Messina, 16 settembre 1571: alle luci dell’alba, la flotta cristiana prese il mare diretta a Naupattos, Lepanto, nel golfo di Corinto, per dare battaglia alla flotta ottomana che in quella rada si preparava da giorni allo scontro. Venezia, Genova, Spagna, Savoia, su iniziativa del Papa, Pio V, formavano la Lega Santa, da cui si defilarono gli Inglesi, già allora malati di Brexit, e i Francesi, che flirtavano da tempo in segreto col Sultano, avvelenati da un malanimo antiromano che rimpiangeva Avignone.
Lo scontro avvenne il 7 ottobre e si risolse nella vittoria dei cristiani, ma fu in realtà una vittoria di Pirro, come ebbe a dire il visir Mehemet Sokolli al legato di Venezia durante le trattative di resa: «Con la vittoria di Lepanto, i cristiani ci hanno tagliato la barba, e col tempo la barba ricresce. Ma voi veneziani, perdendo Cipro, avete perso un braccio. E quello, non cresce piú».
Parole dure ma profetiche. Cipro era stata conquistata dai Turchi un anno prima. Creta, altro possedimento della Serenissima, cadde due anni dopo Lepanto.
Uscita spossata dalla battaglia di Lepanto, cui aveva partecipato con un grande impegno di navi – le famose galeazze armate di cannoni – e migliaia di uomini, Venezia non doveva piú riprendersi, anche perché, nel frattempo, le nuove rotte mercantili atlantiche, nelle mani di inglesi, francesi e spagnoli soppiantavano quelle mediterranee, e piú tardi quelle asiatiche. In qualche modo Lepanto rappresentò in termini militari uno scacco al turco, ma un danno irreparabile, dal punto di vista geopolitico e commerciale, per le Repubbliche Marinare e per le istituzioni da queste derivate, come i Cavalieri di Malta.
Nati come Ospedalieri di San Giovanni di Gerusalemme, dopo le crociate si erano insediati a Rodi. Scacciati dall’espansione ottomana nell’area, ottennero dall’imperatore Carlo V di trasferire a Malta la sede dell’Ordine. Difesero eroicamente l’isola dagli Ottomani, nel maggio del 1565. Ma nulla poterono contro Napoleone che, conquistata Malta, trasferí il loro convento prima a Trieste e infine a Roma, sull’Aventino. Dismesse cappa e spada, i Cavalieri praticano assistenza sanitaria gratuita. Napoleone decise anche la fine della Serenissima Repubblica di Venezia nel 1797.
Ma le guerre e le battaglie, vinte o perse che siano, non fanno che creare barriere divisorie nelle comunità umane. Lepanto, spente le grida e gli scoppi dello scontro in mare, che si ridusse a una mischia truculenta, un grand-guignol di sangue e carne, lasciò i combattenti in condizioni economiche disastrose e tolse al Mediterraneo la nomea di culla di civiltà che l’aveva contraddistinto. Divisione ancora piú dolente e irreparabile, poiché ai contrasti materiali si aggiunsero quelli spirituali. Senza contare le contraddizioni e le varie ipocrisie che connotarono i due schieramenti, facendo trapelare da sotto le armature fregiate con i simboli del Cristo e dei Santi protettori di ciascun contingente, la brama della conquista territoriale, degli orgogli dinastici da rivalutare, e finanche del prestigio talare degli ordini religiosi presenti a Lepanto. Frati e predicatori incitavano i combattenti mentre si scannavano, promettendo, se non la vittoria in mare, quella piú gloriosa e duratura in cielo grazie alle indulgenze che venivano garantite ai morituri.
E gli Ottomani? Non potevano certo vantarsi di essere duri e puri nei confronti di Allah e del Profeta. L’ala sinistra dello schieramento della loro flotta era comandata da Uluds Alí, detto Uccialli, volgarizzato in “Occhiali”, un rinnegato cristiano, oriundo calabrese, che organizzando la pirateria barbaresca e dirigendo le loro scorrerie sulle coste meridionali italiane, era diventato il bey, il pascià di Algeri. Quanto contassero fede e onore sui due fronti dipendeva dalla posta in gioco, e quella della battaglia di Lepanto era altissima. Ma Dio ne risultò latitante. Poiché lo scontro non accrebbe valori morali alla civiltà umana, molti invece ne tolse per vanità e sete di potere. E non meno quelli materiali ne furono compromessi, ché Spirito e materia interagiscono.
La Croce e la Spada, Cristo e Lucifero, il Sole e la Luna, si erano confrontati perché gli uomini, volendo accaparrarsi una tutela invincibile, li avevano chiamati in causa, e nel loro segno e nome portavano vessilli, designavano territori e città, ostentavano culti e templi, e la Terra pativa le loro trincee. I viaggiatori che affrontano la Via della Seta, queste trincee sperimentano. Nacque negli anni Sessanta la mania dell’Oriente via terra, come Marco Polo, come l’Abate Curzon, come tanti giovani hippy e non, che attratti dal miraggio dell’India e dai facili paradisi di Goa e Srinagar, percorrevano l’altopiano anatolico allo sbaraglio. Molti desistettero dall’impresa, non pochi si perdettero. I dromomaniaci motorizzati, oggi come allora, organizzano carovane di camper di piú equipaggi, mèta la Turchia profonda, quella del Monte Ararat, con il relitto dell’Arca, il lago di Van, che vanta la presenza, piú volte attendibilmente testimoniata, di un mostro del giurassico come quello di Loch Ness.
Dopo il traghetto dall’Italia, l’attraversamento delle montagne dell’Epiro, un perverso capriccio di tornanti, saliscendi, dossi e tagli di paesi arroccati, armenti peripatetici e ribelli. La sosta presso le Meteore, luogo fuori del tempo, adatto al riposo e alla meditazione. Pace e silenzio interrotto all’improvviso, all’alba, dai chicchirichí imperiosi di centinaia di galli. Un compatto, penetrante unisono di acuti stentorei, modulati secondo un’atavica partitura, il cui fine è destare l’uomo. Chi frequenta le campagne nostrane sente invece difficilmente il canto dei galli.
Gesú scelse il canto del gallo per indicare a Pietro il momento in cui lo avrebbe tradito per ben tre volte. Perché non la luce solare, il sorgere di una stella, il tramontare della luna? Il gallo occupa un posto importante nella simbologia misterica: uccello solare, indica il risveglio, lo spuntare del giorno, l’alba. È anche simbolo apotropaico, in quanto scaccia le tenebre, le ombre, usato come banderuola vigila sulla sicurezza della dimora e indica la direzione del vento. Sacro ad Apollo, per i Greci, a Mitra per gli indopersiani, nella mitologia Sumera è il dio Nergal, dominatore delle forze naturali, e i popoli nordici immaginavano che il suo canto risvegliasse gli eroi del Valhalla per la battaglia finale contro il Male.
Naturalmente Gesú, fissando il termine della prova al canto del gallo, voleva destare un’intima vigilanza in uno dei discepoli cui teneva molto. Del resto nei tre anni della vita in comune quante volte aveva dovuto stupire i suoi compagni di vita e di fede per rassicurarli della sua natura divina! «Sei tu quello promesso o dobbiamo aspettarne un altro?» E ancora, da parte sua, la domanda: «Voi chi credete che io sia?». E proprio il piú ruvido dei suoi seguaci aveva risposto: «Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio!». Solo il piú grezzo aveva dato il raggio piú luminoso. Ma era stata una fiammata, o forse una fiammella che non aveva retto al vento che si era scatenato quella notte, l’ultima della presenza di Lui tra i suoi, quando a Pietro avevano rivolto per tre volte la stessa domanda: «Ma tu, non eri con il Galileo? Tu eri uno dei suoi!» Per tre volte Pietro aveva negato. Il gallo cantò, ed egli pianse amaramente.
I monaci delle Meteore, appollaiati con i loro cenobi sulle cime di quei proietti siderei caduti chissà quando dal cielo e infissi nella terra sassosa, piú che ministri della fede di Cristo sembrano gli occupanti di una trincea nella Linea Maginot del rito ortodosso, e oltre, di fronte, per miglia, secondo una citazione letteraria, il Deserto dei Tartari, rappresentato dall’Islam. Da un momento all’altro sembra poter irrompere l’orda mongola. Ché i Turchi, erroneamente ritenuti arabi, sono in realtà uraltaici di ascendenza mongola. Parlano una sorta di urdu e vivono l’Islam con un rigore e una determinazione ascetica. I Dervisci, fluttuando a mezz’aria nelle loro danze, segnano l’acme della loro capacità di trascendere la materia fisica.
Passando il confine tra Grecia e Turchia, il viaggiatore avverte netta, fisica, soverchiante, la linea di demarcazione tra il mondo cristiano, in quell’area testimoniato dalle edicole votive sormontate da immagini sacre e lumini accesi, e il vasto, sconfinato oceano della mezzaluna musulmana. Che ha le sue alloppianti seduzioni. Se presso i monaci delle Meteore cantano i galli solari, oltre la linea di confine tra Cristianità e Islam il risveglio è assecondato dalle nenie dei muezzin dai minareti. Modulate, tramate in arabeschi, le voci che dall’alto delle torri esili come i sogni delle Mille e Una Notte si diffondono contro un cielo stellato, con la luna adagiata sulla cima frangiata di una palma. E l’incanto, il sortilegio, l’affatturamento astrale è compiuto.
Procedendo sull’altopiano anatolico, ecco le prove visibili e tangibili del bisogno che ha la creatura umana di farsi un’immagine del Creatore, di venerarla in templi solari e, se impedito di farlo all’aperto, portare con sé Dio nelle caverne – come nella roccaforte di Uçisar, scavata nella roccia in complessi labirinti – e se stanato, difenderne il nome e l’essenza fino alla morte. La Cappadocia, gli Iconoclasti, la divinità cancellata dagli affreschi murali e fatta risorgere in forme scultoree, in mosaici. Perché tanto è il bisogno di Dio in un popolo di uomini devoti. Ma subito contro quel Dio ecco la spada di un altro popolo per negarlo e proporre il proprio. Lepanto è solo il triste, drammatico esito di una di queste sterili, eppur feroci, diatribe tra la croce e la spada.
Ma forse queste plateali, sanguinose battaglie per terra, per mare e ora anche per aria, che hanno afflitto e tuttora affliggono i popoli, quale che sia il loro credo religioso, sono una macchinazione per stornare la guardia dei combattenti dal vero nemico che trama la loro rovina finale. E non lo fa con armi tonanti, plateali, con schieramenti di forze in campo aperto, in vastità marine e spazi aerei.
Mentre in passato i detrattori di Cristo agivano allo scoperto, esponendosi in battaglie campali o scontri navali, oggi lo fanno occultamente con piú sofisticati strumenti nei vari bilderberg dell’ateismo e del genetismo liquido. Sono i veri ostacolatori del Divino, che con il pretesto di far trionfare la verità della scienza positivista, elaborano formule, teoremi, che non hanno altro scopo oltre quello di dimostrare che la Divinità non esiste, e che se qualche anima candida e sprovveduta vede statue lacrimare, non va creduta bensí ricoverata.
La solerte dottoressa Johanna C. Cullen, una ricercatrice della Georgetown University, USA, si dice certa che il batterio “Serratia Marcescens” avrebbe causato il sanguinamento dell’Ostia nel miracolo di Bolsena, che la dotta analista si affretta a qualificare come “presunto”. E sempre il batterio sarebbe la causa di tutte le lacrimazioni delle statue della Vergine. Il miracolo non può essere contemplato, né compreso, dalla scienza, per quanto ferrata, e meno che mai dalla filosofia razionalistica, poiché, come diceva San Gregorio di Nissa: «I concetti creano gli idoli. Solo lo stupore conosce». Lo stupore genuino dell’uomo che trova la sua consolazione nel segno del divino che si manifesta imprevedibile, e dà segno di sé.
Man mano che ci si allontana dal Mediterraneo, verso l’interno, gli echi di Lepanto si spengono. Nessun gallo ortodosso o muezzin islamico. L’altopiano anatolico riporta alle origini della civiltà umana. La strada incide un paesaggio austero, privo di gentilezze arboree. È l’antico Regno dei Mitanni, gli Ittiti, scopritori del ferro, quel metallo molto piú duro ed efficace del rame nel combattere e uccidere. Gli Egizi lo avevano sperimentato a loro spese nella battaglia di Kadesh, combattuta tra il faraone Ramesse II e Muwatalli, re degli Ittiti. Solo una prodezza dello stesso faraone, che si gettò nella mischia con il suo carro da guerra, permise agli Egizi di avere ragione di un popolo che riponeva nell’uso delle armi il potere di assoggettare i regni, dal Libano alla Persia.
Al centro della regione, Yazilikaya, l’area archeologica ritenuta dagli esperti ciò che resta della città principale ittita dopo Hattusa, la capitale del Regno di Mitanni. Un’improvvisa grandinata è seguita da un arcobaleno, che si inarca nel suo variopinto splendore sulla distesa delle rovine coperte di muschio. Le armature di pietra porosa, gli elmi e gli scudi dei guerrieri barbuti scolpiti nei bassorilievi, mandano riverberi di gocce iridescenti. Un gregge di oche attraversa il sentiero sterrato che borda gli scavi. In mezzo al branco gracchiante la guardiana, una fanciulla poco piú che adolescente. Senza parlare, si avvicina, sorride e offre un cestino di mele selvatiche raccolte da qualche parte nelle vicinanze. Poi si allontana, e di tanto in tanto si rigira sorridendo, fino a scomparire col suo strano armento, verso un abitato che si indovina prossimo ma invisibile nella topografia della zona.
Ecco, in quel sorriso, nel dono semplice, nell’apparizione quasi incongrua, stupefacente, è la risposta. La vittoria finale dell’umanità su barbarie e crudeltà è la bellezza. Una bellezza colma di umanità, che agisce obbedendo al cuore. Allora si dimenticano gli schieramenti, il partito, le lobby, e si agisce in piena, vera libertà.
Leonida I. Elliot