Viviamo un momento critico di povertà morale. Imperano violenza e crudeltà. La legge, impotente, latita e la gente invoca la giustizia sommaria, arrivando a reclamare persino il ripristino della pena capitale o la detenzione del colpevole a vita, “gettando via la chiave”. Ma l’ “occhio per occhio, dente per dente” non è la soluzione. Al nucleo della legge morale vi è il perdono, come predicava il Cristo, altrimenti si torna alla legge del taglione. Ecco come un grande scrittore, il Manzoni, ne I promessi sposi, svolge il tema della colpa, del pentimento e del perdono.
…Appena compita la cerimonia della vestizione, il guardiano intimò che sarebbe andato a fare il suo noviziato a sessanta miglia lontano, e che partirebbe l’indomani. Il novizio s’inchinò profondamente, e chiese una grazia: «Permettetemi, padre –disse – che prima di partir da questa città, dove ho sparso il sangue d’un uomo, dove lascio una famiglia crudelmente offesa, io la ristori almeno dell’affronto, ch’io mostri almeno il mio rammarico di non poter risarcire il danno, col chiedere scusa al fratello dell’ucciso, e gli levi, se Dio benedice la mia intenzione, il rancore».
Al guardiano parve che un tal passo, oltre all’esser buono in sé, servirebbe a riconciliar sempre piú la famiglia col convento; e andò diviato da quel signor fratello, ad esporgli la domanda di fra Cristoforo. A proposta cosí inaspettata, colui sentí, insieme con la maraviglia, un ribollimento di sdegno, non però senza qualche compiacenza. Dopo aver pensato un momento: «Venga domani» disse; e assegnò l’ora. Il guardiano tornò, a portare al novizio il consenso desiderato.
Il gentiluomo pensò subito che, quanto piú quella soddisfazione fosse solenne e clamorosa, tanto piú accrescerebbe il suo credito presso tutta la parentela e presso il pubblico; e sarebbe (per dirla con un’eleganza moderna) una bella pagina nella storia della famiglia. Fece avvertire in fretta tutti i parenti che, all’indomani, a mezzogiorno, restassero serviti (cosí si diceva allora) di venir da lui, a ricevere una soddisfazione comune. A mezzogiorno, il palazzo brulicava di signori d’ogni età e d’ogni sesso: era un girare, un rimescolarsi di gran cappe, d’alte penne, di durlindane pendenti, un moversi librato di gorgiere inamidate e crespe, uno strascico intralciato di rabescate zimarre. Le anticamere, il cortile e la strada formicolavan di servitori, di paggi, di bravi e di curiosi.
Fra Cristoforo vide quell’apparecchio, ne indovinò il motivo, e provò un legger turbamento; ma, dopo un istante, disse tra sé: «Sta bene: l’ho ucciso in pubblico, alla presenza di tanti suoi nemici: quello fu scandalo, questa è riparazione». Cosí, con gli occhi bassi, col padre compagno al fianco, passò la porta di quella casa, attraversò il cortile, tra una folla che lo squadrava con una curiosità poco cerimoniosa; salí le scale, e di mezzo all’altra folla signorile, che fece ala al suo passaggio, seguito da cento sguardi, giunse alla presenza del padron di casa; il quale, circondato dai parenti piú prossimi, stava ritto nel mezzo della sala, con lo sguardo a terra e il mento in aria, impugnando, con la mano sinistra il pomo della spada, e stringendo con la destra il bavero della cappa sul petto.
C’è talvolta, nel volto e nel contegno d’un uomo, un’espressione cosí immediata, si direbbe quasi un’effusione dell’animo interno, che, in una folla di spettatori, il giudizio sopra quell’attimo sarà uno solo. Il volto e il contegno di fra Cristoforo dissero chiaro agli astanti, che non s’era fatto frate, né veniva a quell’umiliazione per timore umano: e questo cominciò a conciliarglieli tutti. Quando vide l’offeso, affrettò il passo, gli si pose in ginocchioni ai piedi, incrociò le mani sul petto e chinando la testa rasa disse queste parole: «Io sono l’omicida di suo fratello. Sa Iddio se vorrei restituirglielo a costo del mio sangue; ma, non potendo altro che farle inefficaci e tarde scuse, la supplico d’accettarle per l’amor di Dio».
Tutti gli occhi erano immobili sul novizio e sul personaggio a cui egli parlava; tutti gli orecchi eran tesi. Quando fra Cristoforo tacque, s’alzò, per tutta la sala, un mormorío di pietà e di rispetto. Il gentiluomo, che stava in atto di degnazione forzata e d’ira compressa, fu turbato da quelle parole; e, chinandosi verso l’inginocchiato: «Alzatevi – disse con voce alterata – l’offesa… il fatto veramente… ma l’abito che portate, non solo questo, ma anche per voi… S’alzi, padre… Mio fratello, non lo posso negare, era un cavaliere, era un uomo… un po’ impetuoso…. un po’ vivo. Ma tutto accade per disposizion di Dio. Non se ne parli piú… Ma, padre, lei non deve stare in codesta positura» e presolo per le braccia, lo sollevò.
Fra Cristoforo, in piedi, ma col capo chino, rispose: «Io posso dunque sperare che lei m’abbia concesso il suo perdono! E se l’ottengo da lei, da chi non devo sperarlo? Oh! S’io potessi sentire dalla sua bocca questa parola, perdono!».
«Perdono? – disse il gentiluomo – Lei non ne ha piú bisogno. Ma pure, poiché lo desidera, certo, certo, io le perdono di cuore, e…». «Tutti! Tutti!» gridarono, a una voce, gli astanti.
Il volto del frate s’aprí a una gioia riconoscente, sotto la quale traspariva però ancora un’umile e profonda compunzione del male a cui la remissione degli uomini non poteva riparare. Il gentiluomo, vinto da quell’aspetto, e trasportato dalla commozione generale, gli gettò le braccia al collo, e gli diede e ne ricevette il bacio di pace.
Un «bravo! bene!» scoppiò da tutte le parti della sala; tutti si mossero e si strinsero intorno al frate. Intanto vennero servitori, con gran copia di rinfreschi. Il gentiluomo si raccostò al nostro Cristoforo, il quale faceva segno di volersi licenziare, e gli disse: «Padre, gradisca qualche cosa; mi dia questa prova d’amicizia». E si mise per servirlo prima d’ogni altro; ma egli, ritirandosi, con una certa resistenza cordiale, «queste cose – disse –«non fanno piú per me; ma non sarà mai ch’io rifiuti i suoi doni. Io sto per mettermi in viaggio: si degni di farmi portare un pane, perché io possa dire d’aver goduto la sua carità, d’aver mangiato il suo pane, e avuto un segno del suo perdono».
Il gentiluomo, commosso, ordinò che cosí si facesse; e venne subito un cameriere, in gran gala, portando un pane su un piatto d’argento, e lo presentò al padre; il quale, presolo e ringraziato, lo mise nella sporta. Chiese quindi licenza; e, abbracciato di nuovo il padron di casa, e tutti quelli che, trovandosi piú vicini a lui, poterono impadronirsene un momento, si liberò da essi a fatica; ebbe a combatter nell’anticamere, per isbrigarsi dai servitori, e anche dai bravi, che gli baciavano il lembo dell’abito, il cordone, il cappuccio; e si trovò nella strada, portato come in trionfo, e accompagnato da una folla di popolo, fino a una porta della città; d’onde uscí, cominciando il suo pedestre viaggio, verso il luogo del suo noviziato.
Il fratello dell’ucciso e il parentado, che s’erano aspettati d’assaporare in quel giorno la trista gioia dell’orgoglio, si trovarono invece ripieni della gioia serena del perdono e della benevolenza. La compagnia si trattenne ancor qualche tempo, con una bonarietà e con una cordialità insolita, in ragionamenti ai quali nessuno era preparato, andando là. Invece di soddisfazioni prese, di soprusi vendicati, d’impegni spuntati, le lodi del novizio, la riconciliazione, la mansuetudine furono i temi della conversazione. E taluno, che per la cinquantesima volta avrebbe raccontato come il conte Muzio suo padre aveva saputo, in quella famosa congiuntura, far stare a dovere il marchese Stanislao, eh’era quel rodomonte che ognun sa, parlò invece delle penitenze e della pazienza mirabile d’un fra Simone, morto molti anni prima.
Partita la compagnia, il padrone, ancor tutto commosso, riandava tra sé, con maraviglia, ciò che aveva inteso, ciò ch’egli medesimo aveva detto; e borbottava tra i denti: «Diavolo d’un frate! – (bisogna bene che noi trascriviamo le sue precise parole) – diavolo d’un frate! Se rimaneva lí in ginocchio ancora per qualche momento, quasi quasi gli chiedevo scusa io, che m’abbia ammazzato il fratello».
La nostra storia nota espressamente che, da quel giorno in poi, quel signore fu un po’ men precipitoso, e un po’ piú alla mano.
Alessandro Manzoni