Tenue ma forte, quasi un giunco, il fusto,
grappoli di germogli pronti a schiudersi
lungo i rameggi tesi, braccia aperte
per dire quanta e quale fu la linfa
e la potenza che li spinse a emergere
all’aria, al sole, e farsi meraviglia,
per una sola volta: è il suo destino
che questa pianta sbocci e presto muoia.
Molti anni ha impiegato per fiorire
tra rovi, sassi e aliti salmastri
l’agave che solleva un ostensorio
esposto al mare, a un cielo ora sereno
ora in tumulto per la pioggia e il tuono!
Saranno venti gli anni, forse piú,
forse è bastata un’ora di incantesimo
lunare, una caduta di cinígia
stellare da combuste nebulose
per farne un portentoso candelabro
nel tempio dove il cantico dei cantici
di mille e piú ferventi creature
tesse lodi all’Eterno, che risponde
nel sussurro del vento fra i lentischi
o arde nell’incendio che consuma
la tamerice, il pino, la ginestra.
Forse in questo è il segreto per tramare
sogni di eternità che l’uomo ignora:
farsi cosa devota in umiltà,
segnale dell’occulto meccanismo
del nascere, fiorire e disfiorire
e di nuovo ripetere il mistero
dell’essenza che urge per esprimere
in parole, sorrisi, sguardi e gesti
la rara infiorescenza del pensiero.
Fulvio Di Lieto