Esicasmo: quel sottile confine tra eresia e ortodossia

Misticismo

Esicasmo - quel sottile confine tra eresia e ortodossia

La parola “esichia” viene dal greco hesychia e vuole significare quiete, pace interiore. È una dottrina e pratica ascetica diffusa tra i monaci dell’Oriente cristiano fin dai tempi dei Padri del deserto (IV secolo). Scopo dell’esicasmo è la ricerca della pace interiore, in unione con Dio e in armonia con il creato. Divulgata da Evagrio Pontico (345-399) e da altri Maestri spirituali, la pratica dell’esicasmo è ancora viva sul Monte Athos e in altri monasteri ortodossi. Sull’Athos essa ricevette un impulso decisivo dall’opera di Gregorio Palamas (1296-1359) e nei secoli successivi dagli scritti di teologi e mistici raccolti nel trattato chiamato Filocalia.

Diacono e teologo, Evagrio nacque a Ebora, nella regione del Ponto (Asia Minore), nel 345. Amico di Basilio il Grande e di Gregorio Nazianzeno, visse a Costantinopoli, prima di ritirarsi tra i Padri del deserto (nel 385) come discepolo di Macario l’Egiziano.

Monte AthosNei suoi scritti, in particolare nel Trattato sulla preghiera e nel Praktikos, racchiuse il suo insegnamento sulla vita monastica. A lui si deve una prima classificazione dei vizi capitali e dei mezzi per combatterli.

 

Evagrio distingue nella vita spirituale due tappe:

  • la praxis, o vita pratica: lotta contro le passioni e i pensieri vani; al fine di raggiungere lo stato di apatheia (impassibilità), «uno stato di tranquillità dell’anima razionale che deriva dall’umiltà e dalla temperanza», il quale permette di elevarsi attraverso la preghiera;
  • la theoria, o vita gnostica: contemplazione della natura e dell’essenza spirituale delle cose.

 

Gradualmente, la contemplazione si eleva e partecipa di quella degli angeli, sino a culminare nella conoscenza di Dio.

Le sue opere furono condannate dal Concilio di Costantinopoli, nel 533, come origeniane. Ma nonostante la condanna, Evagrio è venerato ancora oggi in tutto l’Oriente cristiano come un padre della vita monastica e un teologo di primo piano, ispi­ratore dell’esicasmo. La Filocalia gli dedica ampio spazio.

Le sue opere piú importanti, oltre a quelle già citate, sono le Sentenze sulla conoscenza (Kephalia gnostika) e il Libro delle confutazioni (Antirrhetikos), composte di aforismi e di brevi annotazioni.

Gli esicasti praticavano la cosiddetta “preghiera di Gesú” o “preghiera del cuore”, consistente nella ripetizione incessante della stessa formula,

secondo il ritmo del respiro:

                                                             

«Signore Gesú Cristo, figlio di Dio, abbi pietà di me»

 

KYRIE ELEISON (KYRIE ISSUU CHRISTE IE THEU ELEISON IMAS AMARTANON).

 

Questa preghiera, resa celebre dai Racconti di un pellegrino russo, spesso compiuta con la testa reclinata sul petto, portò gli esicasti ad essere accusati dai loro avversari, in particolare dal monaco Barlaam (XIV secolo), di praticare l’Onfaloscopia, ossia la contemplazione del proprio ombelico.

Tale dottrina mistica provocò inoltre forti contrasti nell’Impero bizantino intorno al XIV secolo. Il contrasto, che ebbe anche implicazioni politiche, divise i capi religiosi dell’Impero per almeno dieci anni (1341-1351), contribuendo poi a indebolirlo sul fronte turco.

Considerata come pienamente ortodossa da molti Maestri e uomini di Chiesa, tale pratica spirituale viene spesso ricordata come una forma di Yoga cristiano. Innegabili sono, infine, le influenze del misticismo orientale su questa dottrina come i Tantra indú e le tecniche del tasawwuf islamico (sufismo).

 

 

La regola di San BasilioMonachesimo greco-orientale

 

Già dal IV secolo la regola di San Basilio si era diffusa sino alle coste dell’Italia meridionale, e i monaci colonizzatori avevano trovato nell’habitat naturale costituito da grotte tufacee un luogo ove edificare quello che divenne il monachesimo delle laure basiliane e successivamente dei cenobi. Il monachesimo greco-orientale si è realizzato attraverso molteplici esperienze ascetiche: alcuni si dedicavano all’anacoretismo, vivendo in un isolamento assoluto, in una dimora separata e ben lontana dalle altre. Agli antipodi di questa forma di isolamento com­pleto c’era la vita comunitaria condotta nei “cenobi”, ossia nei conventi. Tra questi due estremi c’era una forma intermedia, detta esicasmo. L’esicastèrio era costituito da due o tre grotte, separate ma vicine, e si trovava, in genere, sulla cima di una collina o nei recessi delle gravine; era abitato dagli eremiti a cui, dunque, era permessa la relazione e il contatto con gli altri solitari. Tale forma ebbe una grande diffusione, e ben presto nacque l’esigenza di accrescere numericamente i locali, ampliando le grotte. Questo aggregato umano piú consistente prese il nome di “laura”, termine greco che originariamente significava “recinto” o “sentiero ripido”, e successivamente diventò sinonimo di villaggio. Nella laura veniva eletto un capo. Tra gli eremiti il piú saggio, chiamato “calogero”, aveva il compito di presiedere alle attività in comune. Successivamente il calogero fu sostituito dall’igúmeno, ossia l’autorità giuridica. Questi, al fine di una piú facile direzione, abitava al centro dell’insediamento.

Il monachesimo basiliano impostava una nuova struttura organizzativa basata su due princípi fondamentali: il primo, una regola di obbedienza tutta incentrata sulla figura dell’abate – regola che diviene il primo passo verso l’ascesi, infatti proprio dall’umiltà insita nell’abbandono della volontà per l’obbedienza assoluta si consegue la perfezione – e il secondo, una chiara identificazione dell’unità monastica fondata sulla carità e sugli esercizi spirituali.

In piena crisi iconoclastica (711-843 d.C.), molti furono i monaci votati al culto delle immagini che approdarono sulle coste italiche, gettando le basi del monachesimo greco. L’icona è un sostegno all’ascesi mistica, non ha un valore cerimoniale ma di concentrazione del pensiero in un unico oggetto del contemplare, quello che l’antico yoga chiama dharana o fissità, e dhyana, concentrazione in un solo oggetto o fusione mentale con l’oggetto della contemplazione. Queste fasi, viste come unico processo, prendono anche il nome sanscrito di sabija samadhi o ekagrata, intendendo un processo assimilabile al respiro cosmico. L’icona con i suoi cromatismi resi tenui dalla luce dei ceri, nel silenzio del chiostro oppure nelle atmosfere meditative prodotte dal mantra ortodosso, che lavora a frequenze prossime ai 7Hz, è paragonabile allo yantra induista o tibetano.

Ecco perché è necessario comprendere l’attribuzione di valore mistico a un oggetto di concentrazione, che non è idolatria ma appunto sostegno all’ascesi. Questo è l’equivoco sul quale si aprirono i moti iconoclasti voluti da Costantino, per spazzare il potente e temuto ordine dei monaci greci in Bisanzio. L’immagine sacra restituiva al monaco o all’asceta la possibilità di meditare, partendo da una realtà mistica oggettiva che diveniva il seme o archetipo meditativo del processo ascetico.

L’iconoclastia, o guerra alle immagini, che si impose con Costantino, tagliava dal Cristianesimo ufficiale tutto un filone mistico-ascetico basato sugli archetipi meditativi, parte integrante del monachesimo greco-orientale. Da quel momento la visuale sull’antichissimo passato, al di là del Diluvio e del Giardino dell’Eden, incominciò a essere forzatamente e inesorabilmente chiusa agli sguardi indiscreti dei posteri.

La missione di Bisanzio nei confronti della Chiesa di Roma era quella di tenere lontana la minaccia araba dal Mediterraneo, ma l’esasperazione delle questioni religiose dopo la crisi iconoclastica, oltre alla decadenza dell’Impero, resero questa missione non piú sostenibile. Con l’avvento del regno franco di Carlo Magno (IX sec.), giudicato dalla Chiesa di Roma come degno continuatore della missione cui Bisanzio non poteva piú ottemperare, furono gettate le basi per una svolta politica di portata globale che sfociò poi nelle Crociate.

 

 

Il nome sacro

 

Per gli ebrei il nome di Dio, rappresentato dalle quattro lettere che formano il tetragramma sacro YHWH (Jahvè), era considerato Santo. Una volta l’anno, il giorno del Kippur, il sommo sacerdote lo proclamava nel Santo dei Santi del tempio dopo il suono dello Shophar (corno d’ariete). L’esegesi e l’invocazione dei nomi divini facevano parte delle pratiche esoteriche dei cabalisti. Nei vangeli è l’angelo, messaggero di Dio, a rivelare il nome di Gesú a Giuseppe (Matteo 1,21) e a Maria (Luca 1,31).

 

Annunciazione a Giuseppe e a Maria

 

L’angelo comunica il nome del Salvatore e annuncia il suo regno. Per molti secoli in Occidente si è trascurata la funzione degli angeli nella vita spirituale, ma la loro presenza svolge un ruolo importantissimo nel cammino dell’uomo verso Dio. Come ogni termine scritto in ebraico, il nome di Gesú è denso di significati che si completano tra loro in modo armonico. Di solito lo si traduce con l’espressione «Jahvè è salvezza».

Numerosi passi del Nuovo Testamento mostrano la venerazione della quale è fatto oggetto il nome di Gesú. «Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvo» (Atti 2,21). La potenza salvifica del nome divino è fortemente sottolineata in questo versetto. Nella Lettera ai Romani (10, 9-13) San Paolo fa uso della stessa formula, dopo aver precisato che il Signore è generoso verso tutti quelli che lo invocano.In pastore di Erma Del nome divino egli dice ancora: «Dio ha esaltato e insignito quel Nome, che è superiore ad ogni nome, affinché nel nome di Gesú si pieghi ogni ginocchio degli esseri celesti, dei terrestri e dei sotterranei, e ogni lingua proclami che Gesú Cristo è Signore, a gloria di Dio Padre» (Filippesi 2,9-11). Ciò riecheggia un passo del bel testo intitolato Il pastore di Erma, scritto anonimo del II secolo, dove è asserito che il nome del Figlio di Dio sostiene il mondo intero. L’autore della Lettera agli Ebrei (Ebrei 1,4) afferma che il Figlio di Dio è «tanto superiore agli angeli, quanto piú eccellente del loro è il nome che ha ricevuto in eredità».

Gesú stesso insegna ai suoi discepoli l’efficacia dell’invoca­zione del Suo nome: «Quanto chiederete nel mio nome lo farò, affinché il Padre sia glorificato nel Figlio. Se chiederete qualche cosa nel mio nome, io lo farò» (Giovanni, 13-14). E ancora: «In verità, in verità vi dico: ciò che chiederete al Padre nel nome mio, nel mio nome ve la darà. …Chiedete e riceverete, in modo che la vostra gioia sia completa» (Giovanni, 16,23-24). Nei Vangeli, negli Atti e nelle Lettere noi vediamo la fiducia senza limiti che gli Apostoli avevano nel Nome del Signore Gesú e la loro infinita venerazione nei suoi confronti. È per suo mezzo che essi compivano i segni piú straordinari. Certamente non troviamo nessun esempio che ci dica in che modo essi pregassero facendo uso del Nome del Signore, ma è certo che lo facevano.

Il tema della ripetizione del Nome, della preghiera del cuore, percorre tutta la tradizione esicastica, dai Padri del deserto sino ai giorni nostri, esiste qualche variante nella tecnica, ma lo spirito rimane lo stesso.

 

 

Discorsi asceticiIl metodo esicasta

 

Gli esicasti si inseriscono nella tradizione cristiana secondo la quale ripetere il nome di Gesú associato al cuore significa essere alla sua Presenza: il fine della preghiera del cuore è lo stato di preghiera continua, che corrisponde alla unione con Dio. Da studi e ricerche personali sull’arte mosaica dei monaci basiliani athoniti risulta evidente che il nome di Gesú veniva pronunziato dai monaci esicasti in lingua ebraica e non in greco o latino, poiché il Nome di Gesú in ebraico è derivabile dal Nome di Dio a quattro lettere IHVH con una lettera Shin al centro, e quindi IHSVH, nel rispetto canonico della legge mosaica. Inoltre il cuore è per gli esicasti un luogo privilegiato, che accoglie la presenza di Dio tramite il nome di Gesú, la preghiera lo risveglia e lo rende capace di sensibilità e di amore nei confronti di tutto il mondo.

Niceforo il solitarioUno dei massimi esperti di tale metodo fu il monaco greco Niceforo (XIII sec.). Su Niceforo è degna di nota la testimonianza di san Gregorio Palamas: «Niceforo aveva confessato la vera fede [antiunionista] e per questa ragione fu condannato all’esilio dal primo imperatore Paleologo, che accettò il pensiero dei latini; egli era di origine italica, ma riconosciuta l’eresia di quelle genti, raggiunse la nostra chiesa ortodossa. Qui venuto, adottò la vita piú rigorosa, quella dei monaci, e scelse come abitazione quel luogo che porta il nome della santità, cioè l’Athos, la casa della virtú, posta al limite del mondo e del sopran­naturale. Dimostrò subito di saper obbedire, sottomettendosi ai Padri piú eminenti, e dopo un lungo tempo dette loro la prova della sua umiltà; allora anche lui ricevette da loro l’arte delle arti, cioè l’esichia, come esperienza» (Triadi II, 2,2).Nel suo celebre scritto sulla pratica esicastica, Trattato della sobrietà e della custodia del cuore, Niceforo invita i lettori ad imparare la tecnica d’orazione e afferma: «Ritorna dunque, o piú esattamente torniamo, cari fratelli, a noi stessi, rigettando col massimo disprezzo il consiglio del serpente. …Perché non vi è che un mezzo per accedere al perdono e alla familiarità con Dio: prima di tutto, ritornare per quanto è possibile in noi stessi».

Niceforo fa seguire poi un elenco di brani patristici che invitano all’attenzione e alla custodia del cuore, e nell’ultima parte dello scritto parla della preghiera e del metodo: «Prima di tutto la tua vita sia tranquilla, libera da ogni preoccupazione, in pace con tutti.  …Il Regno di Dio è dentro di noi, e a chi volge verso di Lui i suoi sguardi e Lo ricerca con preghiera pura, tutto il mondo esterno diviene vile e spregevole. Se fin dall’inizio riesci a penetrare con lo Spirito nel luogo del cuore, sia ringraziato Dio! Glorificalo, esulta e attaccati unicamente a questo esercizio. Esso ti insegnerà ciò che ora ignori. Sappi che mentre il tuo Spirito si trova là, tu non devi né tacere né stare inerte. Ma non avrai altra preoccupazione che quella di gridare: “Signore Gesú Cristo, Figlio Di Dio, abbi pietà di me”. Ma, fratello mio, se malgrado tutti gli sforzi non giungi a penetrare nei luoghi del cuore, fa’ come ti dico, e con l’aiuto di Dio arriverai allo scopo. Tu sai che la ragione dell’uomo ha sede nel petto.  …Dopo aver bandito da questo luogo ogni pensiero (lo puoi, basta volerlo), donagli l’invocazione “Signore Gesú Cristo abbi pietà di me” e costringiti a gridare interiormente queste parole, escludendo ogni altro pensiero. Quando, col tempo, ti sarai reso padrone di questa pratica, essa ti aprirà senz’altro l’entrata nel luogo del cuore».

All’esicasta dunque che vuole avvalersi di un metodo psicofisico nella sua vita di preghiera, Niceforo consiglia una strada che comprende una pluralità di esigenze: scegliersi una guida esperta; sedersi, creando calma, anzitutto fisica. Infatti la mente, dispersa nelle cose esteriori, può essere raccolta solo facendola scendere nel cuore, centro di tutto l’uomo. Quando la mente sarà discesa nel cuore, sgorgherà la preghiera. Il metodo d’altra parte non opera da solo. È per questo che Niceforo invita a legare ad esso la recita interiore della preghiera di Gesú. Infatti è la ripetizione del nome di Gesú la vera via per elevarsi all’amore e al desiderio di Dio.

 

Kether