La letteratura europea è nata nel segno dell’“amore” e della fedeltà alla donna amata, come espressione di nobiltà d’animo da parte dell’uomo. Si è formata dapprima in Francia dove, presso le corti di Eleonora d’Aquitania – a Parigi, in Aquitania, nel Poitou, e in Inghilterra («L’Archetipo», marzo 2017) – i trovatori, che fossero di origine aristocratica o meno, cantavano l’amore per la Dama prescelta, e composero i poemi del ciclo arturiano e del ciclo graalico.
A muovere i cavalieri della Tavola Rotonda non fu soltanto la sete di gloria da conquistare mediante i combattimenti e le avventure cavalleresche. Spesso a ispirarli era l’amore per una Donna (dal latino domina), la Signora del loro cuore. E a lei dedicavano ogni vittoria.
Quando dalla Francia l’ispirazione trobadorica fluí in Germania, sorsero i Minnesänger, “cantori d’amore”, che usarono come lingua l’Alto-tedesco medio. Fra di loro i piú celebri e i piú grandi furono Wolfram von Eschenbach (1170 circa-1220 circa), autore del poema Parzival, composto intorno al 1210, e Gottfried von Strassburg (circa 1180-1215), che scrisse il poema Tristan intorno al 1210, sull’appassionata e tragica storia d’amore che uní Tristano e Isotta la Bionda.
Anche in Italia la letteratura in volgare è nata dai poeti che s’ispiravano all’”amor cortese”. Sorse dapprima la Scuola siciliana, poi quella toscana, di seguito lo Stilnovismo, che si sviluppò tra il 1280 e il 1310 a Firenze. Fu Dante a dargli il nome di “Dolce Stil Novo” nel canto XXIV del Purgatorio.
La Scuola siciliana
Il ciclo vitale di questa corrente filosofico-letteraria si estese dal 1166, anno dell’incoronazione a re di Sicilia di Guglielmo II di Altavilla, al 1266, anno della morte di Manfredi di Svevia. Raggiunse l’apogeo durante il regno di Federico II di Svevia (1194-1250), nella prima metà del XIII secolo. I poeti siciliani erano funzionari di corte, che esercitavano la poesia per puro diletto. I componimenti della scuola, redatti in “siciliano aulico, o illustre”, parlato cioè dai nobili e dalle persone colte, che conoscevano il latino e la lingua d’oc, ci sono giunti quasi tutti trascritti da un copista che ha reso in volgare toscano il siciliano, difficile da comprendere.
Federico II
Era figlio dell’imperatore Enrico VI Hohenstaufen e di Costanza di Altavilla, la cui famiglia, normanna, regnava sulla Sicilia. Dovette combattere non poco per affermare il proprio dominio sui feudatari tedeschi e normanni (1198). Nel 1220, promettendo al papa Onorio III di condurre una crociata, riuscí a ottenere la corona del Sacro Romano Impero in San Pietro.
Di grande importanza fu la sua attività di legislatore. Con le Costituzioni di Melfi (1231) mise ordine nel Regno di Sicilia, avviando quel processo di accentramento del potere nelle mani del sovrano e dei suoi amministratori, che avrebbe portato in futuro alla formazione degli Stati nazionali.
Federico II affrontò anche i Comuni della Lega Lombarda, gelosi della propria indipendenza, ma fu egli stesso alieno alla sottomissione ai papi, tanto che subí piú di una scomunica.
Per la sua grande cultura, per la straordinaria intelligenza, per la nobiltà del modo d’essere e i comportamenti che suscitavano ammirazione fu definito “Stupor mundi”. Egli stesso poeta, a lui sono attribuiti un sonetto e una canzone in forma di dialogo con la sua Dama.
Canzone
«Dolze mio drudo, e vaténe!
Meo sire, a Dio t’acomano,
che ti diparti da mene
ed io tapina rimanno.
…Or se ne va lo mio amore,
ch’io sovra gli altri l’amava;
biasmomi, dolze Toscana,
ch’e’ mi diparte lo core».
«Dolce mio innamorato, allontanati!
Mio signore, a Dio ti raccomando,
che ti separi da me
ed io disperata rimango.
…Ora se ne va il mio amore
che sopra ogni altro amavo;
mi dolgo, dolce Toscana,
perché egli mi spezza il cuore.
«Dolze mia donna, lo gire
non è per mia volontate,
che mi convene ubidire
queli che m’à ’n potestate:
or ti conforta s’io vado
e già non ti dismagrare,
ca per nulla altra d’amare,
amor, te non falseraggio.
«Dolce mia donna, l’andare
non è per mia volontà,
ché mi conviene ubbidire
a quelli che mi hanno in potestà:
ora confortati se vado
e non ti scoraggiare,
che per nessun’altra d’amare,
amore, non ti tradirò».
«Vostro amor è che mi tène
ed àmi in sua segnoria,
ca lealmente m’avene
d’amar voi sanza falsía.
Di me vi sia rimembranza,
no mi aggiate ’n obría,
ch’aveste in vostra balía
tuta la mia disïanza…».
«È il vostro amore che mi tiene
e mi ha in suo dominio,
perché lealmente mi capita
di amarvi senza falsità.
Di me abbiate ricordo,
non dimenticatemi,
perché aveste in vostro potere
tutto il mio desiderio…».
Jacopo da Lentini
Nato a Lentini (1210 circa -1280 circa), in provincia di Siracusa, esercitava la professione di notaio. Fu uno dei piú importanti, se non il maggiore poeta della Scuola siciliana e creò il sonetto. Funzionario presso la corte di Federico II, Dante lo cita nel XXIV canto del Purgatorio come simbolo di tutta la Scuola siciliana. E insieme a lui, “ ’l notaro”, nomina Guittone d’Arezzo, il migliore dei poeti toscani, anteriori alla nascita dello Stilnovo. La canzone di Jacopo, “Meravigliosamente”, è una tipica espressione della tradizione trobadorica.
Meravigliosamente
un amor mi distringe
e mi tene ad ogn’ora,
tanto bella mi pare.
Assai v’aggio laudato,
madonna, in tutte parti
di bellezze c’avete.
Non so se v’è contato
ch’eo lo faccia per arti,
che voi pur v’ascondete:
sacciatelo per singa
zo ch’eo no dico a linga,
quando voi mi vedite.
Meravigliosamente
un amor m’imprigiona
e mi tiene ad ogni ora,
tanto bella mi pare.
Tanto vi ho lodato
madonna, in ogni aspetto
delle bellezze che avete.
Non so se vi hanno detto
ch’io lo faccia per finzione,
per questo vi nascondete:
sappiatelo dai segni
ciò che non dico con la lingua,
quando voi mi vedete.
Canzonetta novella,
va’ canta nuova cosa;
levati da maitino
davanti a la piú bella,
fiore d’ogn’amorosa,
bionda piú c’auro fino:
«Lo vostro amor, ch’è caro,
donatelo al Notaro
ch’è nato da Lentino».
Canzonetta nuova,
va’ e canta una nuova cosa;
àlzati al mattino
davanti alla piú bella
fiore di ogni amorosa
bionda piú dell’oro fino:
«Il vostro amore, prezioso,
donatelo al Notaio
che è nato a Lentini».
La Scuola toscana
L’eredità poetica della Scuola siciliana, dopo la morte di Federico II (1250), fu raccolta dalla Toscana, i cui migliori poeti furono Bonagiunta da Lucca e Guittone d’Arezzo.
Quest’ultimo (1230 circa-1294) era un frate dell’Ordine della Beata Gloriosa Vergine Maria, che si prefiggeva come scopo la pacificazione dei forti contrasti tra Guelfi e Ghibellini.
Sebbene l’Ordine non contemplasse l’obbligo della castità, nel 1265 Guittone lasciò la moglie e i tre figli, nati dal loro matrimonio, per dedicarsi totalmente alla vita spirituale.
Il suo Canzoniere è ricco di 50 canzoni e 251 sonetti, che hanno come temi non solo l’amore ma anche la passione politica.
La sua piú famosa canzone è dedicata alla battaglia di Montaperti (4 settembre 1260), vicino a Siena, che fu combattuta tra i Ghibellini, condotti dai senesi, e i Guelfi, guidati dai fiorentini. La vittoria dei Ghibellini segnò il declino di Firenze, che aveva assolto, fino a quel momento, il compito di guida dell’intera Toscana. Grande fu il dolore di Guittone, che scrisse un lanh – termine provenzale dal latino medioevale planctus, “pianto, lamento”.
Ahi lasso, or è stagione de doler tanto
a ciascun om che ben ama Ragione,
ch’eo meraviglio u’ trova guerigione,
ca morto no l’ha già corrotto e pianto,
vedendo l’alta Fior sempre granata
e l’onorato antico uso romano
ch’e certo pèr, crudel forte villano,
s’avaccio ella non è ricoverata:
ché l’onorata sua ricca grandezza
e ’l pregio quasi è già tutto perito
e lo valor e ’l poder si desvia.
Oh lasso, or quale dia
fu mai tanto crudel dannaggio audito?
Deo, com’hailo sofrito,
deritto pèra e torto entri ’n altezza?
Ahi misero me, ora è il tempo di cosí tanto dolore
per ogni uomo che ben ama la Ragione,
che mi meraviglio s’egli trova guarigione,
e il pianto non l’abbia già portato alla morte,
vedendo la nobile Firenze, sempre fiorente,
per l’onorato antico costume romano,
che certo muore, crudele e forte villanía,
se ella in fretta non è soccorsa:
perché la sua onorata ricca grandezza
e il prestigio sono già quasi tutti periti,
e il valore e il potere se ne vanno.
Oh me misero, in quale giorno
fu udita una sventura tanto crudele?
Dio, come hai sopportato
che il diritto perisse e l’ingiustizia trionfasse?…
Il Dolce Stil Novo
Precursore dello Stilnovo o Stilnovismo fu Guido Guinizelli. Nacque a Bologna tra il 1230 e il 1240. Suo padre era giudice e lo divenne anch’egli nel 1268. Ghibellino, fu costretto all’esilio nel 1274 dopo la vittoria dei Guelfi, che presero il potere a Bologna. Si trasferí dunque a Monselice, in provincia di Padova, con la moglie, il figlio minorenne e il vecchio padre. Morí ancora giovane, nel 1276.
Fu inizialmente un seguace di Guittone d’Arezzo e della scuola siculo-toscana, ma aspirava a esprimere nella poesia, anche in quella d’amore, la sua sete di conoscenza. La poesia doveva essere mezzo d’interiore rivelazione.
Convinto difensore delle libertà comunali, ambiva alla formazione di un’aristocrazia spirituale.
Dante, nel condannare i Siciliani, Guittone d’Arezzo e Bonagiunta da Lucca, riconosce in Guinizelli il precursore e il fondatore del Dolce Stil Novo, cioè quella nuova corrente che rispondeva alle esigenze dei giovani poeti che volevano fare attraverso la poesia d’amore un’esperienza lirico-spirituale (Purgatorio XXVI).
Nella canzone-manifesto dello Stilnovismo, qui riportata, l’amore è anelito alla bellezza e alla perfezione, alla virtú, concetti che nel Medioevo s’identificavano, facendo rivivere l’antica idea greca del kalokagathos (kalòs kai agathòs), “il bello e il buono”, che per i Greci del V secolo a.C. costituivano un’unità inscindibile. Era un’epoca in cui, come scrive il grande poeta tedesco Friedrich Hölderlin (1770-1843), «gli dei camminavano fra gli uomini».
Al cor gentil rempaira sempre Amore
come l’ausello in selva in la verdura;
né fe’ Amor anti che gentil core,
né gentil core anti ch’Amor, natura:
ch’adesso con’ fu ’l sole,
sí tosto lo splendore fu lucente,
né fu davanti ’l sole;
e prende Amore in gentilezza loco
cosí propïamente
come calore in clarità di foco.
Foco d’Amore in gentil cor s’aprende
come vertude in petra prezïosa,
che da la stella valor no i discende
anti che ’l sol la faccia gentil cosa;
poi che n’ha tratto fòre
per sua forza lo sol ciò che li è vile,
stella li dà valore:
cosí lo cor ch’è fatto da natura
asletto, pur, gentile,
donna a guisa di stella lo ’nnamora.
Amor per tal ragion sta ’n cor gentile
per qual lo foco in cima del doplero:
splendeli al su’ diletto, clar, sottile;
no li stari’ altra guisa, tant’è fero.
Cosí prava natura
recontra Amor come fa l’aigua il foco
caldo, per la freddura…
Fere lo sol lo fango tutto ’l giorno,
vile reman, né ’l sol perde calore,
dis’omo alter: «Gentil per sclatta torno»;
lui semblo al fango, al sol gentil valore…
Splende ’n la ’ntelligenza del cielo
Deo crïator piú che ’n nostr’occhi ’l sole:
ella che intende suo fattor oltra ’l cielo,
e ’l ciel volgiando, a Lui obedir tole;
e con’ segue, al primero,
del giusto Deo beato compimento,
cosí dar dovría, al vero,
la bella donna, poi che ’n gli occhi splende
del suo gentil, talento
che mai di lei obedir non si disprende.
«Donna – Deo mi dirà – Che presomisti?»,
siando l’alma mia a lui davanti.
«Lo ciel passasti e ’fin a Me venisti
e desti in vano amor Me per sembianti:
ch’ a Me conven le laude
e a la reina del regname degno,
per cui cessa onne fraude».
Dir Li porò: «Tenne d’angel sembianza
che fosse del Tuo regno;
non me fu fallo, s’in lei posi amanza».
.
Al cuor gentile approda sempre Amore
come l’uccello nel verde del bosco;
né la natura fece Amore prima del cuore gentile,
né il cuore gentile prima che Amore:
come all’istante fu con il sole,
il cui splendore subito fu lucente
come non fu prima del sole;
e Amore è affine alla gentilezza
cosí esattamente
come il calore alla luce del fuoco.
Il fuoco dell’Amore fa presa nel cuore gentile
come la virtú nella pietra preziosa,
il cui valore non discende dalla stella
prima che il sole non la renda cosa gentile;
dopo che il sole ne ha eliminato
con la sua forza ciò che vi è di vile,
la stella le dà valore:
cosí il cuore che è reso dalla natura
eletto, puro, gentile,
della donna che è come una stella s’innamora.
Amore per questa ragione sta nel cuore gentile
come il fuoco in cima alla torcia:
splende a suo diletto, chiaro, nobile;
non potrebbe essere altrimenti, tanto è fiero.
Per questo la natura inferiore
contrasta Amore come fa l’acqua con il fuoco
caldo, con la sua freddezza…
Il sole colpisce tutto il giorno il fango,
che resta vile, né il sole perde il calore,
dice l’uomo altero: «Sono nobile di schiatta»
lo paragono al fango, l’anima gentile al sole…
Splende nell’Intelligenza del cielo
Dio creatore piú che ai nostri occhi il sole:
Essa comprende il suo fattore oltre il cielo,
e ruotando il proprio cielo accetta di obbedirgli;
e come segue, al primo,
il giusto compimento del volere di Dio,
cosí dovrebbe, in verità,
la bella donna, dopo che agli occhi splende
del suo innamorato, dare il desiderio
di non negarle mai la sua ubbidienza.
«Anima – Dio mi dirà – Che presumesti?»,
stando l’anima mia davanti a lui.
«Attraversasti il cielo e fino a Me venisti
e desti parvenza di Me a un amore terreno:
mentre solo a Me spetta la lode
e alla regina del reame divino,
per cui cessa ogni peccato».
A Lui dirò: «Aveva aspetto d’un angelo
che venisse dal Tuo regno;
non vi fu peccato in me, se di lei m’innamorai».
Guido Cavalcanti
Nato a Firenze nel 1255 da una delle piú nobili famiglie della città, vi morí, ancora giovane, nell’agosto del 1300. Fu il poeta piú originale dello Stilnovo e uno dei maggiori lirici della nostra letteratura.
Raffinato nel comporre versi, ma introverso e solitario, ebbe un temperamento intransigente e impetuoso, che lo portò a esporsi nelle lotte politiche, al punto che l’amico Dante, fra coloro che guidavano il Comune e guelfo bianco come lui, fu costretto, il 24 giugno del 1300, a comminargli il confino a Sarzana, in provincia di La Spezia. Purtroppo vi contrasse la malaria, che non guarí neppure dopo il suo ritorno a Firenze e lo portò rapidamente alla morte.
La sua poesia è velata da un senso di pessimismo, come fosse consapevole di un destino che lo avrebbe condotto a una morte prematura. Anche l’amore è visto, non come fonte di gioia e di elevazione spirituale ma di tormento del corpo e dell’anima. Questo si evince dalla sua produzione poetica e dalla sua piú celebre canzone: “Donna me prega”.
Ebbe fama di miscredente ed epicureo. Suo padre, Cavalcante dei Cavalcanti, fu posto da Dante tra gli eretici (Inferno X), perché era ateo e non credeva alla sopravvivenza dell’anima.
Lontano era il tempo della giovinezza, quando Dante gli aveva dedicato un famoso sonetto delle Rime, composto secondo lo stile dell’ “amor cortese” provenzale: «Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io / fossimo presi per incantamento, / e messi in un vasel ch’ad ogni vento / per mare andasse al voler vostro e mio…».
Dal “Trattato d’amore”:
I’ vivo di speranza: e cosí face
ciascun ch’al mondo vene, al mi’ parere;
e poi mi veggio compagnia avere
di tanta buona gente, dòmmi pace.
Tuttor aspetto e l’aspettar mi piace,
credendomi avanzar lo mi’ podere:
cosí segue ciascun questo volere
e ’n sí fatto disio dimora e giace.
Ma tutta volta ci è men tormentato
quei che si sape acconcio comportare
ciò che ne lo sperare altrui avene.
Non dich’io questo già certo per mene,
che ’n nessun tempo l’ò saputo fare,
e s’or l’apprendo, l’ò car comperato…
.
Io vivo di speranza: e cosí fa
ognun che viene al mondo, a mio parere;
e dato che mi vedo in compagnia
di tanta buona gente, mi do pace.
Tuttora aspetto, ed aspettar mi piace,
credendo di aumentare il mio potere:
cosí segue ciascun questo volere
e in tale desiderio resta e giace.
Ma tuttavia è meno tormentato
colui che si sa bene comportare
ciò che nello sperare ad altri accade.
Non dico certo questo per maneggi,
ché mai nel tempo l’ho saputo fare,
e se or l’apprendo, caro l’ho pagato…
Dante Alighieri
Dante Alighieri nacque a Firenze, da una famiglia nobile ma non ricca, nel 1265 sotto il segno dei Gemelli.
Le sue prime prove poetiche risalgono all’età di diciotto anni, avendo aderito consapevolmente allo Stilnovo, una scuola poetica che si dichiarava innovatrice e riformatrice. Si legò cosí d’amicizia non solo con Guido Cavalcanti e Lapo Gianni, ma anche con Cino da Pistoia e Dino Frescobaldi, anch’essi giovani poeti dello Stilnovo.
Appassionato di politica, apparteneva alla fazione dei Guelfi Bianchi, per tradizione familiare, ma era geloso delle libertà comunali, che intendeva fossero difese sia dalle ingerenze dei nobili e dell’Impero sia da quelle dei papi.
Nel 1300 divenne Priore, partecipando quindi attivamente all’amministrazione di Firenze, ma l’ambizione del papa Bonifacio VIII era di porre sotto la propria influenza tutta la Toscana. Pertanto Firenze, nel giorno di Ognissanti del 1301, fu occupata da Carlo di Valois.
I Bianchi furono perseguitati, aggrediti nelle persone e nelle proprietà e messi sotto processo.
Dante riuscí a fuggire, ma fu condannato in contumacia per “baratteria” (traffico illecito degli uffici pubblici e del denaro dello Stato), gli fu comminato l’esilio perpetuo e gli furono confiscati i beni. La condanna riguardò anche la sua famiglia: la moglie, Gemma Donati, e i loro tre figli.
Nei primi anni di esilio progettò con altri fuorusciti di rientrare nella sua città con le armi, ma fu sempre sconfitto. Inoltre, sollecitò la reazione dei Fiorentini all’ingiusta condanna che aveva subito.
Grande fu l’amarezza del Sommo Poeta che aveva creduto e lottato per una Firenze repubblicana e ora si trovava a dover girare per le corti dei principi per ottenere protezione e ospitalità.
Per tutto il resto della sua vita sperimentò «come sa di sale lo pane altrui» ossia l’umiliazione di chiedere ai principi il sostentamento, un “pane” che non era privo di sale come quello che ancora s’impasta a Firenze. Suoi grandi protettori furono Cangrande della Scala a Verona e Guido Novello da Polenta a Ravenna.
L’amarezza lo indusse ad avvicinarsi ai Ghibellini e ad ammirare Federico II di Svevia. Dante auspicava un Impero forte, che doveva rappresentare il potere temporale e che non subisse le ingerenze del Papato, al quale spettava unicamente il potere spirituale.
Tale fu l’avversione nei confronti di Bonifacio VIII, che considerava giustamente come il vero responsabile del suo esilio, che lo pose nell’Inferno, Canto XIX, quando ancora il suo nemico era vivo.
Dante terminò La Divina Commedia il giorno prima della sua morte, che avvenne a Ravenna il 14 settembre 1321.
Possiamo dire che la sintesi di questo grande poema sia nelle parole che Ulisse, l’eroe della guerra di Troia, rivolge ai suoi compagni di navigazione, appena prima di superare le Colonne di Ercole, come gli antichi chiamavano i promontori rocciosi che delimitano lo stretto di Gibilterra: «Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza» (Inferno XXVI).
Ulisse neppure da vecchio rinuncia alla ricerca dell’Ignoto, della Conoscenza che conduce alla Perfezione. È lo streben faustiano, verso il quale bisogna sempre tendere: lo “sforzo”, l’aspirazione all’Eterno, perché l’origine dell’uomo (la semenza) è divina e la Conoscenza è un nòstos, il ritorno alla propria divinità, è un “rammemorarla” (dal greco mnemèion, ricordo).
Dante nella visione di Massimo Scaligero e di Rudolf Steiner
In un incontro privato Massimo Scaligero disse che il Sommo Poeta avrebbe dovuto fondare a Firenze la Tripartizione sociale, ma ne fu impedito e allora usò tutte le sue grandi forze spirituali per scrivere La Divina Commedia.
Non si può considerare tale affermazione “infondata”, in quanto il sorgere dei Comuni nel XII secolo anticipa, preparandola, l’epoca dell’ “anima cosciente” in Europa e in Italia, che Rudolf Steiner pone nel 1492, anno nel quale Cristoforo Colombo approdò in America.
Con il nascere della borghesia che crea la propria ricchezza, sorge anche l’esigenza di una religiosità non sottomessa alla Chiesa. L’uomo, in quanto libero individuo, faber fortunae suae (“autore del suo destino”), non necessariamente respinge Dio e neppure dubita del proprio essere spirituale, ma la sua ricerca del Divino non dev’essere sottoposta a un’autorità religiosa esterna al proprio essere cosciente.
Questo processo si era già avviato nel XII secolo, anche se ci troviamo ancora nell’epoca dell’ “anima razionale-affettiva”. In fondo, la ribellione dei duchi di Aquitania, il non volersi sottomettere agli ordini del Papato, aveva come ragione profonda l’iniziale presa di coscienza, che a poco a poco si faceva strada in Europa, dell’interiore libertà degli individui.
Anche il formarsi nei Comuni di quei sodalizi chiamati Arti e Mestieri, entro i quali gli uomini si organizzavano, trovando un’unione d’intenti e di scopi, anche per eventuali reciproci aiuti, fu il segnale che, mediante le Istituzioni comunali, avrebbe potuto attuarsi la Tripartizione sociale.
Rudolf Steiner parlò di Dante Alighieri nei seguenti termini: «Abbiamo in Dante una personalità assolutamente eccezionale al termine del quarto periodo postatlantico. Possiamo contrapporre una tale personalità eccezionale a quelle personalità che hanno acquistato una certa importanza dopo l’inizio del quinto periodo postatlantico, come ad esempio Tommaso Moro. Guardiamo in modo speciale quello che in generale abbiamo conosciuto in una personalità come Dante». «Una personalità come Dante opera nel tempo dando ulteriori impulsi, dando impulsi in maniera significativa». «Per questa ragione – aggiunge il Dottore – una tale personalità, prima di entrare nell’esistenza fisica sulla Terra, che sarà importante per l’umanità, è necessario che nasca nella giusta maniera dalla giusta coppia di genitori per avere il “giusto sangue”, che non potrà mai essere omogeneo». «Appartenere a un singolo popolo per una tale anima è addirittura impossibile» e dovendo aver luogo «una misteriosa alchimia, devono confluire tipi diversi di sangue. …In Dante interagiscono tre elementi, e soltanto mediante l’interazione di questi tre elementi l’entità di Dante poté divenire quella che fu. In primo luogo, vi è attraverso certi membri della sua stirpe un elemento antico-etrusco. Da questo elemento Dante avrebbe ricevuto quel che gli dischiuse i mondi sovrasensibili. In secondo luogo, vi è in lui l’elemento romano che gli fa conquistare la giusta relazione con la vita quotidiana e il sorgere di certi concetti giuridici. In terzo luogo …vi è in Dante l’elemento germanico. Da questo egli ha il coraggio e la freschezza della visione, una certa franchezza e un saldo impegno rispetto a ciò che si è proposto» (Zeitgeschichtliche Betrachtungen, O.O. N° 173).
In un’altra occasione il Dottore spiega la connessione di Dante con i Templari: «Se si seguono gli insegnamenti dei Templari, allora vi è al centro ciò che veniva venerato come qualcosa di femminile. Questo elemento femminile veniva chiamato la divina Sophia. Il Manas è il quinto principio, il Sé spirituale dell’uomo, che dovrebbe sorgere, al quale doveva essere innalzato un Tempio. E come il pentagono dell’ingresso del Tempio di Salomone caratterizza l’essere pentapartito, cosí pure questo essere femminile caratterizza la Sapienza del Medioevo. Con la sua “Beatrice” non ha voluto rappresentare nient’altro che questa Sapienza. Perciò in Dante trovate gli stessi simboli che vengono a espressione presso i Templari, presso la cavalleria cristiana, i Cavalieri del Graal e cosí via. Tutto ciò che deve accadere viene preparato già molto tempo prima dai grandi Iniziati, i quali dicono quel che dovrà accadere in futuro nella maniera come avviene nell’Apocalisse, in modo che le anime siano preparate per questo evento» (La leggenda del tempio e la leggenda aurea, O.O. N° 93).
La Vita Nova
Donne ch’avete intelletto d’amore,
i’ vo’ con voi de la mia donna dire,
non perch’io creda sua laude finire,
ma ragionar per isfogar la mente.
Io dico che pensando il suo valore,
Amor sí dolce mi si fa sentire,
che s’io allora non perdessi ardire,
farei parlando innamorar la gente…
Angelo clama in divino intelletto
e dice: «Sire, nel mondo si vede
maraviglia ne l’atto che procede
d’un’anima che ’nfin qua su risplende».
Lo cielo, che non have altro difetto
che d’aver lei, al suo segnor la chiede,
e ciascun santo ne grida merzede.
Sola Pietà nostra parte difende,
ché parla Dio, che di madonna intende:
«Diletti miei, or sofferite in pace
che vostra speme sia quanto me piace
là ’v’è alcun che perder lei s’attende,
e che dirà ne lo inferno: O mal nati,
io vidi la speranza de’ beati».
Madonna è disiata in sommo cielo:
or voi di sua virtú farvi savere.
Dico, qual vuol gentil donna parere
vada con lei, che quando va per via,
gitta nei cor villani Amore un gelo,
per che onne lor pensero agghiaccia e pere;
e qual soffrisse di starla a vedere
diverria nobil cosa, o si morría.
E quando trova alcun che degno sia
di veder lei, quei prova sua vertute,
ché li avvien, ciò che li dona, in salute,
e sí l’umilia, ch’ogni offesa oblia.
Ancor l’ha Dio per maggior grazia dato
che non pò mal finir chi l’ha parlato.
Dice di lei Amor: «Cosa mortale
Come esser pò sí adorna e pura?».
Poi la reguarda, e fra se stesso giura
che Dio ne ’ntenda di far cosa nova…
Questa canzone, che in sé racchiude ed esprime i temi e i concetti fondamentali dello Stilnovismo, fa parte della Vita Nova (cap. XIX), scritta da Dante probabilmente poco dopo il 1292.
Beatrice (1266 circa-1290) è stata identificata nella figlia di Folco Portinari, sposata con Simone de’ Bardi. Il Boccaccio, commentando La Divina Commedia, conferma tale identificazione.
Beatrice, dunque, aveva oltrepassato la Soglia dei Mondi spirituali nel 1290 e Dante, per superare il dolore, ripercorse la storia del suo amore per questa giovane donna, che aveva fatto di lui un “uomo nuovo”.
L’aveva incontrata per la prima volta all’età di nove anni e il futuro poeta, maggiore di un anno, sente che non dimenticherà mai piú quella bimba di otto anni. È il riconoscimento dell’ “anima gemella”, il presagio di un destino d’amore che li legherà per sempre: di un amore preesistente alla loro nascita sulla Terra, un amore immortale, che vivrà oltre i limiti del Tempo, immergendosi nell’Eterno. Beatrice, di Dante, è la “sposa celeste”.
A diciotto anni il poeta rivede la donna amata. Tornato a casa, nella sua stanza, ha la visione del dio Amore che porta in braccio Beatrice addormentata. Il dio desta la giovane e le dà da mangiare il cuore del poeta, poi se ne va piangendo e portando Beatrice, di nuovo addormentata, fra le braccia.
Dante non sa interpretare questa visione onirica e, mediante un sonetto, chiede ai suoi amici, i “Fedeli d’Amore”, di aiutarlo a capire.
La Vita Nova è il preludio a La Divina Commedia, perché dall’amore è scaturito l’impulso alla conoscenza: Beatrice è per Dante la personificazione della Filosofia, nel senso letterale del termine, di “amore per la Sapienza” (dal greco filéo e Sofia). Questo amore, sbocciato nell’infanzia, è divenuto sofianico, perché tale era dalle origini nella sua essenza.
Il sogno del Sacro Amore
Tutta la poesia medioevale, da quella provenzale al Dolce Stil Novo, compresi i poemi, risponde a un disegno divino: far sí che gli uomini, già pronti per tale scopo, nutrissero platonicamente l’amore, per preparare un altro tempo, nel quale sarebbe divenuto possibile vivere pienamente l’amore di coppia come Sacro Amore, amore graalico.
Il Cristo si è incarnato sulla Terra e vi ha portato l’Amore, che a poco a poco dovrà essere compreso dall’umanità in tutta la sua immensa portata.
In epoca lemurica e atlantidea l’uomo e la donna si univano sessualmente senza amore. I matrimoni venivano decisi dalle famiglie in base a criteri che escludevano rigorosamente il sentire. Ciò che le unioni dovevano assicurare era la prole. Inoltre, spesso si univano i patrimoni.
Questo è accaduto fino a tempi relativamente recenti in tutti i popoli, orientali e occidentali. In verità, in certi ambiti ancora accade, laddove l’Io non è ancora bene incarnato e il suo influsso non riesce a penetrare le azioni degli uomini.
Ma non doveva essere cosí per sempre, perciò l’Europa fu preparata al Vero amore, al Sacro Amore, attraverso l’arte poetica, soprattutto nei secoli XII e XIII, affinché dal secolo XX in poi fosse possibile seguire e vivere la Via del Sacro Amore.
Il compito di sviluppare questa Via è stato assegnato dal Mondo spirituale all’Italia, e Massimo Scaligero si è dedicato con tutto se stesso a tale compito.
Due sono stati i pilastri del suo insegnamento: il pensiero vivente, che egli dovette riporre al centro del vasto magistero di Rudolf Steiner, e l’Amore, come Via per giungere al Graal; tema, quest’ultimo, trattato soprattutto in Dell’Amore immortale (Roma 1982) e in Graal – Saggio sul Mistero del Sacro Amore (Roma 2001).
Molte sono state, sono e saranno le coppie graaliche incarnate sulla Terra, alle quali il Mondo spirituale chiede di assumere la decisione “eroica” di dedicarsi al Santo Graal, perché il mondo attende di essere trasformato dal loro Amore.
Se entrambe le parti di un Androgine sono presenti sulla Terra, è fatale che s’incontrino e che dal loro incontro scaturisca l’amore: che deve divenire Sacro, in assoluta fedeltà, dedizione all’altro e devozione al Cristo.
Questo ci ha insegnato Massimo Scaligero. Questo è quanto il Mondo spirituale vuole, anche se le coppie graaliche dovranno superare prove che le potenze dell’Ostacolo ergeranno dinanzi a loro per separarle. Troppo importante è l’Amore che li unisce per il presente e il futuro del mondo!
Alda Gallerano