Oltre il campo dei giunchi

Socialità

Oltre il campo dei giunchi

Clint Eastwood«Mi piace perché è un attore che ha solo due espressioni: una con il sigaro e una senza sigaro», cosí si espresse il regista Sergio Leone parlando di Clint Eastwood. Era l’epoca d’oro del cinema fracassone made in Cinecittà, degli Spaghetti Western, e il giovane attore americano era approdato sui lidi romani della celluloide cacio e pepe, alla ricerca forse di quegli allori che la piú blasonata Hollywood negava, o concedeva in briciole, a un cascatore, ché tale era il ruolo di Eastwood agli esordi americani. Tonico, taciturno, asciutto nei modi, di rara o nulla loquela, il ruvido generico statunitense non aveva del resto bisogno di parole ma di pallottole a salve per la sua Colt 45, micidiale per eliminare i soliti ceffi impersonati da Ely Wallach, Robert Ryan, Jack Palance e il nostrano Gian Maria Volonté, con il piglio e i baffi da desperado messicano. Clint però ne aveva ragione per la velocità con la quale estraeva la sua pistola formato Grosse Berta, ma soprattutto grazie a una corazza di bandone occultata dal generoso poncho di spesso cotone campesiño, un espediente che gli permetteva di farsi beffa delle bordate a doppia canna di Volonté. Scampato alle amatriciane e alle doppiette italiane, Clint Eastwood, ormai un supereroe dal cachet di rispetto, ritornò in America, dove impersonò uomini dalla cravatta di cuoio, poliziotti integerrimi, senza paura, rocamboleschi evasi da Alcatraz. L’attore diventò “l’uomo dagli occhi di ghiaccio” e le sue caratterizzazioni non si distaccarono mai dai registri di durezza delle maniere e delle situazioni. Salvo una inattesa sortita nel romantico sentimentale con l’intimistico “I ponti di Madison County”. Affiancato da una tormentata Meryl Streep, il legnoso Eastwood capí che il lirismo sentimentale, consumato in un ambiente lezioso, carente di forti dinamiche e drammatiche emozioni fisiche, non era consono al suo temperamento e si accinse all’attesa di una sceneggiatura che incendiasse il suo carisma di energetic man.

Il colpo arrivò violento e rapido, ma non fu per fuoco, bensí per acqua. Tanta acqua di mare che si impennò in onde gigantesche e incalzanti, guizzi sfrenati di spuma e sabbia che formarono uno tsunami apocalittico che portò rovina e morte in tutto il Sudest asiatico, dalla Sonda all’Oceano Indiano, fino alle coste africane. Era il giorno seguente il Natale dell’anno 2004. L’onda nel porto, questo è il nome che i Giapponesi danno allo tsunami, causò centinaia di migliaia di morti, la maggior parte in India e Tailandia. Il film Hereafter, girato da Eastwood, tratta proprio dell’evento catastrofico che colpisce la costa sudoccidentale della Tailandia. L’onda gigantesca si forma al largo, invisibile, inaspettata, prima lenta e gonfia, poi s’innalza in un galoppo crestato di spume biancastre, acquista la velocità di un fenomeno apocalittico. Batte a catapulta la riva (Link a Hereafter).

E qui trascina via nell’entroterra tutto quello che incontra: barche, auto, persone. Tra queste la famosa giornalista francese in Tailandia per un reportage. La donna tenta di mettere in salvo una bambina, prova a resistere alla furia dell’onda, ormai una fiumana cui nulla può opporsi. Si aggrappa disperata a ogni appiglio. Alla fine viene colpita al capo da un oggetto. Tramortita, cede al flusso. Il suo corpo è preda della corrente, ma lei entra fluttuando in una dimensione ovattata e calma. Dove si trova? Chi sono quelle figure che si muovono leggere e silenziose? Sta per unirsi a loro, ma una mano le impedisce di farlo, la strappa dalla vertigine. È il giovane salvatore che, facendole espellere l’acqua ingurgitata, la riporta in vita. Una vita che non sarà piú la stessa. Non piú inchieste sulla mala politica, sulla finanza tossica, sul terrorismo. Scriverà un libro per raccontare la sua esperienza e testimoniare di quella dimensione, popolata di figure evanescenti, alla quale si era sentita per un attimo di appartenere: un luogo familiare al quale era dolce ritornare, l’anima finalmente in pace. Impresa non facile la sua. Il mondo pragmatico e cinico cui lei appartiene, ma che è ormai il mondo di tutti, le fa la guerra. Una dimensione oltre? Ma è pura follia, è allucinazione da shock. Vedrai che col tempo, col ritorno alla vie parisienne, quelle visioni, frutto della eccitazione abnorme della corteccia cerebrale sottoposta a stress, si dissolveranno. Cosí le dice il fidanzato. Ma il sensitivo americano, un medium che parla con i morti, si interessa alla sua causa, le dà conferme, e un nuovo amore.

GhostConferme piú che mai necessarie a una civiltà che crede ormai solo nel qui e ora, nel solo tangibile. Tuttavia il pregio formale e immaginativo del film di Eastwood si limita a descrivere la dimensione dell’here­after, ossia di un luogo indefinito oltre la soglia della morte, in cui si protrae l’entità ultrafanica del trapassato, spesso di un tale realismo materico da scadere nel patetico, come quando in “Ghost” il povero Swayze deve apprendere da uno spirito inquieto e geloso del proprio spazio, in questo caso non vitale ma larvale, come dare valenza e potenza fisica a un arto disincarnato, ad esempio per dare un calcio a una lattina o appiopparlo all’amico che gli insidia la moglie Demi Moore. Siamo comunque nel medianico, nel fantasmico, che è il modo americano per surrogare il divino. Un modus che connota la quasi totalità delle pellicole e delle serie TV piú fortunate made in USA, da “Ghost whisperer” a “Medium”, a “Dead Zone”, con scivolamenti disneyani ne “Il fantasma del pirata Barbanera”. BarbaneraNe “Il Paradiso può attendere” si va un po’ oltre, accennando a un’ipotesi di reincarnazione, e nel­l’intrigante “ Il volo della libellula” una suorina alta come un soldo di cacio informa il frastornato Kevin Kostner che sua moglie, passando la Soglia, ha disceso la scala verso la morte lungo gradini con tonalità varianti di grigi fino all’oscurità.

Lo stimolo ad affrontare il mistero c’è, ma l’ormai concretata predominanza dell’agnosticismo, in America come altrove, fa sí che in ogni branca del sapere e del creare alletti gli autori e gli esecutori la resa, a volte tecnicamente impeccabile, della dimensione oltre come una specie di limbo in cui le anime trapassate vestono le spoglie del “Ba” egizio, la forma spettrale che svolazza nel mondo dei viventi, appollaiandosi e occhieggiando invidiosa per la vita che rimpiange. Manca la ricerca escatologica di ciò che avviene dopo il trapasso, di quali vie percorra lo Spirito per entrare nella Sala della Bilancia ed esporre il proprio cuore alla pesatura, confessando ai 42 giudici del Tribunale di Osiride le proprie colpe.

Non ci si pone il problema. Ogni assillo è da tempo cancellato dalle coscienze. L’oltre non esiste. I morti, ben vestiti, alcuni persino alla moda, frequentano i bar e i fastfood, guidano auto e vanno in bici. Spesso con eccessi materialistici paradossali, come quando il medico esorcista Peter Cushing, nel film “ Dracula il vampiro”, arriva al castello transilvano e trova tutto apparecchiato, riscaldato, tirato a lucido, la biancheria stirata e odorosa di bucato. Chi ha preso i voucher? Quali maestranze agiscono, invisibili e felpate, agli ordini del Conte, l’Immortale per sangue? Cosí l’umanità, trescando con la morte, irridendola per non cederle, ne fa la regina del mondo. Oppure la corteggia per ottenere i suoi favori: la fine di ogni dolore, il grande sonno senza risveglio.

La clinica Dignitas di ZurigoOgni anno decine di italiani si recano in Svizzera per avere la dolce morte. Pagano diecimila euro, in anticipo s’intende, firmano documenti liberatori, poi vengono ricoverati in una specie di rimessa cui hanno dato il nome “Dignitas”. Questa anticamera del trapasso soft si trova a Pfaffikon, alla periferia di Zurigo, nella cintura industriale della metropoli elvetica. Qui i morituri attendono l’esito finale, “l’exit”, dopo aver bevuto da un bicchierino, di comune plastica, il cocktail mortale formato da 15 grammi di pentobarbital, un anestetico usato in veterinaria con il nome di Nembutal. Produttrice del cocktail è una casa farmaceutica statunitense. La morte arriva in pochi minuti.

Il 27 febbraio scorso, alle 11.40, mordendo un pulsante, essendo la bocca l’unico organo rimastogli attivo, DJ Fabo, all’anagrafe italiana Fabiano Antoniani, ha ingerito attraverso un apposito cannello meccanico la dose letale. Il 39enne, ex broker, poi assicuratore, infine animatore musicale assai noto nelle discoteche dell’area milanese, era rimasto invalidato, tetraplegico e non vedente, in seguito a un incidente stradale avvenuto nella notte del 13 giugno 2014. Alla guida di un’auto si era schiantato contro un veicolo fermo in sosta di emergenza. Quell’incidente ha fatto di un uomo iperattivo un vegetale. Una condizione che Fabiano non ha mai accettato e che lo ha portato a chiedere di mettere fine alle sue sofferenze mediante il suicidio assistito in Italia, rivolgendosi persino al Presidente della Repubblica. Non ottenendolo, ha fatto ricorso alla Svizzera, dove il suicidio assistito è consentito con le dovute misure.

Socrate beve la cicutaRetorica, moralismo, scientismo a buon mercato hanno accolto l’esito della drammatica trafila conclusasi a Zurigo. Qualcuno ha voluto citare Socrate che bevve la cicuta per sottrarsi al giudizio del tribunale di Atene. Il grande filosofo, in attesa che il veleno facesse effetto, volle intrattenersi con i discepoli discutendo sulla natura dell’anima umana. DJ Fabo ha invece mangiato uno yogurt alla stracciatella, poi ha detto agli amici presenti: «Mettete sempre la cintura, ve lo chiedo ancora una volta. Promesso?».

Quali le reazioni ufficiali al gesto di Antoniani? Non potendo parlare di karma, la religione lo ha perdonato, affidando Fabo alla divina misericordia e giustificandolo per la troppa sofferenza sopportata nei due anni tra l’incidente e la decisione di ricorrere alla dolce morte. Non sono mancati i riferimenti mitologici a Prometeo, ladro del fuoco primigenio, adombrando il diritto umano di sottrarsi all’autorità divina e decidere del proprio destino, fosse anche l’estremo dell’autodistruzione. Secoli di speculazioni materialistiche sono rinverdite per assolvere un atto di assoluto nichilismo. E infatti, il distillato finale delle mille e una elucubrazione da parte degli addetti ai lavori in campo sociofilosofico è che la mistura del bicchierino, annullando il dolore fisico, cancella ogni ulteriore realtà, consegnando il soggetto nembutalizzato al vacuum cosmico, al nihil pregenetico. Troppo facile, troppo comodo. Si pareggiano dare e avere, chi ha avuto ha avuto, non si lasciano pendenze.

Un solo guizzo di luce nel volapuk di considerazioni relativistiche che hanno accompagnato la fine di Fabo. Lo ha emesso Matteo Nassigh, un diciannovenne tetraplegico che si era rivolto al disc jockey dicendo: «Non chiedere di morire. Noi non possiamo correre ma siamo pensiero. E il pensiero migliora il mondo». Ma un’esortazione cosí era fuori della portata di un broker.

Varcata la soglia, ci sono equivoci da chiarire, conti da regolare, prese di coscienza scomode da assumere per giustificare tante derive nella trasandatezza dell’agire, nel rilassamento della morale. Ad ogni modo, quello che emerge dal gesto di Fabo è la convinzione che nessuna luce illumini il mondo ultraterreno, che, chiusi gli occhi, cali il sipario, e che insieme ai dolori del corpo svaniscano anche i valori che un’entità animica ha saputo elaborare e praticare in corso d’opera, lavorando cioè alla propria sublimazione.

Gli Egizi chiamavano “osirizzazione” l’assimilazione dell’anima alla natura divina, e ossessionati com’erano dal tic del cerimoniale, avevano immaginato un processo vero e proprio, il cosiddetto Giudizio di Osiride cui era sottoposto il defunto, superata la soglia della morte. Giudizio OsiridePer poter entrare nell’Amenti, il paradiso di Osiride, detto anche “Campo dei Giunchi”, il defunto doveva affrontare il giudizio tramite la pesatura del suo cuore, ritenuto dagli Egizi, la sede della coscienza aliena dalla menzogna. Su un piatto della grande bilancia di giustizia veniva posto il cuore, sull’altro piatto una piuma. Aveva allora luogo la confessione del trapassato che enumerava i suoi peccati, il peso di ognuno dei quali veniva controllato da Anubi, il dio sciacallo, e la confessione registrata da Thot, il dio ibis, che ne annotava le parole su una tavoletta. Se il peso del cuore superava quello della piuma, il defunto non era giustificato e diveniva preda della “divoratrice”, un mostro dal corpo di leone, dalla testa di coccodrillo e la coda d’ippopotamo. Se giudicato “giusto di voce” dal tribunale di Osiride, l’anima del defunto veniva ammessa al regno di Osiride, luogo di eterna beatitudine, ricco diacqua e verzura, di frutti squisiti e piante rare, i giunchi appunto. Il defunto poteva coltivarli personal mente o farsi aiutare nella corvée da servi, detti ushabti. Finché il suo Akh, il suo Spirito, saliva sulla barca di Ra per compiere cosí il destino solare. Quanto avrà pesato il cuore del disc jockey Fabo? Una, mille piume?

C’è una sola maniera di esorcizzare la pesatura del cuore nell’aldilà: sottoporvisi qui, mentre si è vivi e vegeti, e le passioni mordono la nostra anima come il drago-serpente Apopi, avversario di Ra. Fare come ha immaginato Vincenzo Cardarelli con la sua ironica composizione poetica “Homo Sum” (Link al video):


 

Homo sumIo pago tutto.

Non c’è peccato

ch’io non abbia finora

debitamente scontato.

Ho un organismo vitale

che vuole, contrariamente

al Diavolo di Goethe,

vuole il Bene e fa il Male.

Pensate quale puntualità

e che lista di conti da saldare.

Ai messi del Signore

l’uscio della mia casa

è sempre aperto.

E spesso delle loro intimazioni,

prevenendole,

Il poeta Vincenzo Cardarelli

Il poeta Vincenzo Cardarelli

io stesso senz’attenderli

mi faccio esecutore.

Sí che quand’essi giungono,

ritto sull’uscio li fermo

e li rimando dicendo:

«Amici, sono anch’io

cursore e complice di Dio.

Che dunque venite a fare

se il debito è già saldato?».

Forse è perciò che una donna cattiva

suole dire celiando

ch’io sono un santo e innanzi di morire

farò miracoli.

Talvolta infatti io mi vedo

come uno di quei poveri santi

che sulle tele delle sacrestie

stanno in adorazione della Vergine,

inutilmente aspettando

un suo sguardo.

Ma vi dico, in verità,

che volentieri darei, se pur l’avessi,

una tanto gloriosa vocazione

per un poco d’allegra umanità.


 

Ecco, forse il sagace poeta Cardarelli ci dà la chiave del rovello: essere complici di Dio mentre lavoriamo non il Campo dei Giunchi dell’aldilà ma quello contingente dell’aldiquà. Dissodando zolle dure, seminando buoni semi. Insistendo, sbagliando, mancando i tempi, le giuste lune. Perché Dio è con noi, sempre, e quando occorre ci manda segni e cursori che ci indicano la strada.

GolgothaPer i cristiani la Pasqua è, iconicamente, il Golgota: tre croci issate in cima alla breve e pietrosa “collina del teschio”, sulle ruvide croci, inchiodati, tre uomini, condannati secondo giustizia, due perché ladri acclarati, uno perché giudicato reo di bestemmia, avendo egli osato dichiararsi pubblicamente”figlio di Dio”.

Ma i cristiani sanno anche che la storia di quella triplice esecuzione non finisce lí, sul culmine sassoso di un modesto rilievo suburbano di Gerusalemme. Uno dei ladri si pente, riconosce nel suo compagno di sventura il Cristo e viene, per intercessione di Questi, assunto in cielo. L’altro ladrone, tetragono nella sua protervia, finisce «là dove è pianto e stridore di denti», secondo Dante.

Ma il condannato, in base alla legge giudaica, per blasfemia, vive un’altra storia. Appena esalato l’ultimo respiro e affidato alle mani del Padre il suo Spirito, dalla croce il sangue che quello Spirito contiene imbeve la terra, la penetra, discende agli Inferi, all’Ade dei Greci, al Tartaro dei pagani, all’Averno dei Romani, all’Amenti degli Egizi, e, con la stessa luce eterea che libererà Pietro dalle catene del Mamertino a Roma, libera le anime prigioniere del “non essere”: per quel sacrificio del Cristo, la morte che annulla il corpo e con esso lo Spirito, è stata vinta. C’è quindi vita dopo la morte. Anzi, la vita c’è sempre. La morte è solo un interludio.

Tale ipotesi viene ricusata dai materialisti, per i quali l’interludio è la fine della commedia. O del dramma, se rendiamo la vita un gioco di abusi ed eccessi, se barattiamo con il “nulla” la nostra identità, quell’Io finalmente svincolato dalla pania materica e reso capace di trasumanare per poi angelicarsi. Sta quindi a noi, al nostro libero arbitrio, se accettare il dono salvifico del Cristo o ricusarlo per lo stesso peccato di orgoglio che all’origine della vicenda creaturale ci iniziò alla follia deterministica.

La conoscenza del karma molto può aiutare l’uomo nelle sue scelte morali, nel cercare e trovare giustificazioni al dolore che può apparirgli insostenibile e senza valide ragioni ed esiti costruttivi. Lo dice Massimo Scaligero nel suo libro “ La via della volontà solare”: «L’uomo di oggi ha necessità, come di una medicina urgente, della conoscenza riguardante il karma e la reincarnazione, perché essa, mentre conferisce calma conoscitiva riguardo a ciò che si presenta come processo della necessità, al tempo stesso fortifica il senso della libertà, ossia la possibilità di sostanziare il karma futuro, col poter dare in qualsiasi momento una direzione al proprio esistere, indipendente dalle influenze del passato, che è dire della natura».

Ecco allora accettare il dolore come un sacrificio dell’Io che si crocifigge per scontare remote inadempienze rimaste irrisolte, antichi nodi morali da sciogliere, per aprirci alla Pasqua di resurrezione e di perdono. Affinché ogni ritorno alla nuova vita ci veda piú saggi. Il cuore leggero, come piuma.

 

Leonida I. Elliot