Al pari dell’erba moly, la mandragora fa parte del vasto e variegato repertorio mitopoietico umano sin dai tempi piú remoti. Ma importanti elementi dividono le due piante: mentre il moly, l’erba di Hermes, innalza l’uomo alla sfera platonica degli astri, la mandragora lo immerge nelle viscere della madre terra. È il veleno di Circe, di omerica memoria, che trova il suo antidoto nel fiore luminoso di Mercurio, grazie al quale l’uomo, irretito dai poteri stranianti della magia, recupera il suo Io. Ma ancora una differenza divide le due infiorescenze: l’erba moly è di difficile connotazione botanica e geografica, tanto che la si è ravvisata, nel corso degli anni, in specie e aree diverse, mentre la mandragora, una solanacea, dalla caratteristica radice in forma di corpo umano acefalo, cresce specificamente nell’area mediterranea, dalla Spagna alla Turchia, con propaggini caucasiche.
Il nome le viene dal persiano murdum-gia, che significa “erba dell’uomo”, o anche istereng, i Greci la tradussero in mandragorai, i Pitagorici con anthropomorphon, la forma dell’uomo, la sua identità.
La tradizione ebraica ne fa menzione nei libri sacri. Il Genesi (30,14-16) narra di Ruben che coglie i dudaim, la mandragora di primavera, nel campo di grano prossimo alla mietitura, e ne fa dono a sua madre, Lia, che la cede poi alla sorella Rachele, la quale spera con la magica pianta di ravvivare gli slanci amorosi del marito. Del potere erotico della pianta e dei suoi frutti giallo oro si parla anche nel Cantico dei Cantici (7,14), quando la trepida sposa esalta “il profumo dei dudaim”, sperando che la magica erba faccia effetto.
L’avvento della scienza analitica e razionale ha relegato la mandragora nel repertorio dei rimedi al limite della magia, se non della stregoneria, ponendola in tal modo fuori dalla farmacopea ufficiale. Ciò fino alla fine dell’Ottocento, allorché, grazie ai metodi e agli strumenti piú avanzati delle analisi chimiche, nella radice della scopolia, parente stretta della mandragora, sono stati rilevati degli alcaloidi, come la scopolamina, che unita alla morfina offre tutta una serie di antidolorifici, come quello ormai in uso per alleviare i dolori del parto.
Ma come dice Pelikan nel suo L’Homme et les Plantes Medicinales, si guarderà alla mandragora come a tanti altri rimedi della farmacopea empirica degli antichi con occhi diversi, in grado di coglierne i poteri terapeutici con «una coscienza che si unisca intimamente all’essere della pianta e non alle sue componenti materiali. Poiché ‒ aggiunge ‒ gli antichi vedevano in ogni albero una Driade, in ogni pianta degli spiriti elementari, in ogni vegetale tossico dei demoni, o, come nella radice della madragora, rosseggiante alla luce del tramonto, la promessa che la tenebra calante sulla natura e sull’uomo, sarebbe stata vinta dalla luce».
Un metodo che noi tutti, dal ricercatore raffinato e colto all’uomo della strada, dovremo imparare ad applicare, se vogliamo cogliere, in tutto quello che ci circonda e consente alla nostra vita di essere e creare, la mano troppo a lungo ignorata dello Spirito. Allora, saremo tutti parte del vivente che dura.
Teofilo Diluvi