Il tempo vero non passa: è il passare stesso che si dà come simbolo di un’entità che non si afferra se non per via di segni sensibili fissanti il suo fluire, ma che, in realtà, in ogni punto in cui si crede fissare, è perduta.
Ciò che ogni volta può essere sentito come perduto, o mai afferrato, è il tempo: non contemplabile allo stesso modo che un luogo dello spazio: non fissabile come lo spazio, la cui realtà è essere fuori del tempo — gli oggetti non conoscendo né un “prima” né un “dopo” mentre la sua irrealtà è valere come spazio sensibile gli oggetti non conoscendo né un “dinanzi” né un “dietro”, né una destra né una sinistra.
Lo spazio in cui l’uomo mai penetra e al quale, non sapendolo, anela: lo spazio che egli può percepire come trama sovrasensibile, è il tempo. Ma il tempo non misurabile.
Il tempo misurabile è il tempo perduto: quello di cui i filosofi dicono che non essendo è ed essendo non è, in quanto viene da essi considerato nel suo puntuale divenire. Nella sua astrattezza è il tempo misurabile, il cui esserci è appunto il suo venir riferito a un determinato momento che non c’è mai: non c’è, infatti, se non come sentimento, suscitato dal pensiero, ma dal pensiero legato alla misurabilità.
Tempo proiettato in un passato che si rievoca o in un futuro che s’imagina, di cui tuttavia ogni determinazione, per il suo necessario trascorrere, viene fissata in correlazione ad altri momenti, essi stessi determinabili come segni di ciò che non sí ha mai: ogni momento essendo la cancellazione degli altri.
La continuità, infatti, è la segreta cancellazione che di ogni momento compie nel profondo l’interiorità umana. Ma, essendo l’interiorità che non percepisce se stessa, essa vive nei momenti di continuo perduti, non nella continuità che attua in sé, inconsapevole, mediante il trascorrere di quelli.
Il tempo che l’uomo sente o pensa, è reale soltanto in quanto egli non lo percepisce: senza saperlo, egli lo attua in sé, proprio in quanto non lo fissa: ogni volta perdendolo. Ma dando valore ad esso unicamente per quello che è in quanto lo misura.
In verità l’uomo deve perdere il tempo perché manca della coscienza della continuità che realizza nel liberarsi dei momenti del tempo che misura: non sa di liberarsi, perché non conosce in qual modo veramente il tempo lo aiuti, fluendo, non veduto.
Onde concepisce un tempo infinito come eternità: eternità astratta che imagina come il prolungarsi indefinito della successione temporale: un eterno tempo atteso e perduto: puntualmente perduto, perché di esso mai un attimo egli coscientemente libera dalla transitorietà: sempre il successivo essendo quello atteso.
Mentre il tempo non passa. L’attimo, invero, non è fuggente, perché non è neppure l’attimo determinabile. Mai alcun attimo è stato fuggente, perché mai è stato veramente percepito.
Massimo Scaligero
Da: Segreti dello spazio e del tempo – 27 ‒ Tilopa, Roma 1963