Nella primavera del 1991 presi la decisione: il libro di Massimo Scaligero Dell’Amore Immortale sarebbe diventato il testo guida per il resto della mia vita.
L’avevo letto, studiato e meditato precedentemente, in gruppo, assieme ad altri volonterosi, ma fino allora non m’era mai passato per la testa di poter affrontare il testo singolarmente.
Fra tanti possibili, perché avevo scelto proprio Dell’Amore Immortale? Forse mi aveva affascinato piú degli altri? O il titolo mi riprometteva la svelazione di chissà quali misteri celestiali? O non piuttosto perché in quel tempo, il mio matrimonio stava andando a rotoli e io cercavo di afferrarmi a qualcosa che mi sembrasse di maggiore affidamento che non i normali sentimenti sui quali, piú o meno consapevolmente, regoliamo la nostra esistenza?
Queste domande m’inducono un sorriso di benevolenza per l’ingenuità di allora; ma è cosí che funzionano le cose; fintanto che la cura è piú sgradita della malattia, bisogna attendere; poi il resto viene da sé.
Decisa dunque la terapia e scelta la medicina, mi misi a studiare metodo e posologia. Lettura e meditazione del testo mi parevano banali e obsolete; in poche parole: insufficienti, o quanto meno, necessitanti un mio apporto forte, incisivo, e soprattutto, se si può dire, “personalizzato”.
Iniziai quindi a copiare manualmente, carta e penna, paragrafo per paragrafo; giunto però alle prime dieci pagine del libro, mi venne un’idea che al momento mi parve geniale: avrei ricopiato ogni pagina, scrivendola dapprima con la mano destra e poi con la sinistra, cosa che non avevo mai fatto, ma avevo sentito dire cose egregie circa l’esercizio della scrittura sinistrorsa, nonché dei benefici conseguenti, diretti e indiretti, per un eventuale ampliamento delle facoltà cerebrali nel quadro di una riarmonizzazione qualitativa della psiche.
Oggi sarei propenso a credere di essermi piuttosto lasciato affascinare dai contenuti del film “The Karate Kid”, ancora in auge a quei tempi, nel quale, per accedere all’arte del Karate, il maestro giapponese obbliga il giovane allievo a lavare un numero incredibile di autovetture, con seguente inceratura, e subito dopo al lavaggio di estese pavimentazioni impiastrellate, sempre secondo il principio imperativo del «Dài la cera – togli la cera; dài la cera – togli la cera; con calma, con regolarità; accuratamente; senza fermarsi; inspirare – espirare, inspirare ‒ espirare; come se al mondo non ci fosse altro che compiere l’esercizio assegnato…».
Questo sarebbe stato anche il mio ritmo; non tanto di studioso o discepolo (almeno non ancora) ma da servitore imperterrito e funzionale alla situazione.
Evidentemente mi sentivo non del tutto a posto per il compito prefisso; provavo quindi il bisogno di mondarmi e ridurre alquanto l’egoismo, le ambizioni e compagnia bella, per poter poi affrontare la prova nel modo piú adeguato. Confesso che ci credevo.
Raggiunsi il colmo quando, dopo la scrittura di destra e sinistra, venni folgorato (si fa per dire) dall’idea di mettere a sintesi i due manualismi; dal momento che, non a caso, le due mani hanno per vertice superiore la testa, e dentro ad essa dovrebbe starci anche il cervello, avrei addirittura imparato il testo a memoria, man mano che ci lavoravo sopra. Questo sarebbe stato il non plus ultra; nessuno, che io sapessi, aveva osato tanto ed era una cosa meravigliosa che tale intuizione si fosse manifestata proprio in me, accompagnata per giunta da valide risorse del volere e del sentire, adeguate a un compito di tal fatta.
Le mie valutazioni erano state fatte in assenza (sarebbe piú corretto dire nell’inavvertita presenza) dell’Oste; in questo caso, gli Ostacolatori. Non avevo tenuto minimamente conto del loro gioco e della loro esperienza superumana; penso che dopo una minima preoccupazione circa la mia decisione iniziale, si siano divertiti non poco alle mie spalle, suggerendomi raffinati virtuosismi e procedimenti irrituali che tuttavia prendevo per vere e proprie intuizioni luminose. Luccicavano, questo sí; magari anche ammiccavano, ma non venivano dalla luce.
Iniziò cosí un periodo molto particolare, e durò qualche anno; approfittavo delle notti insonni, o dei tempi morti della mia attività di assicuratore, in genere pochi minuti rubati qua e là, durante i tragitti in bus, o nelle attese in banca o altri uffici, nei quali mi ripetevo mentalmente senza soste tutti i paragrafi scritti e riscritti, passandoli e ripassandoli in rassegna mnemonica. Era un lavoro incredibile di ricamo e tessitura mentale che eseguivo pure con un certo entusiasmo. Ricordo un’estate in cui, portando la famiglia in vacanza, compii un lungo viaggio in autostrada, e mentre guidavo, senza farlo sapere a nessuno, mi recitavo a nastro le parti memorizzate, cercando di evitare ovviamente i classici pericoli dell’automatismo.
La proverbiale alternativa tra la padella e la brace funziona anche nel caso di ambizioni onestamente ascetiche; forse là perfino piú che altrove.
Questa cosa durò fintanto che la mia coscienza continuò ad approvarmi, rimanendo immune da dubbi e ripensamenti. Devo dire che fin dal principio alcuni amici, ai quali avevo confidato la mia avventura, ne erano restati sconcertati, forse piú per la baldanza con la quale illustravo la bellezza dell’impresa che per il modus operandi in sé; di certo non ricevetti sostegno alcuno; del resto nemmeno lo cercavo.
Penso che chi intraprenda un cammino interiore ignorando dubbi e incertezze, non vada lontano. Checché se ne dica, una via, che si voglia conoscitiva, allo stato attuale, è caratterizzata da forti ripensamenti (se proprio non vogliamo chiamarli con il nome di dubbi). Mancando i ripensamenti, manca l’autocritica, e senza di questa, la nostra corsa evolutiva si svolge su un invisibile tapis roulant: corri, corri, ma resti fermo lí e non lo sai. Tanto meno quando altri, o situazioni terze, te lo vengono a dire.
Lavorai con le modalità descritte, per circa tre anni e mezzo, arrivando fino alla pagina 55.
A quel punto, accadde che mi chiedessi: “Cosa sto facendo?”. Cosí smisi di farlo.
Del grosso lavorío interiore di quegli anni, oggi mi restano alcune cose; blocchi e quaderni scritti in parte con calligrafia ordinaria, in parte con una grafica che di per sé presupporrebbe un analfabeta tremebondo; come registro dei ricordi, ho invece la Prefazione di Dell’Amore Immortale e il primo paragrafo del capitolo iniziale. Questi restano ben nitidi e scolpiti dentro di me. Sono il concentrato del lungo esperimento; non è poco. Anche a distanza di anni, il meditare su quelle due sole pagine è per me un compendio enorme; vi ritrovo l’intera opera di Massimo. Come nelle ouverture dei grandi compositori, esse racchiudono in sé l’accenno di tutti i temi che verranno sviluppati e fatti fiorire nell’ulteriore prosieguo dell’opera.
Dalla precisazione autobiografica, piuttosto lunga ma necessaria per comprendere il motivo che cerco di raccontare, arrivo al dunque.
Mi pare che non sia necessario ribadire che per me (ma non solo per me) è impossibile e inattuabile dire qualcosa, fare commenti o anche soltanto porre domande e cimentarsi in risposte, sui contenuti del testo Dell’Amore Immortale; il pensiero di Massimo Saligero offrirà sempre qualche cosa a chiunque lo accosti, nella misura in cui tale accostamento corrisponda a determinati requisiti che ciascun lettore deve saper incontrare in sé, e sui quali l’Autore stesso pone limpida indicazione in Premessa.
Detto ciò, desidero qui mostrare una cosa molto piccola, addirittura minima, tale che per lunghi anni ci sono passato accanto senza mai vederla completamente, appunto perché invisibile al punto che il solo eccepirla rasenterebbe, a mio parere, un puntiglio capriccioso; non volendo finire di nuovo dalla padella nella brace, ho taciuto a lungo.
Adesso ne posso parlare; lo faccio volentieri, perché finalmente sono giunto ad una comprensione specifica, di quelle che piacciono a me, in quanto spalancano le finestre sull’inedito e lasciano inalterate le basi da cui hanno preso le mosse, o meglio ancora, le rivalutano.
Nel leggere il 1° paragrafo del testo Dell’Amore Immortale (e meditandoci sopra ogni giorno per anni) prima o dopo ci si imbatte in una… come dire, in una forma non eufonica, una piccola dissonanza, che potrebbe essere del tutto trascurata, se la composizione logico-lessicale di Massimo Scaligero non fosse quella che è, particolarmente in quel suo testo. Siamo di fronte a un pensiero che proviene dallo Spirito, si esprime come un cantico; in esso nulla, proprio nulla, neppure un aggettivo, un avverbio o una singola particella, può recarvi distonia o incidere sulla musicalità dei periodi.
Eppure – questa è stata la mia topica – sul finire della pagina 1 (Cap.1, par.1) un giorno mi accorsi che la locuzione “ogni volta” veniva ripetuta di seguito in due frasi adiacenti, anche se separate dal capoverso.
Ebbi a chiedermi “Come mai?”. Vi prego di scusare, se possibile, la mia impertinenza; ma a mio tempo fui costretto da validi e rigorosi insegnanti a macinare testi classici, sia in greco che in latino, per non parlare del “Dolce Stil Novo” e arrivare quindi sino alla prosa/poesia contemporanea; nei ricavai alla fine una sufficienza risicata, neppure molto onorevole, ma avevo nel frattempo acquisito una certa sensibilità per l’eufonia metrica della buona scrittura.
Era facile riconoscerla, quando mi ci imbattevo, sia per la naturale eleganza del tratto, sia per la grazia con la quale sapeva incorniciare i contenuti, senza prevaricarli, ma anzi, subordinandosi a quelli, quasi in virtú di un segreto accordo tra forma e contenuto.
La lettura delle pagine di Massimo Scaligero (e i miei passaggi mnemonici, svolti su di esse) mi avevano in qualche modo ricordato i “toni” della grande letteratura, di cui è pervaso tutto Dell’Amore Immortale; avevo fatto l’orecchio a quel tipo di purezza e di musicalità pressoché ineffabili, tipiche dell’aureo periodo classico, che Massimo ha saputo infondere nelle parole, negli accenti e nel costrutto delle frasi.
Ora, quindi, se non approvare, si può almeno capire la mia perplessità interrogativa, nel trovarmi di fronte alla duplicazione di una congiunzione temporale che tra l’altro a mio avviso poteva essere facilmente evitata. E tanto piú, trovarla in un libro di Massimo Scaligero in cui l’espressione verbale volava sempre alta, mai nulla concedendo a dissonanze o sterili ripetizioni.
Ma arrivò il momento in cui un pensiero mi si affacciò con grande chiarezza, sgominando tutti gli altri, là dove poteva rendersi determinante. Per quanto ho avuto modo di conoscere
di Massimo Scaligero, ho dovuto dirmi: “Se Massimo ha scritto cosí, vuol dire che voleva scrivere cosí. La ripetizione di quell’ogni volta non può essere un lapsus, né un caso, né una svista cacofonica. Ciò premesso, a me il compito di capire perché”.
Misi il problema sul tavolo di lavoro e cominciai a svolgere le congetture che mi parevano piú attinenti.
Il primo ogni volta lega fra loro due sponde distinte: dolore e amore. Il dolore – spezzandosi il limite – può ogni volta estinguersi nell’amore. Nota bene: non “sempre” ma ogni volta. Ogni volta che… è una condizione. Può essere vissuta come un limite, ma può venir superata da un’anima che lanci il pensiero al di là dell’ostacolo.
Allora il limite diviene una svolta… la Svolta. E tutto ricomincia ex novo, cambiando registro.
Il secondo ogni volta riguarda invece due momenti dello Spirito individuale; lo Spirito che si attua… lo Spirito che, ogni volta, sappia riconoscere se stesso oltre il limite: nell’altro, negli altri, nella natura, nel creato.
La prima svolta è di dolore-amore; la seconda è d’indagine ricognitiva. La prima può ricordare Socrate, imprigionato durante il processo, che prega il fedele Critone di togliergli la catena alla caviglia dolente, e dice: «Strano e meraviglioso è il dolore; esso si congiunge sempre al piacere; son come due serpentelli legati per la coda. Dove c’è l’uno non manca mai l’altro».
Altrettanto, in Scaligero, è il dolore, quando noi lo identifichiamo con l’amore perduto; l’amore che non riusciamo a raggiungere e a realizzare; tra i due si staglia il limite, e ci vuole davvero molto, prima che lo si ravvisi come “possibilità della svolta”, l’unica veramente capace di trasformare l’impenetrabilità del limite in forza di rinascita interiore.
Da cosa dipende? La seconda congiunzione temporale lo spiega in modo inconfutabile. «Lo Spirito che si attua…»; lo Spirito umano si attua sempre, è in continua fase di attuazione; ma noi raramente siamo presenti con la nostra coscienza a questo sviluppo. Eppure esso è la cosa piú importante del nostro esistere; è il processo di gran lunga superiore ad ogni altro divenire psicofisico.
Può essere tuttavia, per merito e destino, che un retto e coscienzioso apporto conoscitivo, ad un certo punto, ci conduca al momento in cui il farsi del nostro Spirito di individui si specchi nello Spirito del Cosmo, Lo riconosca, riconoscendosi in tutte le forme di vita da Esso create, nessuna esclusa.
Ogni volta che accade, è la condizione: è la leva che sublima il limite e lo trasforma in ulteriore forza di vita. Ripeto e sottolineo: non sempre, ma solo ogni volta che…
È incredibilmente bello ed edificante poter pensare che Massimo Scaligero abbia voluto imprimere in due frasi staccate quella ripetizione, proprio per evidenziare nel modo piú definitivo, l’analogia tra la condizione umana del dolore/amore sul piano animico e quella dello Spirito Individuale che si avventura sul piano evolutivo; ce l’annuncia senza esplicitazione diretta, ma fornendoci al contempo la chiave per dissolvere l’ostacolo.
Apertasi una prospettiva di questo tipo, ci si accorge che tutta la storia dell’uomo è stata caratterizzata dal concetto di “Limite” e di “Svolta”. Basterà rivisitare l’evolversi delle anime dal periodo dell’antica caduta e quello della possibile risalita; tra loro sta l’Evento del Golgota: ossia la Svolta dei Tempi.
In termini diversi, altrettanto se ne può dire del Vecchio e del Nuovo Testamento. Del pari ravvisiamo la stessa analogia quando rivediamo il nostro passato e lo commisuriamo su quello che potrebbe essere il nostro futuro. Tra i ricordi e le speranze, preferiremmo trovare un Limite o una Svolta?
E come non avvertire quel che si racchiude tra karma e destino, tra le forze centripete e gli impulsi centrifughi che non di rado dilaniano la nostra interiorità?
Cosí nello stesso ordine si scontrano e si collimano Realtà e Verità, Luce e Tenebra, l’Essere e l’Esistere, la voglia di dare e la brama di avere.
Potrebbe, lo scontro “Io-ego”, avere l’unico fine di smembrarci, di farci star male?
Certamente no. Per ogni morte c’è una resurrezione; ma mentre la morte è garantita ex natura, la resurrezione (almeno fino al Giudizio Universale) è frutto di decisione individuale, di scelta, di autonomia: è la libertà, non piú agognata, resa strumento del discorrere razionale-dialettico, ma incondizionatamente voluta e vissuta.
Quanto si poneva prima come Limite invalicabile, può diventare la Svolta nel momento in cui quel doppio ogni volta risuoni ancora, riecheggi in noi, e venga riconosciuto come la chiave di un percorribile passaggio che fa da ponte tra il tumulto esistenziale e la pace dell’infinito.
Il dolore diventerà amore, se l’amore saprà conquistarsi la sua immortalità. Lo Spirito umano si ricongiungerà con lo Spirito Creatore, se saprà decifrare in se stesso il mistero della sua origine. Non sempre, non ha da accadere sempre, ma ogni volta che…
Grazie Massimo. Repetita iuvant.
Specie quando dal profondo della nostra interiorità, troppo spesso solinga e controversa senza apparente motivo, la coscienza afferra l’essenzialità di una questione (indifferente se microscopica o iperbolica) e l’affida al pensiero per una nuova sfida conoscitiva.
Angelo Lombroni