questo o quest’altro… sarei io capace di comportarmi cosí o cosí?” potrebbe essere un utile esercizio meditativo, ma non bisogna mai dimenticare che il demone dell’autoincensamento ci può rubare la regía, e allora questo domandarsi diventa giorno dopo giorno un compiaciuto trastullarsi con la propria vocazione al martirio.
L’interrogativo è senza dubbio affascinante e di grande effetto, ma tutto sta a vedere se l’evoluzione terrena, e mi riferisco ovviamente a quella che ogni singolo individuo compie, abbia veramente bisogno di venir sostenuta da modalità fascinose e di grande effetto.
Perché, anche se incommensurabili sul piano di un misticismo autenticato, potrebbero contenere una solenne fregatura. Prima di tutto, per il motivo che uno dei rischi piú insidiosi cui è esposta l’anima è quello di configurarle rappresentazioni tanto eclatanti ed esaltative quanto del tutto inesistenti e prive di qualsiasi fondamento, pur di distoglierla dall’assolvimento dei piccoli compiti quotidiani in cui potrebbe far valere e affinare le sue facoltà.
In seconda battuta, perché c’è una frase che non scorderò mai, e che mi ha liberato da varie pastoie preconcette e melense, con le quali tempo addietro amavo misurare il mio valore rapportandolo alla scala dei gesti eroici tratti dalla storia, dalle leggende o dai ricami delle mie fantasie.
L’enunciato è sintetico: “Non è difficile morire da eroi: difficile è viverlo in ogni attimo della vita”.
Non ci saranno applausi postumi, i libri di storia ignoreranno completamente i fatti, e nessuno ne parlerà mai. Ma il valore non è uno spettacolo teatrale che attende l’applauso del pubblico. Un atto di eroismo eccessivamente osannato e illustrato troppo alla lunga solleva di contro a sé distorsioni e avversità. La vita vissuta è diversa da quella sognata, immaginata e talvolta agognata da una fantasticheria fuori controllo.
Che avrei fatto nei panni di Sandokan allorché Mompracen veniva annientata dal fuoco delle cannoniere inglesi? Mi sarei arreso alla perfida Albione con la promessa di onori, di un cambio d’identità, un conto alle Isole Cayman e un esilio di lusso per me e per la bella Marianna? E, fossi stato Amatore Sciesa, avrei proferito ancora quelle parole di magica noncuranza, lungo la via per il patibolo? Cosa avrei fatto della mia vita e dei miei princípi, nei panni di Attilio Regolo? O di Muzio Scevola? Oppure di uno degli eroi di Masada?
Tu mi dirai che questo non c’entra con la tua affermazione e che io tendo a ridurre l’elevatezza del tema a un arido terra-terra che svilisce il tutto e ne stravolge il senso. Può essere; da vecchio sono divenuto ipersensibile su certe cose (fonti interne non trascurabili mi dicono anche un po’rompiscatole) e mi preoccupo quando sento una persona amica, leale e sincera, come tu sei, lasciarsi sfuggire in date circostanze delle dichiarazioni di principio su questioni non certo da poco; stiamo parlando di vita o di morte di fronte all’imposizione violenta e barbarica di abiurare alla propria fede. Posso apprezzare la buona volontà e anche il tuo inciso: «Spero di trovare sul momento la forza di…», che apre uno spiraglio su un panorama ancora indefinito, ma nell’insieme il non rendersi conto che stai proferendo una simile sentenza, a tavola, dopo aver gustato uno dei tuoi piatti preferiti, accompagnato da un delizioso dessert al cioccolato, seguito da un caffè, non mi fa star bene.
Le cose troppo complicate si possono smontare e ridurre a un insieme di cose semplici; ma non è scontato che il contrario sia attuabile sempre e comunque; anzi, una volta smontate, le parti componenti si trovano alla massima distanza da quella che fu la loro realtà integrale.
Siamo Figli di Dio, in ciascuno di noi esiste lo Spirito, umano e individuale. Fare in modo che questo Spirito, attraverso la nostra crescita, si ricongiunga con lo Spirito Padre, Creatore dell’Universo, è una possibilità che andrebbe contemplata in rigoroso silenzio interiore. Congetturarci sopra e disegnare se stessi protagonisti d’un supposto martirio, diventa quasi inverecondo. La vita è ciò che di piú grande abbiamo, e non esistono per ora parole, immagini o rappresentazioni degne di contestualizzarla in teatrini interiori per un autoreferenzialismo che vorrebbe esser d’avanguardia, ma che invece testimonia soltanto una propria caduta verticale.
Del resto, la Salita al Calvario è un percorso che nei secoli si è affollato, anche se la notizia non ha avuto diffusione; chi guarda da osservatore esterno può contemplare e meditare; nessuno tuttavia è autorizzato a giudicare quel che vi succede; né prima, né durante, né dopo l‘atto finale.
Anni or sono mi pare d’averti prestato il libro di Nikos Kazantzakis, L’ultima Tentazione. Ricorderai in sintesi il problema che innesta il racconto. Martin Scorzese, al tempo, ne fece un buon film, ma non ne fu evidentemente soddisfatto, se ora, dopo molti anni, ha voluto riprovarci con “Silence” (Link al trailer), nel quale riprende il terribile tema del dover abiurare per salvarsi la vita, andando addirittura ben oltre il significato che all’epoca ne diede Kazantzakis. Però costoro non hanno saputo offrire piú di quel che l’arte abbia loro concesso; sotto il profilo conoscitivo mi sono sentito piú dentro, piú sensibile alla questione, ma imposto con forza il dilemma resta intatto e straziante; mentre invece tu ed io sappiamo bene che dobbiamo prima uscire dalla zona dei patemi e degli psichismi, se vogliamo dirigerci verso la luce della verità, ben sapendo che, al nostro livello, la verità non ha il compito di risolvere il dramma umano, ma di conferire all’anima le forze necessarie per comprendere, in una espansione allargata, il senso del nostro ruolo nella vicenda terrena.
Maggior interesse e originalità ho trovato in due piccoli racconti: “Olgin, storia di un’Abiura”, di cui
trent’anni fa girava una vecchia fotocopia tra gli amici veneti, e “L’Anacoreta peccatore” di Dino Buzzati. Da entrambi i casi emergono forze umane che, a dispetto di qualsiasi caduta e tradimento, si liberano alte e superano ogni barriera psichica, scavalcando l’ortodossia di riferimento portata secondo natura.
Nel primo, una ragazza cinese, convertitasi al cristianesimo, accetta di abiurare per potersi ricongiungere, dopo morta, ai genitori adottivi che l’avevano cresciuta con amore, e che non erano cristiani; per lei l’idea di andare in Paradiso, e quindi di non rivedere piú i propri cari, era insostenibile; scelse di continuare a vivere nella supposizione che solo da rinnegata li avrebbe potuti un giorno raggiungere.
Nell’altra, Buzzati si spertica nel ritrarre un santo eremita che, sollecitato dal Diavolo, apparsogli nelle vesti del Vescovo, lo induce a commettere ogni sorta di peccato, con la motivazione che: «È troppo comodo vivere nella gloria del Signore facendo l’eremita, in un modo frugale e ascetico, e astenendosi da ogni tentazione. Per amare veramente Dio, dobbiamo anche sprofondare nei peccati piú abietti, e sopportare tutte le sofferenze che la miseria della nostra carne infligge all’anima!». Al povero eremita queste parole parvero illuminanti. Ne combinò di tutti i colori, peccò a 360 gradi, e si tormentò nelle sofferenze indicibili del rimorso, convinto che questa fosse la vera via della santità. Alla fine lo scandalo fu tale che i paesani, ritenendolo non a torto un indemoniato, lo condannarono al rogo. Quando già avvolto dalle fiamme, il poveretto intravide tra la folla il volto sghignazzante del demonio in panni curiali. In un lampo comprese d’essere stato giocato, e quel dolore fu cosí enorme, cosí gigantesco, da non fargli sentire piú nemmeno il fuoco che lo stava finendo. Dicono ‒ conclude Buzzati – che chi in quel momento avesse potuto osservarlo attentamente, avrebbe visto il volto del vescovo-demonio cessare di colpo la superbiosa raggianza di prima e incupirsi fino alla tetraggine.
Come vedi, non credo di dirti nulla di nuovo; gli spunti però aiutano la riflessione. I problemi che la nostra anima è capace di porre in molti momenti, piú che reali nel senso concreto della parola, sono “passaggi” tra stati d’animo e stati di coscienza; accorgersi di questi passaggi è molto piú importante che non correre subito con il pensare, il sentire e il volere a trovare soluzioni per il problema insorgente, come fosse un grave guasto da riparare senza indugi.
In questi casi, il nostro ego non fa altro che comportarsi come un pompiere nevrotico e suggestionato: tenta di eliminare fin dall’inizio anche il minimo sospetto d’incendio. Non sa che piú ne spegne e piú il presagio di nuovi potenziali incendi s’accrescerà in lui a dismisura, fin che lo costringerà alla follia di vedere fuochi da per tutto. Se da questo subbuglio dell’anima egli potesse passare allo stato di coscienza attinente, capirebbe che i fuochi non sono esterni, ma gli nascono dentro, vengono da lui, come panico di una fobia straripata ma ancora non conosciuta. È questa la vera paura che deve venir affrontata, non il simulacro esteriore di cui essa si riveste, onde apparire minaccia reale e concreta.
Sembra strano come anima e coscienza interagiscano tra loro, e come la coscienza veda nel dilemma umano forma e sostanza scambiarsi di ruolo: quello che per l’anima era prima il nocciolo della questione, per la coscienza diviene pura forma parvente, mentre proprio questa diventa ora oggetto di analisi per una coscienza pensante che voglia capirne il senso e l’origine.
Cogliendo l’insegnamento di Massimo Scaligero, godendo della sua personale amicizia con le nostre trasferte romane dei tempi che furono, noi siamo in grado di cercare, volendolo, nei suoi scritti le riflessioni riguardo all’argomento che oggi ci pressa, sorto da una colazione in comune che certamente non supponevamo indigesta.
Corro pertanto il rischio di suscitare in te quel tipo di irrigidimento che nasce quando qualcuno, per meglio illustrare la predica, tira fuori le sentenze dei Maestri (arcinote) e ce le spiattella una ad una; se non vogliamo peccare di scortesia, ce le dobbiamo sciroppare un’ennesima volta. Confido quindi nella tua benevolenza, anche perché non desidero recitarti a memoria frasi e mantra, ma ti racconto esclusivamente quel che ho potuto comprendere in merito e che, come dicevo prima, non riguarda direttamente il dilemma umano in sé, cosí come lo vivi e l’hai esposto, bensí il suo originarsi all’interno di un passaggio (a volte anche lungo, una specie di gestazione) tra stati d’animo e di coscienza.
Il dramma che l’anima dice di vivere non è un dramma se non nel pensiero di cui essa si avvale per costruirselo a suo uso e consumo: non lo è mai, di qualunque situazione incresciosa o tragica si tratti.
Per cui il problema è del pensiero, non dell’anima che lo fa suo; è del pensiero come limite interno, ma non è un limite del pensare, bensí del pensare vincolato all’umanità dell’anima. Lo Spirito si vuole dove ancora non è, la natura umano-terrestre vorrebbe innalzarsi sino ad afferrare lo Spirito; ma tutto questo accade solo nell’essere umano, che deve quindi destreggiarsi e contemperare le due spinte contrapposte che gli vengono, se vogliamo metterla in modo figurato, una dall’alto l’altra dal basso.
In questo egli è arbitro delle sue scelte, ma non può compierle se non quando la configurazione spazio-temporale in cui è immerso non gli presenti la circostanza maturata, ossia gli si concretizzi come realtà di fatto. Prima può solo immaginare, rappresentare e fantasticare; in quanto sente l’enormità della posta in gioco e immediatamente, di conseguenza, ogni pensare, anche quello affinato da anni di esercizi, tende a sperdersi di fronte al potere erompente del sentire e del volere che, in tal caso, lo alimenta.
Bisogna quindi comprendere bene quale sia il valore di una realtà puramente immaginata, e da quale parte di noi spiri il vento del consenso che la intesse; perché se dovessi scoprire che, immedesimandomi nel personaggio di Giovanna D’arco, riuscendo a far risuonare in me tutte le forze che, immagino, siano state impiegate sino all’epilogo della sua vicenda, e dopodiché, chiuso il siparietto straziante, tornassi nel modo consapevole e usuale a sbrigare i miei affari personali, io credo che dovrei preoccuparmi alquanto.
Dovrei ritenere che la mia ingenuità si sia esposta a fantasie misticheggianti e che il lume di chiarezza del pensiero sia stato per il momento interdetto a causa di forze totalmente ostili e avverse alla crescita dell’umano, che per una sorta di imbambolamento, dal quale non escludo un’intima compiacenza, hanno incantato, ottuso e gabbato il senso della mia responsabilità cosciente; cosciente non solo di quel che faccio e dico, ma prima ancora di quel che penso e della qualità del pensiero di cui mi sono avvalso per pensarlo.
Volere e sentire non si pongono limiti; sono miei, provengono da me secondo andamento e sviluppo della mia personalità; ma il pensare no; è mio soltanto per la parte ordinaria, riflessa dal cervello che giunge all’anima, filtra appena nella coscienza e la rende vigile della sua funzione. Il pensare presenta limiti in quanto l’immensità della sua dimensione s’astringe al singolo individuo, si autoriduce per darsi a lui; in tal caso, i limiti temporali, relativi e biografici, esigono non essere esposti al gioco delle fantasie, per quanta devozione esse possano contenere, né a quello della speculazione del tutto avulsa dalla realtà contingente.
Questa, però, non è una novità! Tutto il processo dell’umano verso una conoscenza di tipo superiore a quella legata ai parametri del solo materialismo fisico sensibile, ci è stato ampiamente descritto: addirittura la stessa realtà, quella che si presenta a noi nel modo piú oggettivo possibile, non è quella che appare; lo dicono ormai tutti, perfino celebri e noti antispiritualisti, pure se per costoro ammetterlo è stato uno sforzo enorme.
Nessuno di essi però specifica che la regola del gioco consiste nel fatto che per una parte siamo dentro la necessità incombente della dimensione spazio-temporale; la viviamo con la netta sensazione di subire l’ineluttabilità; ma l’altra parte, quella che ancor si stenta a riconoscere, o addirittura si vuole ignorare, è al di fuori di qualunque necessità contingente, non ne subisce gli effetti centripeti o centrifughi; a tratti, se ben orientata, la nostra coscienza sa intuire la libertà sconfinata del mondo spirituale e la portata della sua verità che sola rende significativo il nostro esistere in parallelo al nostro essere.
Tuttavia, fedeli o non fedeli, credenti o non credenti, subiamo entrambi le ferree leggi della biologia; esse cominciano ad acquistare un senso specifico solo se prima introduciamo nella nostra testa l’ipotesi di aver fatto la scelta di sperimentarle (e non di subirle) nascendo al mondo in un corpo terrestre.
Figuriamoci poi quando la realtà, da cui ci lasciamo impressionare al punto da ipotizzare ultimatum di sopravvivenza, è mero frutto di una nostra immaginazione, sospinta da un qualcosa che ci vuole supini, costretti alla macerazione interiore, onde tenerci bloccati, in soggezione delle ombre che si diverte a proiettare sulle pareti dell’anima nostra.
In casi come questi, è dannoso e inutile arrovellarsi sull’evenienza di un proprio sacrificio e sulla scelta che, giunti colà, dovremmo operare: sarà sempre una scelta sbagliata, perché scorretta sul piano della conoscenza; che io scelga di sopravvivere comunque, carico di astiosità verso me stesso per gli anni che rimangono, oppure decidessi di immolarmi in un’apoteosi solipsistica condita dai crismi dell’autocelebrazione, avrei sempre compiuto un passo falso, per un semplice fatto: l’anima ha presentato un conto che la coscienza, con la riserva di pensiero di cui ‒ per ora ‒ dispone, non può permettersi di pagare.
Di modo che, quanto si può argomentare ed arzigogolare a seguito è solo trama di romanzo in cui, volta per volta, possiamo far fare al nostro ego la figura dell’eroe o del marrano; in questo caso, gratuitamente e senza ripercussioni nella vita “normale”.
Ma, arrivati qui, mi piacerebbe poter pensare che anche tu proverai una lieve repulsione per quel particolare “candore“ con il quale ti eri avventurata nella questione, dando un tocco naïf all’allegoria sacrificale. Se lo controlli da vicino, constaterai che ha ben poco di naïf e meno ancora di candido.
Con sincero affetto, il tuo vecchio amico.
Angelo Lombroni