Dante, ghibellin fuggiasco, vi fu ospitato la prima volta nel 1303, governando la città Bartolomeo I della Scala. Il rapporto del sommo poeta con il reggente non ebbe che il segno della generosità che gli Scaligeri riservavano agli artisti e agli uomini di cultura che, per un motivo o per l’altro, chiedevano asilo, banditi dalla loro città non per comuni reati di giustizia ma per le loro idee politiche. Era il caso di Dante. Messo al bando da Firenze per il suo coinvolgimento nelle intricate lotte tra papisti e imperiali, guelfi e ghibellini, e tra i primi a loro volta divisi in bianchi e neri, il poeta era stato artatamente intruppato tra i guelfi bianchi, meritandosi l’ostracismo a vita e finanche il rogo nel caso tentasse di rientrare a Firenze con la forza.
Iniziò allora per il poeta e per la sua famiglia, moglie e cinque figli, un esilio forzato, un peregrinare da un benefattore all’altro, provando “sí come sa di sale lo pane altrui e come è duro calle lo scendere e ’l salir per l’altrui scale”. Nobili palazzi e castelli un po’ dovunque nel nord, fino a riparare la seconda volta a Verona.
Era il 1313. Governava la città Cangrande. Nacque subito un’intesa tra il signore di Verona e il proscritto fiorentino. Entrambi sognavano un’Italia unificata sotto il simbolo dell’aquila imperiale, nella specie Enrico VII di Lussemburgo, re dei Romani, nel 1308. Il sogno però naufragò nel mare infido delle trame dinastiche e politiche che travagliavano l’Italia delle varie signorie. A condividere il progetto imperialistico italiano, la moglie di Cangrande, Giovanna di Antiochia. Anima fervida e ispirata, accolse Dante e la sua famiglia a corte e non poco si interessò al poema, la Commedia, che il dotto esule fiorentino andava ultimando nonostante le difficoltà esistenziali e le continue richieste di Cangrande perché Dante svolgesse impegni diplomatici presso le varie città e signorie, specie del Nord. L’appellativo di Cane, comune a molti Scaligeri, fece immaginare al sommo poeta un’analogia col ‘Veltro’ che una profezia del tempo, ripresa nella Commedia, preconizzava come redentore delle sorti d’Italia e come salvezza universale. Dante volle dedicare la terza cantica della Commedia, il Paradiso, a Cangrande, il massimo Scaligero.
Il sogno di una Italia ‘imperiale’ inteso come riconoscimento di una supremazia sacrale e non politica, non è morto con Cangrande della Scala, signore di Verona e della Marca trevigiana, e non lo hanno abbandonato tutti gli indomiti sognatori che non indossano cappe e non impugnano spade, ma credono fermamente che la civiltà del Sacro Romano Impero, nel segno cristico del Graal, sia possibile. A Verona, Roma parla ancora con il suo anfiteatro, basta una picconata ed ecco affiorare un capitello, la trama di un mosaico, il velo impalpabile di un affresco. Cosí è ovunque in Italia e in buona parte dell’Europa. La civiltà incancellabile che arde nel fuoco delle opere, nella misura della Parola Divina.
Elideo Tolliani