Se dovessimo assegnare un nume tutelare alla presente civiltà, Mercurio sarebbe il piú adatto. I Romani gli riconoscevano, dei suoi tanti ruoli, quello di psicopompo, di “accompagnatore di anime”. Al termine di ciascun combattimento gladiatorio, eccolo sortire dal buio dei sotterranei del Circo, il viso coperto da una maschera, i piedi calzati dai talari, i sandali alati, con il caduceo, la verga magica nella destra, ordinare agli inservienti di trascinare fuori dall’arena il corpo dello sconfitto, che il pollice verso della folla aveva condannato a morte. Mercurio, l’Ermes dei Greci, ne avrebbe scortato il corpo martoriato attraverso i meandri dell’anfiteatro, e l’anima oltre, al tenebroso mondo dell’Ade.
Ma il dio non solo presiedeva alle carneficine – e questo sarebbe già un buon motivo per renderlo nume tutelare della nostra epoca di bombe intelligenti, di madri renitenti, di stragisti e terroristi di ogni genere e provenienza – egli era anche protettore dei ladri, degli imbroglioni, dei mercanti e dei viaggiatori. Come non riconoscergli quindi il patronato esclusivo morale dei moderni padroni dell’oro, dei dromomani e crocieristi, degli scalatori degli ottomila, di una umanità che ha il fuoco nei calzari?
Cosí facendo, però, noi commetteremmo l’errore, del tutto strumentale a giustificare il nostro malaffare, di voler cogliere nei tratti e nei poteri della divinità, quale che sia la sua natura e a qualunque culto e credenza appartenga, un riflesso delle nostre inadempienze e debolezze, per cui il ladro vedrebbe nella capacità elusiva di Mercurio, nella sua velocità operativa, la sua tendenza ad occultare e tenere nascosta ermeticamente la dimensione misterica, l’inganno, il mendacio, la doppiezza e la mancanza di parola. Ed è invece proprio la funzione di portatore della parola, del Logos, che gli stoici gli attribuivano.
Ma come, obbietteranno i piú, proprio lui, il dio del passaggio dell’anima in ombra, il trafficante con l’Erebo? Ebbene, sí, proprio lui, poiché i Greci ritenevano che solo chi conosce il nero dell’Averno può salire alle vette dell’Empireo e fiorire nell’Elisio, dal nero della radice al candore dei petali, dalla cupezza del bulbo marcescente al fiore immacolato.
Fu cosí che Mercurio ebbe dagli antichi frequentatori dei Misteri, oltre alla verga che poteva annientare o resuscitare, illuminare o sprofondare nell’oscurità dell’Ade, oltre ai calzari che lo rendevano ubiquitario in luoghi diversi nello stesso istante, anche l’erba magica Moly dal candido fiore. Per secoli mitografi, letterati e botanici hanno cercato di individuare la specie cui appartenesse in natura la pianta dal bulbo color della notte e la infiorescenza dalla nivea purezza. Ci provò Plinio nella Naturalis Historia, scrivendo: «L’erba moly è la piú famosa di tutte le piante, come testimonia Omero, il quale suppone che dèi stessi gli abbiano dato il nome e che da Mercurio fa scoprire le sue virtú salutari di rimedio contro ogni veneficio magico. Si dice che essa cresca ancor oggi nella regione del Peneo e sul Cillene in Arcadia e che, come lo descrive Omero, abbia una radice rotonda e nera della grandezza di una cipolla».
Ci ha provato anche Linneo che ne ha fornito un’indicazione botanica in due tipi di porri, l’allium moly e l’allium magicum. Altri l’hanno ravvisata nella ruta montana, nell’enula campana, i Persiani nell’erba apotropaica detta hom, i Siriani in quella definita besasa. Nella comune credenza popolare, la pianta è una quintessenza contro ogni veleno.
In questo senso essa agisce quando Mercurio la strappa dal suolo del Circeo e la dona a Ulisse perché inibisca il potere malefico di Circe, la maga famosissima, sacerdotessa ctonia, per costringerla a sciogliere dall’incantesimo i suoi amici, da lei resi porci perché avevano ceduto agli istinti.
L’erba moly di Ermes, connotazione botanica a parte, altro non sarebbe che il Logos che ispira la legge di vita dell’uomo razionale, il quale grazie ad esso riesce a mitigare i piú bassi istinti e le passioni. Eraclito parla appunto di phronesis, la perspicacia, la lucida razionalità. Secondo l’allegoria stoica, ripresa poi dalla morale cristiana, l’eroe che vince il maleficio non lo fa tramite un sussidio di magia ma per virtú di una consapevole, sofferta, diuturna opera di autoredenzione, e non piú da solo ma con il soccorso della grazia che le potenze divine gli concedono, nell’incessante lotta contro le forze del Male.
Ovidio Tufelli