Un tardivo fiammeggiare di eriche selvagge nel mare giallo oro dei narcisi, i daffodil, come li chiamano gli Inglesi, e tromboncini nel lessico popolare nostrano. L’erica è detta fox tail, coda di volpe, poiché ricorda in qualche modo la coda del piú astuto degli animali emergere rossigna nella folta erba dei prati. Siamo agli inizi di aprile, il mese che Eliot, nel suo Waste Land, definisce il piú crudele perché risveglia memoria e desiderio. Ma qui, ora, in Scozia, aprile è dolce, ovattato di leggere brume che a tratti il sole mite dirada scoprendo un tenero cielo da acquerello. Perché venire in Scozia? Un’enciclopedia Anni Trenta ce ne fornisce un’assai forbita motivazione: «Nessun paese dell’Europa Nord-Ovest forse piú di questo è degno d’esser pensosamente visitato dai letterati e dai turisti giovani. Per la sua posizione presso l’estremo dell’Europa occidentale nordica, vero contrapposto della Grecia nell’estremo SudEst, la sfrangiata bizzarramente anch’essa in isole e penisole, dirupata ed alpestre, che una singolare anomalia volle associata alla nazione piú industriale dell’universo, sotto il cupo fantasioso cielo dei vecchi bardi, cosí diverso da quello azzurro e terso dei rapsodi omerici, è terra invero eminentemente suggestiva per l’anima delle generazioni nuove, che in questa Grecia nordica dalle eterne brume e dai malinconici fiordi flagellati dalle tempeste atlantiche, ove pur la volontà umana ha trovato in sé tanta forza di reazione da crearsi una storia originale insieme ad una vita presente di intenso lavoro, troveranno fonti di pensiero e di ispirazioni, e, ad un tempo, stimolo ad energie fattive utili nella vita moderna».
Uno strano modo di encomiare la Scozia, mettendola a confronto con un modello tanto diverso e superlativo per storia e costumi come quello della Grecia classica. Dopo aver letto il testo descrittivo, qualunque potenziale turista di buon senso avrebbe smistato i suoi progetti di viaggio dalla brumosa Caledonia alla solare Ellade. La ragione di tale ambiguità in una voce enciclopedica potrebbe ricercarsi in due fattori contingenti. Il primo è che quando l’enciclopedia in questione venne elaborata, vigeva in Italia un regime che aveva in uggia tutto ciò che riguardava “la perfida Albione”, senza distinzione di latitudine, il secondo potrebbe riferirsi alla genetica predilezione dei latini per tutto ciò che si trova a Sud-Est, per dirla con l’estensore della nota corredante la voce enciclopedica.
I Romani antichi cercavano ogni cosa – che fosse un regno, una cultura, un’avventura galante, persino i guai – a Sud-Est. Cleopatra insegna. Il grande Cesare per primo se ne invaghí, rischiando di vendersi Roma ai vezzi di un’ètera di stampo aristocratico, e non casualmente greca di origine, essendo lei una Tolomei, quindi una macedone. Ebbene, il conquistatore delle Gallie, quando nel 55 a.C. comandò la spedizione che dall’estuario del Reno nel nord della Germania avrebbe dovuto prendere possesso della Britannia meridionale, l’Anglia, risalí per qualche miglio il Tamigi, costruí dei fortini con presidi militari, uno dei quali divenne poi la città di York, ma lo fece per onorare le insegne di Roma, una semplice operazione di conquista. Il paese era detto degli Angli perché il biancore della loro pelle aveva un che eterico. Ma le loro donne ignoravano creme e belletti, si tingevano con i colori di guerra combattendo alla pari con gli uomini, a testa scoperta, i capelli rossicci attorti in trecce nodose. Una di esse, Boadicea, o Bodicca, sotto Nerone, capeggiò una rivolta armata che mise in serie difficoltà il dominio romano in Britannia. Alla larga, quindi, dovette dirsi Cesare, riguadagnando il continente, deciso piú che mai a volgersi a Sud-Est per compiervi imprese militari e diversive. Meglio i pirati dello Ionio sulle loro svelte feluche, la cui rapida manovrabilità doveva dare piú tardi ad Agrippa la vittoria navale di Azio su Marcantonio. Insomma, meglio il deserto egizio che le tenebrose plaghe nordiche, dove i druidi compivano sortilegi con il vischio evocando entità sconosciute. Queste cose erano ben vive nell’immaginario comune e dovettero rendere pensosissimo il generale Giulio Agricola quando, in un certo giorno dell’anno 82 d.C., ricevette l’ordine di muovere con una legione in assetto di guerra dal presidio dello Yorkshire e a tappe forzate raggiungere la Britannia del Nord. I Pitti e gli Scoti della Caledonia coalizzati avevano formato un esercito e minacciavano le comunità delle Basse Terre sotto il dominio romano. Razzie, incendi, rovine e le violenze connesse.
Agricola affrontò la coalizione dei Caledoni sul Mons Granpius, i Grampiani, e li sconfisse in una battaglia di poca storia. La macchina da guerra dei Romani era troppo per un esercito spurio e raffazzonato come quello dei clan di Pitti e Scoti, cui non mancava certo il valore dei combattenti e la determinazione a ricacciare indietro l’invasore. Difettavano semmai di strategia e di tattica, oltre che della ferrea disciplina per cui le legioni romane eccellevano. Ma nonostante la sconfitta, i Caledoni non si arresero e diedero filo da torcere ai presídi romani per anni. Calando dalle Highland, le Alte Terre, un territorio montagnoso che facilitava l’occultamento e l’elusività, i clan compivano incursioni e razzie sia ai danni delle comunità affiliate ai Romani sia osteggiando militarmente i forti che gli occupanti andavano erigendo in vari punti del territorio britannico. Molti di questi castra diedero vita nel tempo a insediamenti urbani, integrando i militi delle guarnigioni ai nativi britanni e ponendo le basi per lo sviluppo di città come Glasgow, Edinburgo, Newcastle.
Perdurando tuttavia l’ostilità dei clan scozzesi, irriducibili e refrattari a ogni compromesso, l’imperatore Adriano, che visitò la regione nel 122 d.C., ordinò la costruzione di un vallo fortificato che, correndo dal Mare di Irlanda a quello del Nord, isolasse la Caledonia dei clan dalle popolazioni britanniche, costituendo di fatto un limes, un confine territoriale e politico protetto. Ma poiché i muri, come la storia ha poi dimostrato, pur contenendo in sicurezza dagli assedi chi se ne circonda, non bastano a contenere le ondate di odio degli assedianti, i quali, come invisibili catapulte, vi premono contro senza sosta né requie, il Vallo di Adriano non disinnescò l’astio degli Scozzesi per gli occupanti romani e cosí, venti anni piú tardi, il suo successore Antonino fece costruire un secondo muro, 160 chilometri piú a Nord. Dall’estuario del Clyde, sulla costa Ovest, a quello del Forth, sul Mare del Nord, 39 miglia, 63 chilometri di lunghezza per quattro metri di altezza di pietre assemblate dai legionari in turni speciali. Con il declino dell’impero, le guarnigioni in Scozia vennero dislocate a Sud a rinforzare il Vallo di Adriano. Ma era un abbandono piú che una ponderata strategia. Di lí a breve neanche il Vallum Aelium, il muro di Adriano, poté arginare l’invadenza dei clan delle Alte Terre, frattanto alleatisi con i Sassoni. Il Vallo di Antonino fu il primo a essere demolito dalle armate, e le sue pietre riutilizzate dalle popolazioni locali in vari modi. Alcune di esse sono tuttavia sopravvissute alle spoliazioni, al clima duro, al tempo. A Falkirk, lungo il canale che da Edinburgo va a Glasgow, se ne possono vedere dei resti.
Avanzi che dell’antica imponenza del Vallo fortificato con torri, bastioni e piattaforme per balliste, l’artiglieria di allora, conservano soltanto la prosaicità dei servizi igienici, segno eloquente della priorità che i Romani assegnavano a bagni e latrine, a qualunque latitudine spingessero le conquiste. Priorità che ovviamente seguiva nell’ordine e nella qualità edilizia quella delle strade per giungervi.
Ma a Falkirk è possibile vedere solo alcuni ruderi della massicciata di un fortino dalla vedetta panoramica che scorre lenta nel flusso del grande canale che asseconda l’antico tracciato del Vallo di Antonino tra i due mari. La gente non accorre però qui numerosa per i ruderi, del resto ormai quasi indistinguibili tra l’erba rada della brughiera che declina verso l’acqua. Vengono invece a frotte composte per sperimentare il brivido della Wheel of Falkirk, la Ruota di Falkirk. Un portento ingegneristico realizzato per ovviare al dislivello di 35 metri tra il Canale Clyde (Glasgow), Forth (Edinburgo) e l’Union Canal. Fino alla sua inaugurazione, il 24 giugno 2002, madrina la regina Elisabetta di cui ricorreva il Golden Jubilee, il dislivello tra i due importanti canali avveniva con l’impiego di 11 chiuse, con tempi oltremodo penalizzanti. Il congegno, consistente in un gigantesco ascensore ruotante, la Ruota, appunto, solleva le imbarcazioni dal bacino inferiore del canale proveniente da Est (estuario del Forth) e le immette nel flusso del canale che scorre nella direzione opposta, verso l’estuario del Clyde a Glasgow. Le navette dei visitatori, galleggianti nella massa d’acqua del bilanciere di sollevamento, scivolano silenziose e senza scosse, passando da un canale all’altro. Nessun brivido di freddo in tanta acqua gelata se non quello causato dalla vertigine dell’altezza, un palazzo di otto piani, affrontata dagli occupanti delle navette col tetto di plexiglass per meglio osservare la Grande Ruota mentre, in una prestazione da fantascienza, libra dubitosi umani su vortici di spuma. Il brivido cede però allo stupore: il nostro battello vetrato mostra sulla fiancata il nome “Antonine”.
Sulla navetta la hostess guida – una robusta quanto agile fanciulla dai tratti vichinghi – dopo aver rassicurato i passeggeri sull’assoluta affidabilità dello stupefacente quanto complicato congegno della Ruota idraulica, sulla perfetta tenuta e stabilità del battello e sull’efficienza dell’addetta agli ormeggi, fornisce dati storici sulla navigazione interna lungo i canali scozzesi, e in particolare di quelli che hanno danno vita all’ingegnoso ascensore di Falkirk. La sua glossa fatica a reggere l’inglese, causa i rigurgiti di gaelico, l’idioma di stampo celtico parlato dai clan delle Alte Terre, dalle popolazioni dell’Irlanda e di parte del Galles. Insieme alla contaminazione linguistica monta l’orgoglio nazionalistico che parla del regno di Scozia, degli Stuardi, della determinazione mai scemata nel tempo di essere indipendenti dagli Inglesi in politica, da Roma nel culto, dai protestanti nell’organizzazione ecclesiastica. Poi, ecco il battello sfiorare il sito con i resti del Vallo, un mucchietto di pietre porose, con tracce di muschio e licheni. Si fatica a immaginare che un tempo quei sassi disgregati abbiano contenuto gli instancabili assalti dei clan. Che però, conclude con un certo compiacimento la guida, alla fine costrinsero i Romani a tornarsene a casa senza averli mai domati. Ma allora, le chiediamo al termine della visita, peraltro godibile, come mai dedicare il battello ad Antonino, l’imperatore dei nemici, conquistatori mancati? La guida sorride e dice: «Ma lui era ok!». Perché, spiega poi convinta, Antonino aveva spostato il Vallo a Nord, facendo delle Basse Terre una provincia dell’impero e concedendo agli abitanti la cittadinanza romana. Piú che imperator, era pater patriae. Ecco allora che, grazie al buon ricordo lasciato, Antonino vive nei canali e nei cuori degli Scozzesi.
Non Cesare, dunque, non Agricola, venuti in Britannia con le loro legioni, non gli uomini in armi, ma un uomo della pietas romana, da cui il nome Pius, che non specificamente si riferisce alla devozione verso gli dèi ma alla capacità di fare propria la sofferenza altrui e porvi il giusto e solerte rimedio. La Constitutio Antoniniana, che concedeva la cittadinanza romana agli abitanti delle province, venne promulgata nel 212 a.D. da Caracalla, cosí come l’aveva definita Antonino.
Ma nella stessa Roma degli Spectacula gladiatores, tra gli intellettuali, sottotraccia, correva una vena di austerità e di rispetto della misura umana e sacrale che, partita dai precetti di Numa, passando per Publicola, Cincinnato e Catone, era approdata a Seneca, provando che non è tanto la religione a fare la morale, ma è la virtú del singolo a formarla ed esercitarla con un lavorío intimo, schivo, ostinato e silenzioso della coscienza. Quando ci riesce, allora la virtú diventa un’isola nel mare agitato delle passioni umane, un hortus conclusus in cui riparare per riprendere il discorso con il proprio Io e lo Spirito che con esso parla. La civiltà umana deve agli obiettori, spesso ignoti, della universale follia la propria sopravvivenza.
Il cristianesimo vero e puro si saldò con il paganesimo della virtus, della fides e della pietas, della humanitas e devotio, un paganesimo non idolatrico ma consapevole dell’origine divina della natura dell’uomo.
Eppure, l’apologetica cristiana, specie quella cattolica, ha da sempre disconosciuto la correlazione dei valori ideali, morali e spirituali del paganesimo, in particolare della romanità, con il cristianesimo. Si è invece sempre affermato con convinzione che la nuova religione si era diffusa tanto rapidamente perché rappresentava una sorta di incendio del mondo greco-romano, non trattandosi di una nuova ritualità venuta ad aggiungersi alle tante che si erano sovrapposte negli anni a quelle dell’antico paganesimo, ma sostituendo invece i riti e i miti della tradizione, svuotati ormai del loro reale significato simbolico, con una nuova semplicità e purezza di cui le popolazioni sentivano estremo bisogno.
Il pregiudizio che un cristianesimo vero e puro abbia spazzato via dalla storia un paganesimo fitto di vizi e crudeltà, di eccessi e complicazioni filosofiche, è comune a tutti gli esegeti delle dottrine religiose in generale e di quella evangelica in particolare. Questo modo di leggere la storia ha causato la demonizzazione del mondo antico prima di Cristo e dei personaggi che ne animarono le vicende. È innegabile che gli spettatori dei ludi gladiatori, abbandonandosi alla voluttà della strage, fossero soggetti adattabili al modello del pagano disumanizzato e arimanizzato, ma non possiamo ignorare le tante anime nobili che pur nella temperie di depravazioni di ogni sorta, comuni del resto a ogni epoca e società umana, specie quella che stiamo vivendo, coltivavano ideali di virtú e li praticavano.
Nello scenario delle filosofie ellenistiche, gli stoici vivevano una specie di esilio, un’emarginazione intellettuale e spirituale dovuta al fatto che la loro emancipazione culturale li rendeva avulsi dal contesto demografico delle società in cui vivevano. Inappagati dai dettami dottrinari formali, sopravvivevano conformandosi alle regole comuni alla meno peggio, simulando partecipazione oppure apertamente dissociandosi da una fede che non offriva strumenti di sublimazione. Quando finalmente arrivò il cristianesimo delle origini, gli stoici finalmente capirono di aver trovato, piú che una religione, un calco etico in cui calarono le loro aspettative di autorealizzazione, constatando che involucro e sostanza si compenetravano perfettamente.
Massimo Scaligero, in un suo articolo apparso su «Il Resto del Carlino» l’8 marzo 1940, scrive di questo intimo, quasi genetico collegamento dell’uomo romano con il sovrannaturale e il divino: «L’essenza delle antiche religioni greca e romana, il cui carattere pragmatico è la rispondenza perfetta del mondo sacrale a quello della politica e della civiltà – rapporto vivo e realistico, unione talmente creativa che difficilmente può essere intesa dai moderni nel suo completo valore – consiste non già nella divinizzazione superstiziosa degli elementi della natura, ma nell’assunzione di tali elementi come simboliche e manifeste espressioni della forza divina. …La religione di Roma sotto questo aspetto rimane ancora avvolta di un mistero che non tanto può venir penetrato per virtú di una cultura semplicemente quantitativa, quanto per un potere sottile d’intuizione superstorica. …Una volta penetrati nell’anima dell’antica concezione del divino, se ne comprende altresí lo spirito unitario che agisce al centro di quella che esternamente si presenta come una religione politeistica e come visione di una pluralità delle forze. Si tratta di un’anima cosmica e di uno spirito pitagorico: sacralità e realtà oggettiva per essi s’identificano e s’integrano. …Il senso della realtà, sensibilizzato nelle antiche forme degli dèi, costituisce ciò che poi sarà la fede nel senso cristiano. …La religiosità dei Romani, dunque, non tanto si effondeva nella espressione estetizzante del mito, quanto si traduceva in compiutezza di vita. …Occorre subito dire che per i Romani la religio significa qualcosa di piú che un essere devoti alla divinità: è un percepirla profondamente; è la sottile capacità di ascoltare il divino unita all’esercizio continuo di tale facoltà, con rispondenza adeguata dell’azione. …Occorre dunque una dignità interiore per ascoltare la voce del fatum: il rito e l’azione pratica completano questa comunione con l’invisibile. …In questa totalitaria conversione dell’elemento divino in realismo creativo, rispetto a cui l’unitaria creazione politica è una potenza di analogia riflessiva, consiste quella grandezza assoluta di Roma che è anzitutto …realtà psichica, ossia virtú altamente organizzativa dello Spirito».
E fu lo Spirito a organizzare in maniera virtuosa l’opera politica di tre grandi imperatori romani, Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio, tutti e tre seguaci della dottrina stoica, sublimata dall’innesto del nascente Cristianesimo grazie all’azione mediatrice di Paolo di Tarso.
Non solo. Il primo atto ufficiale di Adriano, il successore di Traiano, nel 118 d.C., fu di ampliare il Pantheon di Agrippa, fatto edificare da Augusto nel 27 a.C., dedicandolo alla Divinità Una, nella sua essenza cosmica e universale, oltre l’idolatria. E volle ripetere lo stesso concetto di cosmica universalità, fuori da ogni riferimento spazio-temporale, costruendo una fantasmagorica villa extra moenia a Tivoli, per enumerare tutte le meraviglie del mondo da lui conosciuto, per esibirne tutta la cultura e la propensione alla meraviglia e al portento magico, oltre che al piacere estetico. E affinché anche la sua morte non avesse nulla di ordinario, con il mausoleo-fortezza sulla riva destra del Tevere aveva fatto erigere un tabernacolo per accogliere la sua anima transeunte ma destinata all’immortalità.
Chi visita Castel Sant’Angelo può leggere nell’andito d’ingresso un’epigrafe con il ben noto breve poema dedicato appunto all’anima: «Animula vagula, blandula, / hospes comesque corporis, / quae nunc abibis in loca / pallidula, rigida, nudula, / nec, ut soles, dabis iocos», ovvero: « Piccola, spersa anima, soave/ tu ospite e compagna del mio corpo / ora ti appresti a scendere nei luoghi / senza calore, tenebrosi e spogli / non piú dedita ai tuoi soliti giochi». Un pagano che parla di anima, di un luogo oltre dove quell’anima vivrà una vita smaterializzata.
Antonino governò con paterna sollecitudine e in ascetica condotta. Marco Aurelio era vegetariano, dormiva sul nudo pavimento, scrisse le Meditazioni, «il piú alto codice morale che ci abbia lasciato il mondo classico», secondo Indro Montanelli.
Come profetizzato a Patmo dallo scrittore dell’Apocalisse di Giovanni, alla missione di Pietro, nel segno del Padre, di Paolo nel segno del riscatto umano dalla morte con il sacrificio del Figlio sul Golgotha, sarebbe seguita la missione non piú occulta ma ormai palese della missione di Giovanni nel tempo dello Spirito, che avrebbe ispirato i pensieri e le azioni degli uomini e delle donne di buona volontà per edificare la nuova società umana fondata sull’unica legge dell’Amore.
Ma la felice unione del paganesimo con il cristianesimo venne presto incrinata dai tentativi di recupero dell’Apostata, dalle innumerevoli eresie dottrinali delle varie scuole e chiese, dalle gelosie personali e contese gerarchiche. Sia i Giudei che Giuliano non capirono che il Cristo non ideava un’istituzione e meno che mai una rivoluzione, portava semmai la rivelazione che Dio si faceva uomo perché l’uomo si divinizzasse.
Era una fusione, però, quella tra Jahvè e il Cristo, troppo risolutiva per non suscitare la discesa in campo di forze avverse che escogitarono ogni possibile espediente e strumento per impedire che nella vita della civiltà umana scorresse il sotterraneo legame tra divinità e creatura. Quel filo della morale universale, seguendo il quale l’umanità potrà uscire dal labirinto della materia e acquisire le ali dello Spirito. La morale addomesticata che può accontentare l’anima perversa o rinunciataria ma non l’anima che deve guidare le azioni di un essere raziocinante che non è fatto per vivere come un bruto ma per seguire virtú e conoscenza.
Quest’anima insoddisfatta vivrà come in ostaggio, o peggio in esilio nel seno di una comunità che quella morale rabberciata avrà adottato come codice di comportamento. Si accoderà al modus vivendi generale, arriverà persino a trovarvi di che gratificarsi esteticamente ma non eticamente.
Quest’anima insoddisfatta vivrà nell’attesa di qualcuno o qualcosa che venga a portare la luce della verità, un messaggio, un annuncio messianico. E quando ciò avverrà, perché prima o poi la giustizia ripaga l’attesa, allora quell’anima si darà tutta e per sempre alla verità senza compromessi, senza patteggiamenti e riserve.
Chi persegue la conoscenza spirituale è nell’attesa, come gli stoici, dell’avvento di una religio interiore, basata sulla consapevolezza che la virtú non è stata imposta dalla divinità all’uomo perché supinamente la adorasse, venerasse, le bruciasse incensi e offrisse olocausti, digiunasse e si astenesse dagli eccessi e dalle perversioni. Decaloghi e pandette, tavole e libri vennero suggerite agli uomini delle varie epoche e religioni perché vivessero bene nella loro dura esistenza materiale, senza farsi del male gli uni con gli altri. Erano e sono dei semplici vademecum per vedere la giusta via nell’oscuro.
Come le costituzioni che secondo gli addetti ai lavori della politica dovrebbero, se aggiornate, risolvere l’impasse in cui si è ingolfata la nostra comunità nazionale e gran parte dei paesi globalizzati. La realtà è che mancano gli Antonini per farle applicare con il buon intento di procurare il maggior bene possibile al maggior numero di persone e il minor male possibile al minor numero di persone. Non è facile, poiché abbondano gli uomini di sapienza ma c’è una desolante carenza di quelli di saggezza e di pietà, ossia gli evergeti, come era Antonino. Alla moglie Faustina, che all’indomani della sua elezione al seggio imperiale, essendo diventata first lady, si proponeva di usare la sua posizione per acquisire beni voluttuari e materiali, disse: «Ma noi da oggi siamo i piú poveri di Roma, poiché tutto quello che possediamo appartiene allo Stato», e versò tutta la sua fortuna, milioni di sesterzi, nelle casse dell’Erario. E di ogni spesa, anche la piú insignificante, rendeva conto preciso al Senato.
Si invoca da piú parti l’uomo del destino, l’uomo forte, l’intransigente. Inane proposito. Ci vuole l’homo pius, che non sclerotizza la propria ricchezza in futili materialità transeunti, o peggio la nasconda nelle banche offshore delle varie Tortughe tropicali o transalpine, vero salasso per il bene nazionale acquisito con sacrifici e rinunce spesso ignote alle cronache mediatiche.
Cerchiamo Antonino. Prima o poi, gli dèi, presi da pietà per i nostri affanni, ce ne manderanno uno. Magari tre.
Ovidio Tufelli