Lo Stato giuridico

Tripartizione

Lo Stato giuridico

LibertàLa Tripartizione pone al vertice della vita sociale la libertà. È questa una conquista cosí importante da richiedere la continua custodia di una istituzione imparziale, affinché nessuno sia sottomesso all’arbitrio, alla sopraffazione, alla violenza, alla oppressione, all’in­giustizia.

La società ha bisogno dunque di strutture e di leggi in grado di garantire la piú assoluta libertà di espressione, in seno alla vita spirituale e culturale, e di proteggere la libera iniziativa, in tutte le attività economiche. È questo il compito al quale dovrebbe attendere lo Stato moderno, e che esso ha purtroppo compromesso intromettendosi nelle attività culturali e trafficando con gli interessi economici.

Lo Stato ha creduto di darsi una positiva funzione sociale, sovrapponendo il suo intervento all’azione dei singoli in nome dell’interesse della collettività. In pratica ha però ucciso, o per lo meno ha fortemente devitalizzato la libertà. Esso si è fatto coinvolgere sia nelle attività culturali sia in quelle economiche, smarrendo cosí ogni possibilità di autentica imparzialità. Prima ancora di realizzarsi completamente come garante severo di libertà e di giustizia, si è perso dietro a una miriade di compiti, affidati a inadeguate organizzazioni burocratiche, mascherando in tal modo la sua incapacità ad affrontare la realtà sociale dietro la superficiale rigidità delle norme e la pignoleria dei suoi apparati.

Sembra esservi contraddizione fra libertà e ossequienza alle leggi. Ma questo nodo apparente può essere sciolto appunto mediante l’armonizzazione fra una libera vita spirituale, con la sua assoluta libertà di espressione e di associazione, e uno Stato giuridico che si faccia custode dell’uguaglianza di tutti di fronte alla legge e del diritto di tutti all’esercizio della libertà. Uno Stato dunque in grado di imporre il rispetto della legge sia a coloro che operano nella vita spirituale-culturale, per quanto elevata possa essere la loro personalità, sia a coloro che agiscono nel settore economico, per quanto grande possa essere la loro potenza finanziaria o la loro indispensabilità.

L’ideale, per l’uomo libero, dovrebbe essere quello di rispettare le norme della buona convivenza civile non perché condizionato dalla paura della legge o timoroso del comandamento religioso. Infatti il Dio dell’Antico Testamento ha dettato la sua legge sul Monte Sinai. Oggi occorrerebbe finalmente scoprire lo spirito del Nuovo Testamento, ove il Figlio del­l’uomo, Colui che ha realizzato il Logos in sé, penetra nello spirito della Legge, oltre l’este­riore osservanza farisaica. L’uomo moderno dovrebbe realizzare liberamente in se stesso il piú elevato principio morale. Principio identico qualitativamente alla ispirazione spirituale che dovrebbe animare il sistema legislativo e le istituzioni giuridiche. È questa una meta che non può essere però raggiunta gratuitamente, di colpo e da tutti, contemporaneamente. È una conquista alla quale ognuno di noi deve tendere, superando giorno dopo giorno la propria fragilità. Per questo è ancora necessaria la presenza operante del “giure” affinché la nostra debolezza egoica non abbia a recare danno al nostro prossimo.

Se lo Stato fosse, per il contributo dei suoi esperti, il migliore vivificatore della vita culturale e il piú efficiente degli imprenditori (sappiamo tutti che le cose non stanno affatto cosí!) ostacolerebbe in tal modo la sua primaria funzione giuridico-legislativa. La pletora di compiti che si è assunto disperde le sue forze, non solo a danno delle attività spirituali ed economiche, ma anche a pregiudizio della maestà della legge. I suoi interessi, in settori a lui estranei, limitano necessariamente la sua imparzialità e impediscono la creazione di istituzioni dinamiche e funzionali, in grado di amministrare rapidamente e saggiamente la giustizia.

Si può affermare che lo Stato moderno non esiste ancora. Ciò che conosciamo come Stato unitario ‒ uguale qualitativamente sia a Oriente sia a Occidente, variando solo l’in­tensità del suo intervento ‒ è una istituzione che non ha identificato completamente il suo compito nella società. Nella sua forma piú moderata confluiscono disordinatamente i fantasmi della teocrazia, le innegabili conquiste giuridiche degli ultimi secoli, i primi traguardi di una democrazia che dovrebbe avere invece come fine la partecipazione responsabile dell’uomo alla enunciazione dei suoi diritti e dei suoi doveri. Malgrado tutte le brillanti formulazioni tendenti a legittimare l’intervento pubblico, abbiamo l’impressione che lo spirito che anima molte decisioni assomigli, in modo impressionante, alla scelta dei fittavoli compiuta personalmente da Federico il Grande.

Smarrito il sostegno dell’antica trascendenza il confuso Stato moderno ha voluto fare lo stesso affidamento su una presunta onniscienza. Ha preteso di estendere ancora di piú i suoi interventi (vedi le monarchie assolute e le dottrine dello Stato etico), facilitato in questa sua presunzione dalla sempre maggiore debolezza della individualità umana. Infatti di fronte agli enormi problemi del mondo attuale quanti hanno preferito sfuggire alle loro responsabilità invocando l’aiuto dello Stato! I primi interventi sull’economia non sono stati forse richiesti dagli stessi imprenditori? Questi, non riuscendo a identificare e superare le cause della decadenza delle loro aziende, hanno trovato un primo sostegno nei diversi provvedimenti di politica economica tendenti a muovere le esportazioni.

TasseAlla debolezza dell’uomo moderno fa riscontro il mostruoso apparato dello Stato unitario. Il potere pubblico, per nascondere la sua inadempienza giuridica, non può che darsi nuovi compiti, inventare nuovi interventi, creare un numero infinito di false leggi, pretendere sempre maggiori tasse. Di conseguenza una qualsiasi giustificazione ideologica, o lo stesso gioco politico partitocratico (anche se vissuti in nome di giuste aspirazioni sperimentate però astrattamente come sviluppo, benessere, socialità) non possono che trasformarsi, mediante lo Stato, in strumenti di condizionamento sull’uomo e di degenerazione della libertà.

Infinite teorie dissertano oggi sui diversi travestimenti del potere, sulla brama di potenza e sulle astuzie per conseguirla, sulla equivalenza capitale = possesso, creando cosí una falsa immagine in quanto riferita solo a una classe, quando in ogni egoità individuale è presente potenzialmente l’avversione e la volontà di sopraffazione. Se si passa però alle soluzioni pratiche si ripropone la superiorità indiscutibile delle esigenze della collettività su quelle del singolo, le quali, per essere attuate, hanno bisogno degli strumenti forniti dall’apparato statale. Ma la vera tirannide ha inizio quando il potere pubblico asserve la vita spirituale e culturale all’ideologia che lo giustifica o alla concezione del principe, oppure quando tutti i cittadini vengono ricattati mediante il possesso assoluto di tutti i mezzi di produzione.

Una nazione che rinuncia, anche se dapprima solo in parte, alla libera vita spirituale e alla libera iniziativa economica, non può che scivolare lentamente verso forme piú o meno palesi di dittatura.Giustizia nell'antica Roma Tirannia che può assumere dapprima la forma del regime partitocratico, poi consentendo solo un parziale pluralismo che esclude gli avversari piú scomodi, per approdare infine verso forme di assolutismo ben peggiori di quelle che ci avevano fatto inorridire nei banchi di scuola. Tutto ciò può avvenire perché lo Stato moderno ha dimenticato che già nell’antica Roma repubblicana era stata tracciata la sua funzione nella Storia: la tutela della giustizia.

Si vuol far credere oggi che auto­ritarismo e autorità siano la stessa cosa. Abbiamo visto come l’idea di gerarchia possa trovare, nella vita spirituale, la sua essenziale legittimazione. Gli uomini non sono interiormente uguali e lo spontaneo riconoscimento delle qualità altrui è il segno piú significativo della vitalità di una determinata civiltà. Se si riconosce spontaneamente una gerarchia spirituale, è giusto anche accettare la necessaria autorità sul piano esteriore, intesa quale espressione di una saggezza ordinata, indispensabile per far funzionare una qualsiasi organizzazione: la scuola, la fabbrica, la società. Se autoritarismo ci sembra l’intervento disordinato dello Stato, dovrebbe essere naturale accettare l’autorità necessaria a garantire l’esercizio della libertà e a regolare, secondo giustizia, i rapporti fra uomo e uomo.

L’autorità dello Stato, nel senso della Tripartizione, non può essere conseguente al pugno di ferro di una supposta aristocrazia politica o di una oligarchia che si nasconde dietro una falsa democrazia. Deve essere piuttosto l’autorità, implicita al significato stesso di legge, a estrinsecarsi mediante apposite istituzioni onde garantire la reciproca dignità e l’esercizio della libertà sia ai singoli sia alle comunità, alle attività spirituali e a qualsiasi manifestazione economica. Non si può avere timore dell’autorità quando essa ha come solo scopo l’applica­zione di una legge, di fronte alla quale siamo tutti uguali. Soprattutto quando il patrimonio legislativo non è qualcosa di estraneo a una particolare società, ma si è formato mediante il contributo e la partecipazione di tutti gli uomini maggiorenni.

A questo proposito ci sembra opportuno ribadire, per chiarire meglio questo enorme problema, che la qualità delle leggi è sempre in rapporto diretto con il livello interiore di un determinato popolo. È indubbiamente ciò che ha spinto Wittgenstein ad affermare, in una sua lettera, che l’uomo deve sempre obbedire all’ordine costituito, qualunque esso sia. Infatti, un sistema di leggi è sempre il risultato del grado di civiltà e di evoluzione interiore di un determinato popolo. Il caos giuridico, l’ingiustizia, la tirannide sono sempre in rapporto con l’anima della nazione che li subisce, o sono espressione di un particolare destino sacrificale che li conduce a caricarsi direttamente di pesi che riguardano l’umanità intera. Non è quindi la rivolta esteriore che può risolvere qualcosa, tanto meno la disubbidienza civile.

La chiave della evoluzione del diritto sta nella vitalità di una libera vita spirituale, dal momento che soltanto questa può stimolare forze educative in grado di far progredire la giustizia. Solo gli uomini, migliorando se stessi, possono migliorare le leggi. Creando però una barriera alla partecipazione diretta dei cittadini all’attività legislativa, mediante l’ecces­sivo accentramento statale del potere esecutivo e del potere legislativo, si favorisce una certa staticità giuridica. Si impedisce, in sostanza, che i primi germi evolutivi positivi possano aprirsi un varco, condannando cosí una società a subire un livello che forse non gli appartiene piú o gli appartiene solo in parte. L’assolutismo moderno e le democrazie troppo separate dalla realtà dell’uomo negano in tal modo spazio a qualcosa che potrebbe oggi cominciare a muoversi verso il futuro ‒ se ne vedono i primi segni ‒ a tutto vantaggio di una piatta staticità proveniente dal passato e che fatalmente diviene il polo catalizzatore di forze ostacolatrici.

Il progredire del giure potrebbe essere dunque aiutato da forme di partecipazione piú diretta dei cittadini all’attività legislativa. Già la legge naturale aveva compreso che un obbligo e il riconoscimento di una autorità, per vincolare realmente, devono essere liberamente assunti dalle parti contraenti.

La democrazia, “il governo dei molti”, è un assurdo sul piano spirituale, nel quale emergono le differenze di valore fra le singole personalità estrinsecantesi in un clima di assoluta libertà. La partecipazione collettiva ugualitaria è altrettanto assurda in seno all’economia ove ciò che ha importanza è il coordinamento piramidale dei diversi contributi, onde pervenire a criteri di efficienza produttiva e distributiva. Ognuno di noi invece, in quanto individualità, è consapevole che il suo portafoglio non può essere alla mercé del primo che passa; pretende giustamente di essere protetto dalla violenza e dalla prepotenza; sa (o dovrebbe sapere) che un qualsiasi contratto da lui liberamente accettato impone non solo dei diritti ma anche dei doveri; aspira al giusto esaurimento delle sue necessità materiali. A nostro avviso la partecipazione di tutti gli Ateniesi alla “ecclesia” rappresenta, ancora oggi, l’ideale al quale dovrebbe tendere la moderna democrazia.

Sarebbe presuntuoso voler indicare un determinato tipo di regime democratico o un particolare sistema elettorale. La cosa fondamentale è che si inizi a concepire uno Stato che rinunci ai ministeri delle Poste, dei Trasporti, del Tesoro, della Finanza, delle Partecipazioni Statali, della Marina Mercantile, della Pubblica Istruzione, della Sanità, del Lavoro ecc., e che si dedichi invece all’amministrazione della giustizia e della difesa. Uno dei piú gravi errori che si è commesso, in questo dopoguerra, è stato quello di ritenere che un particolare modello democratico, un determinato sistema elettorale potessero essere imposti a gran parte del mondo, ignorando la realtà delle diverse situazioni ambientali. Analogo errore commette l’ideologia che prevede uno stesso tipo di Stato da adottare in tutto il mondo alla vittoria del socialismo.

La Tripartizione vuole indicare solo delle direzioni, evitando di chiudersi in soluzioni fisse e in rigide riforme. È implicito, nell’accettazione della presenza di una libera vita spirituale, il rispetto per le esigenze dei diversi popoli e delle diverse minoranze etniche. La stessa ampiezza dei tre settori in cui si articola la Tripartizione può variare da nazione a nazione. Non si può prevedere lo stesso spazio economico, ad esempio, per il Kenia e per l’enorme potenziale produttivo della Germania. Analogamente, la lunga esperienza democratica dei popoli di lingua inglese darebbe una importanza alla organizzazione giuridica, necessariamente diversa da quella che le attribuirebbero paesi legati ancora al mondo dell’antica tradizione e quindi piú portati a dare valore a tutto quanto concerne la vita religiosa.

Ogni popolo dunque dovrebbe scegliere liberamente le istituzioni giuridico-statali e il sistema elettorale a lui piú adatti, affinché tutti gli uomini maggiorenni possano partecipare, il piú direttamente possibile, alla formulazione delle leggi. Sarebbe auspicabile che la mediazione, esercitata in questo campo attualmente dai partiti, fosse spontaneamente superata, a favore di una maggiore coscienza individuale, che possa esprimersi pertanto sia in circoscrizioni elettorali non troppo vaste, in modo da consentire una scelta oculata dei propri rappresentanti, sia mediante strutture che consentano a ogni uomo di intervenire in qualsiasi momento, non solo formalmente, su tutte le questioni giuridiche.

 

Argo Villella


Tratto da: A. Villella, Una via sociale – Società Editrice Il Falco, Roma 1978.