Anticamente, quando succedeva
una disgrazia, un cataclisma, un dramma,
che metteva in ginocchio una città,
una nazione, un regno, fate conto
la stessa Roma, caput dell’Impero,
si sceglieva una vittima da offrire
in sacrificio alla divinità,
offesa dai peccati che gli umani
commettevano in modo esponenziale.
Capitò all’Urbe, quando una voragine
si spalancò nel Foro, un brutto segno.
Consultati i papiri sibillini,
si apprese che il Gestore dell’Averno,
offeso per mancanza di rispetto
che il popolo romano gli mostrava,
teneva pronti sismi e pandemie
se l’oltraggio non fosse riparato
col sacrificio del piú valoroso
cittadino romano. Marco Curzio,
armato di corazza e giavellotto,
spronò il cavallo e si lanciò giú dritto
nello spacco, che subito si chiuse.
Non si seppe piú nulla dell’eroe
che immolandosi aveva riscattato
il popolo romano e la città.
Che non si convertí ma continuò
a tramare, usurare e copulare,
come se Curzio fosse una leggenda
e non un fatto vero di eroismo.
La storia si ripete: Marco Curzio
è un modello archetipico di vittima,
ché ogni frangente storico, ogni popolo
produce i suoi votati al sacrificio:
può essere una sindaca mandata
allo sbaraglio, un manager di banca
che preso dall’angoscia di vedere
l’istituto fallire per lo spaccio
dei derivati, preso dallo scrupolo
morale e dall’orgoglio di mestiere,
fa Peter Pan. L’opinionista che
si fa prete ortodosso per dribblare
i paletti mediatici e apparire
alla Tivú per dire il suo pensiero.
Sono soltanto alcuni esempi, il culmine
dell’occulta piramide di eroi
costretti dal bisogno e dall’onore
a pagare per tutto il cucuzzaro
di mestatori, guitti e parolai.
Gente che va al macello per salvare
questo Paese di pirati e santi,
un bastimento che si tiene a galla,
ma il tricolore è una bandiera gialla.
Il cronista