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Considerazioni

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Siamo Praticamente Quasi Rovinati?

 

Posta la domanda del perché abbia voluto accostare l’antico, illustre acronimo ad un’impressione strettamente personale e tutto sommato poco edificante, non ho potuto fare a meno di rispondermi con la regola n.1 del codice Ma.Liz.I.O.So., (Manuale di Lizze e Intrighi d’Ordinaria Sopravvivenza) in base alla quale “a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca”.

Viviamo nella diffusa sensazione che in quest’epoca molte cose siano confluite assieme dando stura a una risultanza, la quale, accresciuta in luoghi diversi e lontani, si sia poi riversata sulla città Eterna, prima lentamente ed ora dilagando senza freni. Gli anglosassoni la chiamerebbero “uno spiacevole flusso di eventi”, ma noi che non proviamo il bisogno di bere il tè col mignolo alzato, di fronte al marasma capitolino possiamo permetterci un atteggiamento piú classicheggiante, stile tardo impero; facciamo le spallucce e mettiamo in lavorazione nuove speranze nella costruzione del megastadio di Tor di Valle.

Fino al piú recente passato, la città Caput Mundi, in pesanti difficoltà intrinseche politicamente indistricabili, si era esposta alla ribalta nazionale e mondiale, non già per i suoi fasti e l’eco di trascorsi splendori, ma per una condizione di degrado corredato dal prolungarsi nel tempo di efferate nequizie. Gli ultimi responsabili chiamati a gestire l’emergenza (o il calendario delle emergenze) hanno dovuto affrontare il problema dello stadio che la passata municipalità aveva promesso ai romani: un altro Anfiteatro Flavio per la gioia dei cittadini, e per mascherare le inefficienze subite, come buche delle strade, immondizie, traffico, speculazione edilizia e consorterie compresi. Tutto ciò che attualmente si sta provvedendo, lentamente, a riparare, per guardare al futuro con rinnovata fiducia.

Serva ItaliaForse è il ripetersi di quel che accadde nel lontano 476 d.C. e che dette l’avvio al lungo processo storico della “dissolvenza e recupero” di una identità nazionale consapevole e, almeno a livello di apprendistato, anche dignitosa. Evidentemente tutt’altro che compiuta, se alcuni secoli dopo, fece esclamare a Padre Dante la famosa apostrofe «Ahi, serva Italia di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non Donna di province…» con tutto quel che segue, e che proferito dal sommo Poeta giustifica almeno in parte il peso della greve riflessione di cui sopra.

Un mio insegnante liceale di Storia e Filosofia si era speso molto per inculcarci la concezione che dalla Caduta dell’Impero Romano non saremmo arrivati al Rinascimento, se in mezzo non ci fosse stato il lento groviglio intessuto tra i fenomeni di Cristianesimo, Barbaresimo e Germanesimo, cui gli studiosi alludono parlando dei Secoli Bui.

Beh, allora, mi dico, forse ci siamo ! Spero solo che stavolta la riedificazione sociale, morale e civile, avvenga in tempi meno lunghi. Mia nonna raccontava che tenere in tasca qualche spicciolo di “roseo candore” torna sempre comodo. A dire il vero, lei lo chiamava diversamente, anche se il concetto non andava lontano.

La religione ufficiale c’è, e nessuno può togliercela, a meno che non si volatilizzi da sola; questo è un fatto. Per il barbaresimo non c’è problema, abbiamo ampia scelta; si è da poco constatato che buona parte della classe insegnante non scrive adeguatamente l’italiano, ma col futuro che ci attende, coinvolgendoci in un carosello di spumeggiante multietnicità culturale da far invidia al Carnevale di Rio, la cosa appare alquanto irrilevante.

Sul germanesimo c’è poco da dilungarsi; nel lungo scambio transfrontaliero di valori civili e morali siamo riusciti perfino a convincere le fiere popolazioni del nord a truccare spudoratamente le analisi relative alle emissioni inquinanti dei motori Volkswagen e spacciarle per veritiere sui mercati automobilistici del pianeta. Da parte nostra abbiamo importato la rigida meticolosità (di cui tra l’altro avevamo estremo bisogno!) nella misurazione di prodotti alimentari quali banane, vongole e pomodori vallivi, che non devono assolutamente superare le dimensioni standard appositamente studiate dalle Euro-Authority.

Tutto questo renderà piú coese le nazioni del continente, sosterrà il commercio dei profughi (che attualmente necessita di una regolamentazione meno sbarazzina) e incrementerà il benessere economico delle classi agiate, che riescono ancora una volta a mantenere saldo l’obiettivo: fare da modello agli indigenti per mostrare loro che il «Si può fare, amico!» è alla portata di chiunque abbia appreso bene l’arte di assolversi in toto già prima di commettere il reato.

Se dopo, nel mirare agli obiettivi, anziché colpirli, se ne centrano accidentalmente altri, questo fa parte del gioco e deve venir messo in preventivo per eventuali lavori di ripristino e di pronto intervento, da assegnare, mediante oneste gare d’appalto, controllate all’occorrenza da commissioni miste tra Predatori di Lavoro e Prestatori della Manolonga d’Opera SpA.

È possibile comprendere quel che in effetti è accaduto e magari anche le ragioni per cui è accaduto? Sí e no; dipende dalla qualità del pensiero rivolto ai fatti da esaminare. In altre parole dipende dal modo di attuare la conoscenza.

Un insegnante (un altro, non quello di prima) rivolgeva ai suoi allievi questa raccomandazione: «Per essere promossi a scuola basta sapere; per promuoversi nella vita bisogna capire». E qui forse si pone in evidenza un fattore finora omesso, ignorato e trascurato dai responsabili dell’istruzione, nel senso piú lato della responsabilità: dai genitori alla scuola, dai pedagogisti alla società, dagli opinionisti agli accademici del pensiero.

CapirePossiamo inquadrare il problema in questa cornice: noi veniamo a sapere della realtà attraverso sensi, percezioni, immagini mentali e pensieri; essi formano le rappresentazioni, ovvero un primo quadro d’insieme. Se – ipotesi assurda – usando il pensiero al 100 % della sua potenzialità, potessimo cogliere la percezione al 100% di quel che essa è, la realtà uscente potrebbe dirsi completa e totale. Poiché questo non è fattibile, nel senso che non ci andiamo neppure vicino, dobbiamo onestamente affermare che la realtà accolta per esistente non è affatto cosí, o quanto meno non lo è nella sua totalità, completezza ed estensione.

Viviamo pertanto in dimensioni di semirealtà, di mezze verità, di realtà supposte o sognate a occhi aperti, e tuttavia siamo disposti a mettere la mano sul fuoco per sostenere ciò che i nostri sensi e la nostra capacità pensante ci permettono di collegare formando le varie e provvisorie rappresentazioni del mondo. Se appaiono salde e bene articolate al nostro sommario giudizio, le prendiamo per oro colato e le chiamiamo “concezioni”, giurando e spergiurando ogni volta che l’ultima deve essere per forza quella giusta.

Proseguendo in questa ottica miope e presuntuosa, si arriva al punto in cui siamo: l’umanità comincia ad interrogarsi, angosciata e atterrita, come e da dove siano sorti i problemi gravi e drammatici che oggi si trova davanti e che rendono il futuro piú precario di un lavoro interinale presso un Call Center. Come minimo ci dovremmo fare un esame di coscienza e chiederci seriamente se ci siamo dati in qualche modo da fare per chiarire come si attui in noi la conoscenza, oppure se non abbiamo bellamente omesso tale problema, ritenendolo tema per vecchi tapiri di biblioteca, del tutto avulsi dalla concretezza quotidiana della vita.

Perché se vale la supposizione premessa, ossia l’aver imparato a cogliere solo un brandello della realtà, (quello tra l’altro piú misero, della quantificazione e della misurazione) e averlo scambiato per la realtà totale, in quanto la nostra mente, intorpidita e impigrita dalla mancanza di una mirata ricerca speculativa, non ha avuto né la voglia né il coraggio di affrontare il compito in vista del quale era stata strutturata, allora credo non ci siano piú domande da fare; l’angoscia e la paura covanti sotto le forme patologiche delle nevrosi individuali e collettive trovano sufficiente risposta.

È veramente ingenuo, primitivo sino al ridicolo, che un adulto continui a credere di essere davvero immerso in una realtà a lui perversa e ostile; sarebbe come affermare che uno scritto o un quadro non sia dipeso per nulla dall’estro del suo autore, e che anzi, questi si sia limitato solo a disporre parole e colori secondo accostamenti casuali indipendenti dalla sua volontà.

Per colpa di un destino sgarbato, o di una casualità del tutto inaccertabile, questi accostamenti ora si presentano minacciosi e preoccupanti sulla linea d’orizzonte, quella che noi volevamo sempre nitida, tersa e sgombera da nuvolaglia.

Tant’è vero che non appena un imbonitore di piazza si esibisce nella sua performance, ci rammenta subito l’utopia di fondo: molti fra gli ascoltatori ne restano incantati, e se ne ammaliano al punto che pur sapendo bene che le sue promesse sono vento, avendolo già sperimentato, tornano a eleggerlo, comunque, loro rappresentante politico.

Vedono in lui il paladino e il difensore dei pericoli e delle insidie che mettono a repentaglio il sogno di una vita tranquilla, serena, priva di brutture e di scossoni. Lo vedono perché lo vogliono, lo cercano; non hanno la minima volontà d’incontrare gli eventi per capirli, soprattutto perché i promotori della loro psicolabilità li hanno indotti a credere che i problemi devono solo essere affrontati, superati, oppure, all’oc­correnza, raggirati. Mentre invece, il vero raggirato è proprio lui.

Comprendo che non è semplice convincere chi si sia sempre astenuto da ogni esperimento d’auto­critica, a tirare delle connessioni tra quel che è accaduto negli anni in Campidoglio, gli sbarchi dei profughi migranti, l’avvento della nuova amministrazione americana, la guerra infinita che da tempo infiamma il Medio Oriente, i cavalcavia che crollano e la legge che punisce i rapinati che sparano ai ladri in fuga.

Nessuno saprebbe collegare lo scottante tema, politicamente accantonato, del testamento biologico, dell’eutanasia, ai fenomeni sociali della droga e degli allucinogeni. E meno di chiunque altro, sarei io capace di stabilire rapporti o nessi di causalità tra i vari orrori e turpitudini che macerano il mondo e la società, e che spesso corporazioni e sindacati tirano in ballo sotto la carnevalata dei “Diritti & Doveri”, null’altro avendo da esibire in cambio.

Tuttavia di una cosa sono fermamente convinto: non credo in quel che appare se non lo sperimento in prima persona; ed anche cosí, so già d’essere comunque lontano dall’avere una panoramica verace e definitiva di quel che osservo.

Questa potrebbe essere la buona novella dei nostri tempi: la semplicissima percezione, o il dato sensibile elementare, ha dietro di sé un suo universo tutto ancora da scoprire; proprio come il pensiero, come quello che può venir attivato in presenza della percezione stessa; se lo si risale, usciamo dal contesto dialettico, entriamo nell’infinito del metafisico e ci perderemmo dentro.

Per cui, senza flagellazioni o autolesionismi di sorta, ammettiamo tranquillamente che ogni nostra rappresentazione della realtà è ancora povera, povera e povera.

Pretendere di avere in mano le chiavi della spiegazione di un oggetto, di un fatto o di un accadimento, o peggio ancora di una serie di eventi, è cosa talmente folle che chi ne mimi il possesso, se e quando ridesto a maggior lucidità, proverà l’impulso di andarsi a nascondere e di non farsi piú vedere sulla faccia della terra per parecchio tempo.

Del resto l’epoca dei falsi profeti va alla pari con quella dei venditori di rimedi, di panacee ed elisir di lunga vita. E tutto questo errare nell’errore prosegue solo perché il problema legato alla conoscenza e alle modalità del conoscere, è stato bandito dalla cultura d’Occidente.

Si continua a credere che un finto ateismo materialistico accompagnato dalla farsa di una religiosità capace di mostrarsi in pompa magna e concerti rock, avendo già rivelato al mondo le sue capacità tecno-scientifico-industriali, non abbia bisogno d’altro per edulcorare il progresso.

Ho letto da qualche parte che uno slogan della Fondazione Veronesi afferma come sia nostro dovere dare all’ammalato la possibilità di una morte dignitosa, e come il negare all’umanità questo suo diritto sia un’autentica ingiuria alla libertà individuale.

Sono perfettamente d’accordo,  ma prima bisogna arrivare all’idea di quel che sia la Malattia; di cosa sia in verità la Morte (e quindi di conseguenza anche la Vita, dato che una chiama indissolubilmente l’altra); cosa rappresentino i Diritti e i Doveri, senza i quali i primi non esisterebbero nemmeno; e, se non basta, cosa vogliamo intendere con la parola Libertà; in quale senso la usiamo meccanicamente, spesso scambiandola con il “libero arbitrio”, che all’originale sta quanto un filino d’erba ad una prateria.

Ove manchi del tutto, o anche solo in parte, la compenetrazione cosciente, allargata e condivisa di tali concetti, qualsiasi enunciato, anche il piú toccante e monitorio, è pura aria fritta, non di rado impiegata per ragioni che esulano completamente dagli alti propositi espressi in epigrafe.

Il pensiero dell’uomo d’oggi, per quanto coltivato e potenziato sia, senza Logos non è pensiero: è un riflesso della nostra soggettività assurto a fatto mentale; come tale non può dar luogo ad un vero conoscere. Di conseguenza, tutto ciò che affermiamo di aver scoperto e intuito in quanto risultanza dell’attività cerebrale, è falso, fuorviante e ingannatore.

Gli eventi che si sono trovati ad affrontare i nuovi arrivati nella municipalità della Capitale sono il segno (uno dei tanti) che le malefatte precedenti, mai rimediate, quasi sempre negate, rabberciate o differite nel tempo, hanno raggiunto il limite di saturazione. Arduo sarà il compito di salvare il salvabile.

Il pensiero che veramente pensi non si lascia impiegare al recupero di situazioni ordite e maturate sotto la tirannia di un pensiero che si è sempre rifiutato di pensare; in medicina si può anche curare un male somministrando in minime dosi i germi del male stesso; lo si fa quando si è ancora nella fase preventiva; ma giunti al terminal, bisognerebbe invece raccontare una buona volta la verità a se stessi e al mondo.

La crisi romana che ha portato a un cambio netto della municipalità non è molto diversa da quella della classe politica italiana emersa, sommersa ed emergente, con tutte le spezzettature di partiti e partitini vogliosi non di servire i cittadini ma di assicurarsi una fetta della torta, mentre la cittadinanza, afflitta ora da questo ora da quel partito, vive una profonda crisi dell’anima.

La mancata partecipazione, il togliere l’offerta dell’apporto personale e del concorso dei singoli alle necessità del paese, che sono poi quelle del nostro intero continente, non sono la conseguenza né l’effetto di una impostazione negativa fin dalla partenza, ma ne sono la causa.

Ed è proprio qui che volevo arrivare per poter cambiare registro e dare a questo scritto una svolta di sollievo, di rinascita; buttar via i ragionamenti fin qui luttuosi per quanto fondati e rivestire i panni freschi di una verde speranza. Non certo con proclami su come far digerire l’indigeribile.

Ho piú volte evidenziato che la fisica teorica progredita in direzioni che spesso hanno lasciato indietro il campo della ricerca classica, sia giunta al punto da far esclamare all’osservatore analitico: «Siamo molto vicini a capire come si svolga l’interazione tra materia e quel che prima di essere osservato chiamavamo il nulla, lo spazio, il vuoto».

A questo proposito sono personalmente rimasto colpito e affascinato dall’articolo comparso in questa sede editoriale (L’Archetipo, marzo 2017) a firma dell’amico, dott. Fabio Burigana, nel quale si evidenzia una cosa estremamente importante, addirittura rivoluzionaria per la portata che potrebbe avere sulla vita futura del pianeta e del genere umano.

Uccellacci e uccelliniEsemplifico grazie ad un piccolo/grande contributo tratto dal film “Uccellacci e Uccellini”, di Pier Paolo Pasolini. Frate Ciccillo aveva supinamente creduto che i falchetti volteggiassero nel cielo e i passerotti si muovessero a terra saltellando. Poi gli fu concesso il dono di capire il linguaggio degli uccelli, e comprese che i falchetti si esprimevano non nell’intreccio dei voli ma dall’intreccio dei voli, cosí come i passerotti comunicavano dal saltellío figurato. Ovvero Volo e Saltellío non erano effetti posteriori all’esistere degli uccelli, ma erano la ragione e la causa primaria per cui gli uccelli esistevano, ed esistendo si comportavano in quel modo.

Ebbene, se rapportassimo questa intuizione artistica al mondo della meccanica dei quanti, e nell’osservare le particelle muoversi, vibrare, collidere e respingersi tra loro, prendessimo atto che se c’è il movimento, se c’è la velocità, se c’è la dynamis che rende possibile ogni divenire, non potremmo, forse, azzardare l’ipotesi che una tale dynamis preceda, e non segua, l’esistere delle particelle?

Noi sulla terra vediamo il movimento solo quando qualcosa si muove: prima viene quel qualcosa (il suo esistere) e dopo viene la sua variazione di posizione (movimento); ma nei mondi dello Spirito le cose non seguono necessariamente questo ordine di precedenza: prima viene la forza, l’energia, il movimento, il dinamismo; questo da solo può creare la condizione ideale acciocché qualcosa che prima non c’era, possa cominciare ad essere. Tale forza non solo è Padre-Madre di quel che cosí sarà, ma andrà anche a coincidere con il suo stesso habitat.

Altrimenti, dando all’esistere il primato d’apparizione, si arriva all’assurdo che i pesci preesistevano ai mari, gli uccelli al cielo e le specie mammifere se ne stavano “in sospeso” attendendo il formarsi di un suolo terrestre. In breve la Forza è Vita e il vivente nasce dalla Vita. Uovo o gallinaNon c’è da chiedersi se sia nato prima l’uovo o la gallina: non può precedere né l’uovo né la gallina, a meno che non si tratti del­l’idea che in sé racchiude gallina e uovo; in tal caso, però, l’idea non si darebbe assumendo la veste di una domanda dubitativa. L’Idea è idea se ha in sé domanda e risposta.

Questa energia cosmica primordiale, questo pensare dell’universo, generante in sé la vita in tutte le sue forme positive e negative (positive e negative secondo la nostra ignoranza) può concedersi infinite varianti. Per l’appunto, proprio da una di queste potrebbe aver trovato origine una primissima collocazione dell’esistere; quella del nostro universo; non importa per ora la sua misura, massa o direzione; ciò che importa è che dal puro Essere è venuto l’Esistere; e se le ricerche indicate nell’articolo sopracitato “L’acqua: cenerentola o regina” si svilupperanno nel modo auspicabile, avremo per la prima volta nella storia la prova scientifica che il mondo sovrasensibile è la vera patria di tutto ciò che, creata la corrente spaziotemporale, può diventarvi sensibile, fino a giungere al suo massimo limite di sviluppo: l’uomo. Portatore di una coscienza individuale, egli potrà perfino decidere di restarsene in-sensibile alla verità da cui discende.

Mi correggo, dovrei dire che avremo per la seconda volta la prova scientifica dell’origine spirituale; se per scientifico dobbiamo e vogliamo intendere ciò che è immediatamente e universalmente sperimentabile, non si può scappare dal pensiero, anche se lo adoperiamo al minimo della sua potenzialità, e, in generale, per scopi poco eclatanti. La forza-pensiero è l’unica porta di accesso ai mondi superiori, e se l’uomo ‒ a parte casi isolati e misconosciuti ‒ non se n’è fino ad oggi accorto, o non si è assunto la briga di accorgersene, il problema non va attribuito al pensiero.

Anni or sono, durante una ricerca etimo-filologica, mi sono trovato davanti ad un fatto abbastanza sorprendente: piú ci addentriamo nei tempi antichi e piú scopriamo che i “nomi” degli uomini, delle città e delle cose in genere, avevano un’origine spirituale; se qualcuno era chiamato in un certo modo, questo non accadeva a caso o per una preferenza imposta dai genitori, o dal clan, ma prima d’ogni altra cosa recava in sé una valenza spirituale che ne designava non solo l’intima individualità ma anche la sua vita futura.

Si diceva “Nomen omen” non solo a indicare l’aforisma che oggi tutti conosciamo ritenendolo un misterioso fattore culturale, ma lo Spirito che aveva voluto incarnarsi in quel determinato corpo terrestre e con ben precise ragioni.

Toro SedutoFintanto questo traspariva dalla traduzione di nomi di Pellirosse (che apprendevo con cura vedendo e rivedendo tutti i film western che mi capitavano a tiro) sul tipo di “Cavallo Pazzo”, “Toro Seduto”, “Pelle di Luna”, “Freccia Doppia” ecc., devo dire che non mi arricchivo di spunti immaginativi. I suoni di quei nomi che mi ripetevo dentro, mi facevano fantasticare ad occhi aperti, ma non muo­vevano altro, anche se oggi mi rendo conto che erano già una pista da seguire.

Quando poi a scuola appresi il greco antico, attraverso l’insegna­mento di maestri veramente innamorati del mondo ellenico, cominciai a capire qualcosa di piú: l’immagine della donna che tesse la tela era racchiusa nel suono “Pe-ne-lops”; la figura del giovane che avrebbe dovuto lottare per raggiungere il suo obiettivo stava nel suono “Te-le-machos”; il nome Poseidone si può scomporre in “Phos-eidon”, ovvero lo Specchio del Sole (il mare); Persefone è la fragranza del pesco e in Proserpina si nasconde “la forza della vita che avanza strisciando”. Questa è stata la piú difficile da digerire, ma in seguito, verticalizzando il movimento, intuii che si intendevano le forze della rigenerazione vegetale che in primavera risalgono quatte quatte alla superficie, strisciando dal basso verso l’alto, dal buio verso la luce.

«Hai una gran bella fantasia!» cosí un amico cui avevo confidato le mie piccole scoperte mi liquidò su due piedi. Ma io pensavo: “È possibile che nelle fiabe il nome della Principessa Fior Di Pesco vada bene, e invece in una ricerca fonetica degli etimi diventi un’astrusità fuori luogo?”.

In un lontano seminario sul Vangelo di Giovanni, il relatore, ben preparato, volle precisare fin dal­l’inizio che il nome di Giovanni (Johannes) non era da attribuirsi all’estensore del Vangelo; il ragionamento doveva elevarsi sino a poter concepire l’inverso di quel che può fornire la comprensione letterale; il suono Johannes indica uno stato di grazia dell’anima umana (tradotto dall’ebraico significa “Dono del Signore”) e quando quel particolare stato di grazia raggiunge il culmine, allora, e solo allora, l’uomo, destato nella conoscenza, veniva indicato come “Johannes”. A uno di questi Illuminati fu affidato l’incarico di redigere quel testo che ora noi conosciamo come il Vangelo di Giovanni.

Il risultato finale pare lo stesso, ma la strada che il pensiero deve compiere per arrivarci ha seguito un percorso molto diverso.

Piú ci inoltriamo indietro nel tempo, e piú troviamo le prove che le anime di allora avevano ancora la capacità di cogliere qualcosa dell’origine spirituale di ogni singolo nato al mondo; nel suo accedere alla fisicità corporea, portava con sé il suono che le ugole e le corde vocali riconoscevano per immediato antecedente al loro formarsi e avrebbero saputo farlo risuonare in un nome.

Cogliere lo spirituale che pervade ogni cosa è stato possibile fintanto che il dogma della reificazione scolpitosi nell’esaustività oggettiva, non è prevalso e l’anima ha in qualche modo dovuto disattivare gli organi sottili con i quali avvertiva l’elemento spirituale, per volgerli e renderli atti, attraverso i sensi fisici, al solo mondo tangibile.

Allo stato attuale, l’unico dato della percezione è il prodotto tipico del fisico sensibile: la materia. Sarebbe ottimistico pensare che la cosa si arresti qui. L’indurimento materiale è penetrato nell’anima, paralizzandola e rendendola refrattaria a tutto ciò che potrebbe elevarla; la coscienza, cui sarebbe spettato il compito primario di estrarre dall’esperienza sensibile l’intuizione dello spirituale che la sorregge e la esprime, ne ha perso ogni traccia; si è “materializzata” e su tale base compie le sue valutazioni. Siamo diventati di conseguenza capaci di giustificare le peggiori scelte effettuate nella vita, negli affetti, nel lavoro, e per forza di cose pure nella società e nella gestione politica della medesima, credendole opportune, necessarie e risanatrici, mentre con esse affondiamo sempre piú nel pantano planetario che ci siamo creati.

Per tornare al quadro di partenza, in questi momenti difficili e aggrovigliati, dovremo riuscire a tener presente un fattore d’essenzialità unica e quanto mai vitale: la città di Roma non è una comune città qualunque; sia l’urbe, sia la sua popolazione, hanno goduto il favore di forze potenti e segrete, forze di luce e di vita, forze di amore e di libertà, che nel tempo hanno preservato l’una e l’altra da un capitombolo senza riparo nel baratro della corruzione. Fino a qui ci sono state cadute e ricadute, nessuno può ignorarlo; ma non sono state ancora definitive; se per un attimo l’anima apre i suoi occhi accantonando la delusione e la disperazione, vedrà che il male non ha ancora prevalso sulle forze del bene.

Tuttavia nell’attuale epoca dell’anima cosciente queste forze, per continuare ad operare sulla terra, devono trovare degli spiriti umani meritevoli, in grado di incarnarle e interpretarle. Gli amici romani dell’Antroposofia sanno di aver avuto tra loro fin poco tempo fa, e proprio in questo senso, alcuni aiutatori indimenticabili, il cui valore, umanamente espresso fino all’ultima stilla, ha fatto da barriera al dilagare generalizzato di tanti malfattori irresponsabili.

Ma essendo tali forze oramai misconosciute, o tutt’al piú ridotte ad argomento di arcane congetture nonché a forme incresciose di retorica aneddotica, quel che rimane nel fondo delle anime prive di guida va inevitabilmente a legarsi a forme illusive di rinascita e di ripresa, sognate come pianticelle senza radice.

Necessita allo stato attuale con ancora maggior urgenza, che proprio dalla popolazione, anche se ingenuamente o furbescamente estraniata al succedersi degli eventi, sorga il rifiuto, fermo e irremovibile, di un ulteriore decadimento. Si può cominciare da quella che è la base di ogni società civile: comportarsi in modo corretto, leale, direi in modo pulito, da cittadini consapevoli che il suolo calpestato è il con-sunto della loro storia, della loro tradizione e di quella religiosità che fece di Roma il luminoso fulcro spirituale dell’antichità.

Altrimenti rimane sempre, l’ultima dea: la Speranza. Tuttavia, per dirla con Francesco Bacone: «La speranza è un’ottima colazione, ma una triste cena».

Dopo 2.770 anni, dubito che qualcuno possa pensare che per Roma e per i romani sia ancora l’ora della colazione.

 

Angelo Lombroni