I Quattro dell'Apocalisse

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I quattro dell'Apocalisse

I quattro cavalieri dell'ApocalisseSuona come il titolo di una pellicola da spaghetti western, pop, fracassona, tutto sommato innocua. Si tratta invece dei tetri e mortiferi cavalieri dell’Apo­calisse di Giovanni, a seconda della cavalcatura, nell’ordine: il cavallo bianco con l’arco, la conquista militare, il cavallo rosso, con la spada, le stragi e la violenza, il cavallo nero, con la bilancia, la carestia, il cavallo verde, con la falce, la morte e la pestilenza.

Formerebbero comunque tutti e quat­tro il preludio al castigo divino, che colpirebbe l’umanità, preda irrecuperabile del Male, alla fine dei tempi. C’è però, a ben guardare, uno status degenerativo che produce tutte le sopracitate iatture: la guerra. Variamente edulcorata e resa quasi accattivante con definizioni come “Il Grande Gioco”, metafora paradossale, adottata da Kipling per indicare gli intrecci e intrighi geopolitici orchestrati dalle grandi potenze, nello specifico Russia e Inghilterra, impegnate a stabilire, in forma esclusiva, la loro supremazia nello scacchiere indocinese, alla fine dell’Ottocento. Per i Romani era il Ludus Magnus, un gioco letale, e tuttavia morbosamente seduttivo per il popolo quirite, quasi irrinunciabile. Al punto che, quando mancava, se ne inscenavano parodie gladiatorie nelle arene, nei circhi e nelle naumachie. E ciò molto prima che i Flavi costruissero il Colosseo, nel 79 a.D., autentico tritacarne di uomini e bestie.

Il termine Ludus Magnus è rimasto a indicare, nella toponomastica dell’Urbe imperiale, la palestra in cui i ‘morituri’ si scaldavano prima di percorrere il tunnel sotterraneo, all’inizio dell’attuale via Labicana, che li avrebbe fatti emergere nell’arena, pronti a combattere per la vita nell’immediato e, nel futuro, per un eventuale affrancamento dalla schiavitú. In gioco la libertà, che fosse guadagnata con l’esercizio plateale della ferocia, o con la ancor piú dura acquiescenza del servo.

Anticamente le guerre, per ovvie ragioni climatiche, erano stagionali e appiedate. A parte gli equites, che per censo e disponibilità economiche andavano a cavallo, o su carri sempre a trazione equina, il resto della truppa marciava a piedi, con gli esiti che ciò comportava in fatto di debilitazione e malanni. Come la disastrosa traversata delle Piane di Gedrosia da parte dell’esercito macedone in ritirata dalla lunga, cruenta e futile campagna intrapresa da Alessandro per civilizzare i barbari orientali, nella fattispecie Persiani, Mongoli e Indiani. Se ne deduce che i dettami etico-filosofici del maestro e mentore Aristotele erano stati mal interpretati, o forse applicati non sul filo della logica ma su quello piú rapido e risolutivo della spada. Tagliando di netto il Nodo di Gordio, il conquistatore assurgeva a demiurgo, sovvertendo ogni legge e convenzione umana e assumendo il ruolo di signore del karma e del mistero.

Ma la legge del gladio, la corta spada in dotazione ai cittadini-soldati, che in caso di guerra confluivano nelle coorti e legioni, accordava un potere che andava disciplinato per impedire che tale forza sfociasse nel delirio di onnipotenza, come nel caso del re macedone, a danno degli umani e della divinità.

Lawrence Alma Tadema «Il Tubilustrium»

Lawrence Alma Tadema «Il Tubilustrium»

Ecco perché a scanso di equivoci e tentazioni, il 19 ottobre di ogni anno le armi di offesa in dotazione ai militari, come il gladium e il pilum, il giavellotto, ma anche la veruta, la spicula e il pugium, il corto pugnale per il corpo a corpo, venivano portate in solenne processione sull’Aventino, e dopo un rito di purificazione, l’Armilustrium, venivano depositate nel sacrario di Marte (oggi Giardino degli Aranci), sotto la sorveglianza dei Salii, i sacerdoti del dio della guerra. La cerimonia si svolgeva al suono festoso delle trombe, da cui anche il nome di Tubilustrium. Il ferro assassino veniva emendato dell’aver sparso il sangue dell’uomo e offeso gli dèi.

Per le armi i Romani nutrivano una specie di venerazione. Con le armi erano riusciti, migranti dalla Troade, a ritagliarsi una fetta di territorio tra il fiume e i colli, difendendolo con le unghie e con i denti da Sabini e Latini, prima di realizzare la finale integrazione con i protoitalici e dare vita al piú grande impero della storia umana. Le armi erano quindi oggetti sacri, e dopo averli macchiati con il sacrilegio del sangue versato, occorreva purificarli. Chi ne facesse un uso razionale per necessità, avrebbe inoltre potuto mantenere possibilmente la pace. Per questo era stato coniato un detto, diventato con il tempo dogma e credo: «Si vis pacem, para bellum», se vuoi la pace, prepara la guerra.

Ipocrisia, malafede di un tempo antico? Forse. Ma allora, in questa nostra epoca di grande civiltà conquistata in altri duemila anni, ipocriti e in malafede sono anche i governi nazionali che ritirano le patenti e le amministrazioni locali che sanzionano gli eccessi di velocità con gli autovelox, mentre si autorizzano le case automobilistiche a mandare sul mercato bolidi che toccano velocità da gran premio, o lo Stato che spaccia in monopolio sigari e sigarette, e tuttavia ne denuncia la pericolosità con frasi catastrofiche stampate sui pacchetti. Riguardo ai rischi del consumo massivo di tabacco si perpetra un altro inganno: si fa credere ai fumatori compulsivi che soprattutto le sigarette siano la causa maggiore delle affezioni polmonari, omettendo le responsabilità che hanno al riguardo anche gli scarichi delle auto, che diffondono nell’aria delle città veleni come il tallio, il toluene, lo zolfo, il piombo, l’anidride solforosa, le polveri sottili, per citare solo alcuni dei piú invadenti l’organismo umano a livello metabolico, cellulare e circolatorio, giungendo a disturbare le funzioni cerebrali con amnesie, perdita di ubiquità e difficoltà di concentrazione. Con ciò stornando sulle volute di fumo dei patiti della cicca le responsabilità dei miasmi dei motori a scoppio, vale a dire del petrolio che li fa girare, dei petrolieri che ci lucrano, delle Sette Sorelle, le multinazionali che gestiscono l’oro nero, il frutto del caos della Terra, dal pozzo al pipeline, alle pompe di distribuzione, ai serbatoi delle auto.

E non fanno parte delle ipocrisie e degli inganni i decaloghi, i comandamenti e i codici ispirati nei millenni dalla divinità agli uomini, che li hanno bellamente disattesi? Come ipocrita appare istituire un premio per la pace volendo impedire la guerra, ben sapendo che alla prima occasione, chi oggi ne denuncia la iattura, ne scatenerà una, magari inventandosi un nemico che gli insidia il potere conquistato. Un potere che escogita formule e strumenti per neutralizzare l’ipotetico nemico, che attenta ai suoi comodi e privilegi. Nobili ritrovati, ricette virtuose, macchinari del bene, il Nobel, ad esempio, che vuole premiare gli individui eminenti nelle varie attività umane, dalla scienza all’arte, dalla letteratura alla medicina, dall’economia al forte impegno umanitario.

Per chi non lo sapesse, Alfredo Nobel, che ha dato il nome al premio, ha inventato la nitroglicerina, da cui è derivata la dinamite, uno degli esplosivi piú potenti escogitati dall’uomo. Resosi conto di aver creato, utilizzando due elementi chimici – il nitrato di potassio, il comune salnitro, e la glicerina, innocui separatamente, ma dagli effetti devastanti se mescolati – Nobel ebbe una crisi di coscienza. Destinò parte del ricavato dal brevetto dell’esplosivo per istituire un premio in denaro da versare ogni anno a quegli individui che nei diversi ambiti della scienza, dell’arte, della letteratura, delle attività socio umanitarie e infine della pace, avessero contribuito al progresso dell’umanità.

È sempre cosí. Si compiono imprese che, oltre gli intenti ed esiti benefici di chi ne è l’autore, procurano anche cospicui danni all’ambiente e alle popolazioni. Il che può provocare, a volte, ripensamenti e crisi morali, anche estreme, nei responsabili. Ettore Maiorana, che lavorò con Fermi a via Panisperna per realizzare la fissione dell’atomo, e quindi al successivo impiego militare della scoperta, sparí misteriosamente, diventando, tra le tante ipotesi avanzate, un senzatetto in Sicilia. E Oppenheimer, l’illustre fisico che aveva sperimentato il primo ordigno nucleare ad Alamo Gordo, prima che venisse sganciata, contro il suo esplicito divieto, la bomba su Hiroshima, entrò in convento.

Beatrice FihnIl Nobel per la Pace 2017 è stato assegnato a Beatrice Fihn, direttrice esecutiva della ICAN, la Compagnia Inter­nazionale per l’Abolizione del Nucleare, con riferimento in particolare alle armi che per distruggere fanno uso del­l’energia atomica al posto della comune polvere da sparo. Alla lodevole campagna globale per l’abolizione delle armi nucleari partecipano 406 gruppi di 101 Paesi, compresi Cina, India e Pakistan. La motivazione del Premio assegnato alla ICAN nella persona della sua direttrice è stata cosí espressa: «Con questa scelta stiamo mandando un messaggio a tutti gli Stati che hanno armi nucleari affinché si avviino negoziati per la graduale eliminazione dal mondo delle 15.000 armi nucleari oggi esistenti». Il che fa capire che, tolti la Libera Repubblica di Andorra, forse San Marino, in dubbio la Città del Vaticano, al momento tutti i Paesi del mondo civile (si fa per dire) posseggono, intendono possedere, stanno provvedendo a munirsi al piú presto, di un’arma nucleare, e ciò ricordando la città di Tombstone, nel mitico West di Pecos Bill, dove la pace era garantita dal fatto che tutti, anche gli invalidi, le donne, i vecchi e i bambini possedevano una pistola. Se ciò fosse vero, e pare che lo fosse, oggi si dovrebbe provvedere a dare una o due testate atomiche alla Repubblica di San Marino, installando sul Monte Titano, unico spiazzo adatto al lancio, una rampa con vettori a lunga gittata.

Sembra tutto insensato, come la follia megalomane del nordcoreano Kim. Ma non sono stati forse altrettanto folli gli inglesi che hanno incenerito Dresda con le bombe al fosforo, gli americani che hanno lanciato “Fat Boy” su Hiroshima e insistito poi con l’Atollo di Bikini, Raratonga e Moorea, dove insieme ai francesi hanno provato l’effetto della bomba all’idrogeno sulla flora e la fauna di uno degli ultimi paradisi sulla Terra? Si è portati a credere che la pulsione che arma la mano del folle pistolero derivi dalla degenerazione di uno stato mentale dovuta a condizioni di degrado sociale, di indi­genza e miseria, da stress per superlavoro, insomma da fattori esterni, agenti in ambiti antropologici, cui l’individuo verrebbe sottoposto.

La cronaca direbbe il contrario. Lunedí 25 settembre scorso, alle ore 20.30, in pieno centro di Torino, da un’auto in corsa, una raffica di aghi d’acciaio viene sparata contro passanti ignari. Tre colpi, cinque feriti in modo serio. Si è pensato alla concomitanza del gesto con il G7 che si teneva nella città, è stato ricordato lo sparo insensato che alla Sapienza di Roma, nel 1997, aveva ucciso la studentessa Marta Russo, e gli altrettanto insensati lanci di sassi dai cavalcavia in diverse occasioni, con vittime persino. Ma gli anonimi sparachiodi di Torino, i nevrotici giustizieri ideologi dell’Università romana della Sapienza, appartengono tutti alla sempre piú comune e diffusa categoria umana degli adoratori del “bastone tonante”, come gli indiani pellerossa definivano i fucili che pionieri e pistoleri della corsa al­l’Ovest maneggiavano con bravura e spietata disinvoltura sia nell’opera di decimazione degli autoctoni, sia nel decimarsi tra loro.

Perché le armi in generale, e quelle da fuoco in particolare, hanno la sola funzione di diffondere la peste della violenza assassina, e pertanto potremmo tacciare di untori chi le usa, anche se si trincera dietro lo stato di necessità, oppure adducendo motivi di difesa del debole contro il prevaricatore, per salvare la libertà e la democrazia dei popoli, per salvaguardare la proprietà. Insomma, non mancano le ragioni ideali, morali e materiali per vestire di nobiltà e giustizia l’uso delle armi. Al punto che alcuni Paesi, vedi gli USA, hanno statuito l’uso legittimo delle armi da fuoco nella loro costituzione, stabilendo che ciò serve a garantire la vita, la famiglia e gli averi del cittadino comune. Questo avallo morale e legale delle armi da fuoco ne giustifica la produzione, la vendita e la detenzione. Non è raro, per un visitatore straniero, assistere alla scena dell’armilustrium  forzato ai guardaroba di teatri e cinema americani, o in quelli delle convention e congressi, ai party e conviti di nozze, persino negli ingressi di abitazioni private, eleganti signore e i loro compassati partner estrarre dalle borsette e dalle tasche pistole di ogni calibro e forma e porgerle con noncuranza agli addetti al servizio di accoglienza, che ne rilasciano, impassibili, regolare contrassegno.

Questa familiarità con le armi, la loro diffusa disponibilità, fanno sí che il loro possesso si svuoti della implicita natura bellica per assumere carattere di oggetto quasi ludico, tutto sommato privo di potenzialità offensiva, un giocattolo in fondo valutabile socialmente come deterrente difensivo, sancito dal diritto e dal costume di una nazione che vi ha fondato la propria contrastata civiltà. Celebre il detto americano che recita al riguardo: «Dio ha creato gli uomini, Colt li ha resi uguali», riferendosi all’inventore della pistola a tamburo rotante, quella del cavaliere senza macchia e senza paura, modello presto offuscato dalla realtà delle sfide e dai duelli, come l’OK Corral, dove la futile mattanza rivela la degenerazione nell’impiego dell’arma e la dissacrazione del mito del solitario tutto coraggio e lealtà.

Stephen PaddockIl punto di arrivo della degenerazione e della dissacrazione è stato raggiunto domenica 1° otto­bre a Las Vegas. Alle ore 22.08, Stephen Paddock, un benestante pensionato di 64 anni, si è appostato con 19 fucili automatici al trentaduesimo piano dell’Hotel Mandalay, il grattacielo di un resort di lusso, e ha cominciato a sparare sugli spettatori dell’Harvest Festival, un concerto country da poco iniziato. Ha ucciso 58 persone, ferendone oltre 500. Infine, prima che la polizia lo stanasse, Paddock si è suicidato. L’inchiesta ha stabilito che si trattava di una persona del tutto normale, senza problemi finanziari, un middle class citizen. Aveva una fidanzata, un fratello possidente agiato, amici. Nel cottage di sua proprietà hanno trovato altre armi da guerra, con relativi caricatori e proiettili. Una santabarbara, per un totale di 42 pezzi tra fucili e pistole. Ci sono state le inutili chiamate in causa della NRA da parte di Hillary Clinton, Trump ha parlato di barbaro episodio di follia, chi piú chi meno ognuno ha fatto ammenda, dal politico al letterato, dall’attore al giocatore di baseball. Alla fine, spente le voci del rammarico e della riprovazione, il silenzio. L’evento, primeggiante nel dossier delle stragi statunitensi a mano armata, è stato archiviato. Ma un simile episodio di stravolgimento mentale e sociale non archivia gli interrogativi sulle cause profonde che ne catalizzano le pulsioni omicide. Non la miseria dunque, né l’ignoranza o l’emarginazione, che normalmente vengono addotte dagli esperti dei fenomeni squilibranti la psiche.

Basta leggere i libri che si pubblicano, vedere i film proiettati nelle sale cinematografiche o trasmessi dalla Tv, basta, avendone la voglia e il permesso di vostro figlio o nipote, vedere uno di quei videogiochi in cui la cibernetica e il farnetico convolano a ingiuste nozze per illustrare con furbi allettamenti di colori ed effetti sonori e cinetici un mahabharata di infimi, sadici eroi celebrare peana di orrori, di impietosi oltraggi alla bellezza e alla poesia, che ogni guerra, seppur giustificata, produce.

Questo concetto della falsa nobiltà della guerra dovette attraversare la mente di Virgilio. Il poeta tornava dalla Grecia, dove aveva compiuto un viaggio di familiarizzazione con i luoghi che aveva descritto nell’Eneide, da poco terminata e in attesa di essere pubblicata. Lo accompagnava il suo amico Vario, poeta anche lui, che avendo seguito l’iter creativo e la stesura del poema, aiutava Virgilio nel verificare la corrispondenza dei luoghi reali con quelli descritti dai versi. Ad Atene ci fu l’incontro con Augusto, reduce dai trionfi in Oriente. Ma tutta l’Asia e Grecia echeggiavano ancora delle mille guerre che si erano combattute in quei luoghi, alcuni votati al culto, per secoli. Un seguito di battaglie, di uccisioni e torture. Eroi senza pietà, luoghi sacri profanati.

Luca Giordano «Il duello di Enea e Turno»

Luca Giordano «Il duello di Enea e Turno»

Tutta l’Iliade di Omero era ancora lí, viva e fremente delle stragi e dei trionfi sul sangue non solo dei vinti ma di tutti gli uomini che vi avevano preso parte. Non a caso, lo scrittore Properzio, al quale Virgilio aveva fatto leggere i primi canti del poema, andava dicendo per Roma a chi ne gliene chiedeva notizie: «Cedite, Romani scriptores, cedite Graii, nescio quid maius nascitur Iliade» (cedete il passo, scrittori latini, cedete il passo, scrittori greci: sta per nascere qualcosa di piú grande dell’Iliade). Dunque, il suo poema era valutato alla stregua del poema di Omero, come una apologia della violenza e della uccisione della vita. Si era nel mese di settembre dell’anno 29 a.C. L’imperatore espresse il desiderio di visitare Megara, celebre per la sua accademia di scienze e filosofia. Faceva caldo, e Virgilio, già debilitato dal viaggio, ebbe un malore. L’imperatore lo fece subito imbarcare per il ritorno. Avvertendo in mare la sua fine, il poeta chiese a Vario di bruciare il manoscritto. Naturalmente Augusto ne impedí la distruzione, imponendo la pubblicazione del poema, magica e raffinata apologia dell’impero che insieme a Mecenate stava costruendo. Il potere necessita di siffatte consacrazioni e omologazioni.

Gli intellettuali di ogni epoca e scuola, salve le impari, singole virtú poetiche, ben si guarderebbero dall’imitare Virgilio nella rinuncia a gloria e sesterzi, per la verità. Da sempre, affermano convinti che il re indossa abiti sontuosi, anche se appare nudo a chiunque abbia occhi per vedere e coscienza desta. Ed è appunto questione di una mancanza di coscienza, secondo Scaligero, una delle cause, se non la causa, dello scatenamento di un conflitto. In Lotta di classe e karma  chiarisce: «La guerra combattuta con le sue inumane stragi e le sue distruzioni, sta lí come ultima conseguenza di un processo interiore che sfugge alla coscienza umana: processo che sarebbe saggio penetrare là dove sorge, piuttosto che credere di afferrare nelle sue finali manifestazioni. La guerra è l’espressione visibile di uno stato di fatto invisibilmente compiuto. …La guerra non viene scatenata da un uomo o da un gruppo di uomini individualmente identificabili in base a inchieste indiziarie: gli “evidenti responsabili”, invero, sono soltanto gli inconsci strumenti di un meccanismo già in moto prima che essi l’avvertano e di cui nessun essere consapevole, a un simile livello di coscienza, si può dire che possegga il comando. …Dottrine che sembrano annunciatrici del progresso sociale, sono espressioni di impulsi trascorsi della specie: impulsi che un tempo mossero l’uomo, oggi sono l’impedimento alla sua evoluzione, alla nascita dell’auto­coscienza. La lotta è appunto contro l’autocoscienza, la quale soltanto è capace di responsabilità e di relazione sociale, o di amore per il prossimo e perciò di pace. A questa autocoscienza si fa opposizione. …La regressione dell’umano avviene mediante l’ethos dominante, la cultura dominante, la dialettica, la logica analitica, i miti politici, il culto psicologico degli istinti, il meccanismo assoluto: tale situazione lascia intravvedere un solo potere in marcia in tutto il mondo. Il problema vero per l’umanità ancora minimamente consapevole, è chiedersi chi muova questa immane ideologia e la sua prassi: chi la voglia veramente e mondialmente, non si trova alcuno: i persuasi che aspirano a un mondo totalmente marx-leninista, non sono quelli che tengono le leve di comando del grande veicolo. In realtà si può assistere al fatto che il fenomeno è piú irresistibilmente voluto presso i Popoli che, sotto il dominio di una democrazia formale, recano meno lo sviluppo dell’anima cosciente, come presso quelli che escono appena da una fase storica di tipo “primitivo”, o assolutamente tradizionalista. Questo dovrebbe far riflettere i piú consapevoli. Il meccanismo culturale politico che, giovandosi dei mezzi della tecnologia, ormai fascia tutta la Terra, è in definitiva una lotta contro l’Autocoscienza, contro la nascita della libertà individuale, quale orientatrice della cultura e della storia. La regressione appare provocata soprattutto dalle correnti capaci di mobilitare l’elemento collettivo dell’uomo, l’“anima di gruppo”, i Popoli appena usciti dall’infanzia etnica e dalla Tradizione, appena sulla soglia della Storia…».

Chissà se il nordcoreano Kim, premendo il pulsante che fa partire uno dei suoi inverosimili razzi, sia animato da pulsioni guerresche o piú semplicemente da uno di quegli istinti ludici mai sopiti in ogni creatura umana. Forse anche per lui è questione di praticare, su piú ampia scala, una metamorfosi epidermica, un camuffamento somatico, per far credere al mondo di essere pari se non superiore, per capacità dissuasiva e distruttiva, a qualunque altra potenza mondiale che si rispetti. Ecco: forse Kim è soltanto come il povero Fredo, il figlio debole e maldestro di Corleone. Al fratello Michael, che lo rimproverava di essere in combutta con la concorrenza, Fredo reclama, se non la stima che il clan riconosce solo a chi ne osserva le regole per quanto disumane, il rispetto che si deve alla persona. Anche Kim, come altri capi degli stati ‘pigs’, deve sgomitare per accedere al buffet della governance planetaria, dove leoni, tigri, orsi e lupi banchettano, allontanando dal pasto, con le zampate delle sanzioni, iene, sciacalli e qualunque altra bestia non frequenti l’esclusivo Bilderberg dei predatori alfa.

Ma il tempo della giungla si sta esaurendo, e per tutte le creature, l’uomo in testa, si aprono i pascoli senza le insidie dei divoratori e degli avvelenatori. Il tempo nuovo che Virgilio cantò nella IV Egloga: «L’ultima èra della profezia cumana è finalmente giunta. Ecco rinascere, nella sua integrità, il grande ordine dei secoli; ecco tornare la Vergine, ecco che torna il regno di Saturno, una nuova progenie è inviata sulla terra dalle profondità del cielo. Degnati solo, o casta Lucina, di favorire la nascita del fanciullo con cui cesserà alfine la stirpe del ferro e sorgerà, sul mondo intero, la stirpe dell’oro: d’ora in poi, regnerà tuo fratello Apollo. …Ma prima …la terra, senza che si debba coltivarla …prodigherà i suoi piccoli doni: le capre ti porteranno a casa le loro mammelle gonfie di latte e le mandrie di buoi non avranno timore neppure dei grandi leoni. …Perirà il serpente, e l’erba dell’insidioso veleno perirà; ovunque …la terra produrrà ogni suo frutto da sola. …Il fanciullo ch’io canto avrà in dono una vita divina e vedrà gli eroi mescolarsi agli dèi, ed egli stesso sarà visto tra loro; e governerà il globo pacificato dalle virtú di suo padre».

Poiché Virgilio, oltre che poeta, era considerato anche mago e veggente, auguriamoci che le sue previsioni si avverino, e presto. Il mondo sta accelerando il ritmo del vivente, l’uomo ha smesso di credere che possa ripristinarsi la cadenza del Primo Giorno, l’armonia nata dalla folgore sonora che divampò sul nulla e sull’oscurità. È tempo che gli uomini escano dalle loro trincee. La guerra è finita.

 

Ovidio Tufelli