Pensare fa male? Secondo Cartesio, affatto, serve anzi a definire la propria identità. Io penso, diceva, dunque sono, esisto. Io penso, diciamo noi, dunque sono connotato, identificato, posso votare, andare in guerra, giocare in borsa o al tennis. Negli anni delle rivalse sociali, correva il dogma dell’inutilità del pensiero, o almeno del pensiero aperto a tutti. Tu operaio, contadino, minatore, autista di bus, carbonaio, tu non devi pensare, non serve all’emancipazione del popolo. A pensare deve pensarci chi è pagato per farlo. Tu limitati a fare quello che ti dicono di fare i pensatori autorizzati dal Grande Fratello del momento. Il tuo lavoro fallo bene, fanne tanto, e lascia il logorío mentale, una funzione del tutto meccanica, agli incaricati che seguono particolari corsi psicoginnici per sfruttare al meglio il cogito. I tempi cambiano però, e sono cambiati i criteri di giudizio degli effetti del pensare sugli individui nelle varie realtà umane. Nello Zimbabwe, in Africa, ex Zambia, ha preoccupato le autorità sanitarie non il pensare in quanto attività fisiologica, bensí l’eccesso di tale esercizio mentale, psichico, soprattutto il pensare carico di preoccupazioni, che sembra divenuto una vera e propria pandemia.
La saggezza popolare, che in Africa come altrove va all’osso dei fenomeni, le ha subito affibbiato un nome: “kufungisisa”, termine che nella lingua “shona” delle comunità locali significa “pensare troppo”. Per affrontarla è sceso in campo il dottor Dixon Chibanda, uno dei 12 psichiatri attivi nello Zambia, dato che la kufungisisa è stata catalogata a livello internazionale come una forma seria di depressione, il male oscuro che ormai piú di ogni altro sta distruggendo l’umanità. 300 milioni di persone vengono colpite ogni anno nel mondo da forme depressive piú o meno gravi, con circa 800mila suicidi. Una catastrofe umanitaria. Ma il dottor Chibanda ha trovato una soluzione. Il suo rimedio contro la kufungsisa è stato quello di installare nei parchi pubblici dello Zimbabwe una grande quantità di “panchine dell’amicizia”. Poi ha cercato, e trovato, 400 nonne, le quali, senza particolare istruzione ma cariche di saggezza popolare, sono state felici di prodigarsi per ascoltare i drammi esistenziali delle persone depresse e cercare insieme qualche soluzione, sciogliendo con l’empatia i nodi aggrovigliati al fondo dell’anima. E il beneficio si estende alle stesse nonne, che si sentono socialmente utili.
Perché dunque non fare del metodo Chibanda una panacea mondiale, un metodo globale, poco costoso e umano? L’Africa insegna. Impariamo. In un parco pubblico un malato incurabile, una donna sola e angosciata, un giovane che medita di farla finita perché non sa colmare il modello super che la società, la famiglia o la scuola pretendono da lui. E persone di buona volontà che hanno un carico di esperienza data dei tanti anni di vita trascorsi, possono mettersi a disposizione per aiutare a risolvere, o almeno per raccogliere quello sfogo, quel bisogno di essere ascoltati, di non sentirsi soli ad affrontare la prova che sembra insormontabile e che forse troverà una soluzione con le giuste parole che sgorgano dal cuore, portando un guizzo di luce nel tunnel, a volte oscuro, della vita.
Elideo Tolliani