«Aspettò un momento che i ragazzi si allontanassero, poi entrò anche lui nella sala’ del buffet. Una lunghissima stretta tavola stava nel fondo, illuminata dai famosi dodici candelabri di vermeil che il nonno di Diego aveva ricevuto in dono dalla Corte di Spagna, al termine della sua ambasciata a Madrid: ritte sugli alti piedestalli di metallo rilucente, sei figure di atleti e sei di donne, alternate, reggevano al disopra delle loro teste il fusto d’argento dorato, coronato in cima dalle fiammelle di dodici candele. La perizia dell’orefice aveva maliziosamente espresso la facilità serena degli uomini, la fatica aggraziata delle giovinette nel reggere lo spropositato peso. Dodici pezzi di prim’ordine. “Chissà a quante salme di terreno equivarranno”, avrebbe detto l’infelice Sedara. Don Fabrizio ricordò come Diego gli avesse un giorno mostrato gli astucci di ognuno di quei candelabri, montagnole di marocchino verde recanti impresso sui fianchi l’oro dello scudo tripartito dei Ponteleone e quello delle cifre intrecciate dei donatori. Al disotto dei candelabri, al disotto delle alzate a cinque ripiani che elevavano verso il soffitto lontano le piramidi dei “dolci di riposto” mai consumati, si stendeva la monotona opulenza delle tables à thé dei grandi balli: coralline le aragoste lessate vive, cerei e gommosi gli chaud-froids di vitello, di tinta acciaio le spigole immerse nelle soffici salse, i tacchini che il calore dei’ forni aveva dorato, i ‘pasticci di fegato grasso rosei sotto le corazze di gelatina, le beccacce disossate recline su tumuli di crostini ambrati, decorati delle loro stesse viscere triturate, le galantine color d’aurora, dieci altre crudeli, colorate delizie. Alle estremità della tavola due monumentali zuppiere d’argento contenevano il consommé ambra bruciata e limpido. I cuochi delle vaste cucine avevano dovuto sudare fin dalla notte precedente per preparare questa cena. “Caspita quanta roba! Donna Margherita sa far bene le cose. Ma ci vogliono altri stomaci del mio, per tutto questo”. Disprezzò la tavola delle bibite che stava sulla destra, luccicante di cristalli e di argenti, si diresse a sinistra verso quella dei dolci. Lí immani babà sauri come il manto dei cavalli, Monte Bianchi nevosi di panna, beignets Dauphin che le mandorle screziavano di bianco e i pistacchi di verdino, collinette di profiteroles alla cioccolata, marroni e grasse come l’humus della piana di Catania dal quale, di fatto, attraverso lunghi rigiri essi provenivano, parfaits rosei; parfaits sciampagna, parfaits bigi che si sfaldavano scricchiolando quando la spatola li divideva, sviolinature in maggiore delle amarene candite, timbri aciduli degli ananas gialli, e “trionfi della gola” col verde opaco dei loro pistacchi macinati, impudiche “paste delle Vergini”. Di queste don Fabrizio si fece dare e, tenendole nel piatto, sembrava una profana caricatura di Sant’Agata esigente i propri seni recisi. “ Come mai il Santo Uffizio, quando lo poteva, non pensò a proibire questi dolci? I ‘trionfi della gola’ (la gola, peccato mortale!), le mammelle di S. Agata vendute dai monasteri, divorate dai festaioli! Mah!)».
Siamo al gran ballo in casa Ponteleone, una delle pagine memorabili de Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, immortalato in sequenze altrettanto memorabili da Luchino Visconti, con il magistrale supporto recitativo di Burt Lancaster, spalleggiato dalla grazia di Claudia Cardinale e dal talento di Alain Delon, di Paolo Stoppa e di tutti gli altri, accomunati nella costruzione di una pietra miliare nella storia del cinema. Don Fabrizio, principe di Salina, si aggira in un’atmosfera di saturazione e ridondanza: sfarzo, ricchezza, storia nobiliare, intrecci politici, militari e amorosi. Sovrano di questi eccessi, il cibo.
Si avverte nella resa autobiografica del libro, pubblicato nel 1958, il sentore di un’unità nazionale che stenta a comporre il patchwork di entità e realtà divergenti e discordanti, soprattutto a livello sentimentale. Matrimonio di interesse, quindi, come quello di Tancredi e Angelica, presi nel vortice dei sensi e della mondanità, disposti a sacrificare i buoni sentimenti e gli alti ideali alla convenienza. Il buffet pantagruelico, superfluo, persino blasfemo, rappresenta il paradigma degli umori che connotano tutte le rivoluzioni, ideali o viscerali, disposte comunque a pattuire. Come dice il principe di Salina: «Noi fummo i gattopardi, i leoni: chi ci sostituirà saranno gli sciacalli, le iene; e tutti quanti, gattopardi, leoni, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra».
Non è cambiata molto da allora l’Italia: buffet e grandi balli, leopolde e convenzioni, nei palazzi dei Salina e dei Ponteleone incrociano le nuove aristocrazie del denaro, dei piccoli e grandi Bilderberg, un mare magnum popolato di voraci ma solenni squali e di remore spazzine tipo Sedara, che l’autore del libro, per bocca del Gattopardo, definisce “infelice”. Allora come adesso, mai un Sedara, bifolco rimpannucciato, potrà ambire a rouler carosse, non perché non potrebbe, ma perché non avrebbe il savoir faire acquisito in secoli di familiarità con il potere e i suoi severi, e spesso feroci, meccanismi e rituali. Sbaglia chi si illude che bastino i soldi, la laurea e la locazione per acquisire il quarto di nobiltà.
Lo vediamo qui in Italia, dove la casta degli eletti, che si è tramandata il potere in modo manifesto in passato, e dopo il 1793 in maniera occulta per evitare forconi e ghigliottina, storce il naso e fa scongiuri se la democrazia, oppio dei poveri, porta al governo della cosa pubblica gente qualunque, dei parvenu senza pedigree dinastico verificato, che non sanno stare a tavola, berciano e insolentiscono. I Sedara, insomma. Utili questi, però, a far lavorare mezzadri e braccianti a produrre le buone cose per allestire i sontuosi pranzi e i buffet dei nobili. O il furbo e sagace Ciccio Tumeo, nel film di Visconti un Serge Reggiani all’altezza del cast, che, lupara in spalla, gira per fondi e campagne e poi riferisce.
Nel tempo, il potere, privato o pubblico che sia, ha soltanto raffinato i modi e adeguato gli strumenti di pressione e soppressione all’evolversi della società da cui trae la propria giustificazione politica e storica, e soprattutto il quid materiale, la forza motoria che in pace, e con maggiore impatto in guerra, serve alla perpetuazione della propria struttura, in cui l’élite dominante occupa la stanza dei bottoni. Guai se per una disavventura democratica – una votazione o un referendum – vi si infiltrino i primitivi.
Come i ‘Giggini’, grezzi e inaffidabili per il fatto di essere, oltre ogni sopportabile iattura, meridionali. Se ciò accade, scatta, rapido e totalizzante, il meccanismo di sabotaggio, per far tornare tutto come prima.
Questa considerazione ci allontana dal tema del cibo, ma serve a far notare il disagio che sta vivendo il nostro Paese per l’incapacità di chi è seduto alla tavola delle risorse nazionali, dei privilegi castali, dei titoli accademici e dei talenti naturali, persino delle dotazioni psicofisiche, di fare posto a chi ne è privo, non fosse altro che per tattica. Posizioni di irremovibile egoità non farebbero che suscitare infatti rancori sfocianti in pretese di risarcimenti, con il rischio che, se negati, qualcuno, con piú fame degli altri, potrebbe rovesciare la tavola in un pareggio dei torti che sciuperebbe il convivio comune.
Per evitare che ciò accada, o almeno per rimandarne l’avvento, si praticano quotidianamente grandi ipocrisie sociali, come appunto il suffragio elettorale: ipocrisia che fa rima con democrazia. O si ricorre al cibo. “Ne uccide piú la gola che la spada”, recita il proverbio. In questo caso, un inganno. È il famoso panem che i Romani, unito ai circenses, usavano per imbonire il popolo. Il cibo, dunque, panacea di sempre per qualificare il potere e giustificarne il possesso. I sovrani minoici gestivano l’ammasso delle derrate alimentari, i prodotti della terra e degli allevamenti, e quelli della loro trasformazione, nei grandi magazzini dei palazzi di Cnosso e Festo, dove venivano conservati in grandi vasi istoriati. Ne veniva curata la distribuzione al popolo con criteri che supponiamo equi, visto che non si riportano episodi di rivolta o esodi forzati per carestie e vessazioni.
Nel racconto del buffet del Gattopardo si accenna, descrivendo il pantagruelico torreggiare di “crudeli delizie”, alla sorte che viene riservata alle aragoste, lessate vive perché conservino, dopo la cottura, l’aspetto corallino nel guscio e la tenerezza della carne. Don Fabrizio ne ricusa l’assaggio non per rispetto animalista, lui incallito e infallibile cacciatore, a sentire il fedele e complice Tumeo, ma per l’eccessiva esibizione di quel ben di Dio, che tuttavia era costato tanta fatica ai «cuochi delle vaste cucine, che avevano dovuto sudare fin dalla notte precedente per preparare questa cena».
Il Gattopardo, davanti a tanto spreco di cibo, deve aver avuto lo sguardo di Tom Hanks di fronte ai ricchi avanzi del ridondante buffet offerto dalla sua società per celebrare il ritorno dal suo cast away. Avanzi smaccatamente costosi, quasi un oltraggio, rispetto ai pasti rapsodici e selvaggi del naufrago. E certamente i granchi enormi e le aragoste grasse e tenere servite al buffet del redivivo funzionario, prima di essere gettati nell’acqua bollente avranno usufruito del trattamento umanitario riservato ormai per legge negli USA ai crostacei, una delle specialità piú richieste nei ristoranti delle località costiere, specie nel Maine. Prima di immergerli nell’acqua bollente vengono sedati con una iniezione di marijuana. Prima lo facevano con una scarica elettrica, ma si sono accorti che gli animali rimanevano svegli e quindi provavano dolore, e la sofferenza, invece di ammorbidirne la carne, la induriva.
Ma il principe di Salina, cosí come la maggioranza della gente, altolocata o plebea che fosse, di fronte all’abbondanza e alla bontà del cibo per prima cosa ringraziava la Provvidenza, poi calcolava, alla Sedara, quante ‘salme di terra’ si sarebbero potute comprare con l’equivalente della spesa affrontata per aragoste e quant’altro. Nel particolare caso di una persona anziana e accorta come Don Fabrizio, la conclusione era d’obbligo: «Ci vogliono altri stomaci del mio, per tutto questo». La salute, quindi, non altro sentimento o timore fermentava nell’animo di chi giudicava uno show culinario come quello preparato da Donna Margherita Ponteleone per stupire e soddisfare tutti gli invitati al gran ballo. Non era ancora nato all’epoca del romanzo, e non lo sarebbe stato ancora per anni a venire, quello strano sentimento di pietà francescana per tutte le creature viventi, che altrove e presso altre dottrine era vivo da secoli, persino millenni, come in India, dove attraverso la pratica vegetariana si rispettava la materia animata dallo Spirito, qualunque forma questo le conferisse. Il “non uccidere” del Decalogo veniva osservato in maniera assoluta e senza distinguo pregiudiziali. L’imperatore Ashoka, di credo jainista, l’ortodossia indú alla potenza, girava dentro e fuori il suo palazzo con una mascherina per evitare di uccidere, aspirandoli, i moscerini, cosa che tuttora fanno i fedeli del jainismo. Tempi felici, quelli, ma non durarono a lungo. Basta vedere certe preziose miniature antiche Mogul, quelli del Taj Mahal, per intenderci, e le scene di caccia e di predazione umana e animale ci fanno capire che il comandamento “non uccidere” viene aggirato, in India come altrove, con fantasiosi pretesti, per cui le uova non ingallate, non fecondate dal gallo, diventano commestibili, e il precetto di rispettare il germe vitale in ogni sua forma e seme resta salvo. Lo stesso per la vacca sacra, intoccabile persino. Non potendola mungere, si è ricorso alle bufale, o in tempi recenti, nel regime del Commonwealth, si importava, e tuttora lo si fa, il latte in polvere dall’Australia e dalla Nuova Zelanda. In tal modo, è stato vinto il rachitismo infantile, piaga dovuta piú allo zelo religioso che alla carenza organizzativa.
Ma non tutti gli indiani sono indú, e non tutti si astengono dalla carne. Chi mangia bistecche lo può fare in locali gestiti da europei o da musulmani. Questi ultimi possono anche commerciare in pellami e hanno praticato in passato uno strano metodo per procurarsi la materia prima. Per evitare dissidi con gli indú, che spesso sfociavano in scontri aperti, anche letali, incitavano le mandrie di bovini fino a farle precipitare in burroni e fiumi. Non toccando il sacro animale non c’era l’offesa sacrilega. Anche qui, ipocrisia, senza dubbio, ma chi può dire di esserne esente? In un banco “polli e uova” di uno dei tanti coloriti e chiassosi mercati di quartiere a Roma, si possono cogliere battibecchi come questo:
«Sono fresche le uova?» chiede, sospettosa, una signora.
«Freschissime. Categoria A», la risposta del venditore.
«Ne vorrei sei, ma sono di galline allevate a terra?».
«Certo, signora. Non ha visto la pubblicità? C’è scritto proprio: “Le nostre galline sono allevate a terra”. Piú chiaro di cosí!
«Sa, non per trovare il pelo nell’uovo – risatina conciliante – ma che lo dica la pubblicità conta fino a un certo punto!».
«Come sarebbe a dire?».
«Sarebbe a dire che non basta stampare una locandina per garantire che le galline siano veramente allevate a terra, cioè al razzolo in natura. “A terra” potrebbe anche significare sul pavimento di un capannone di un ex impianto siderurgico fallito. Tanto per capirci, sul cemento».
«Ma lei, signora, non solo cerca il pelo nell’uovo, ma, mi scusi, lei le uova vuole romperle! Quando diciamo a terra, intendiamo in campagna, razzolo…».
«Sí, ma quale campagna, quella intorno a Roma? Un letamaio, magari con rifiuti tossici e scorie nucleari. Allora, sai che uova biologiche, nel rispetto della gallina ruspante!».
Il sarcasmo affiora, si propaga, contagia altri avventori. Ma poi, subentra la rassegnazione.
«Beh, voglio fidarmi – si arrende la signora – me le incarti, queste uova rasoterra…!».
«Ma guarda sí che tocca sopportare per sei uova… manco avesse comprato una gallina intera!» si sfoga il negoziante, mentre la cliente si allontana col cartoccio delle uova. A casa, passerà minuti penosi per decidere dove gettare l’incarto, che intanto si è ingrommato della chiara di due uova rotte.
Dal mercato rionale, caciarone e rissoso, alla pubblicità della TV, patinata, glamour. Non galline, ma polli, anzi polletti, che a seconda delle zone di allevamento sono definiti amburghesi, vallespluga, tirolesi, marchigiani. In realtà, nanopolli ottenuti con innesti, o incesti, genetici, alla dottor Mabuse. La scaltra pubblicità televisiva li propone in clip fascinosi che li mostrano prima in razzolo gagliardo sullo sfondo edenico alpestre, tipo Engadina, mentre una voce suadente, fuori campo, informa che: «Qui, i nostri galletti ricevono il trattamento bio, il becchime selezionato, in una valle dove l’aria, l’acqua e il suolo vengono strettamente monitorati per garantire l’assoluta purezza di ogni elemento nutrizionale e ambientale. Ecco cosa mangiano i nostri galletti…» e il video mostra cascatelle di chicchi di mais, scaglie dorate e croccanti di miglio tostato, di semi turgidi che colmano le ciotole dell’appasto che mani affusolate e sapienti di fanciulle agresti hanno predisposto per i fortunati pennuti. Ma come nella fiaba, la perfida vecchia strega, avendo ben ingrassato Hansel, il fratellino di Gretel, vorrebbe mangiarselo.
Nella fiaba dei Grimm i due bambini, campioni di furbizia, riescono a salvarsi. Ma i galletti amburghesi, vallespluga e marchigiani che dir si voglia, non ci riescono. Il video li mostra finiti teglia, dorati e ben unti, con una corona di patatine novelle arrostite ad arte. L’ultima ipocrisia è consumata. Il finto animalismo della donna al mercato rionale che si batte per il diritto di razzolo delle ovaiole, la società che garantisce la bontà del becchime dei galletti mignon, rivelano la falsità di un rapporto uomo-animale volto alla predazione e alla fagocitazione dell’inerme. Il vegetarianesimo ha tentato di sconfessare questa ipocrisia, facendo capire che il non mangiare carne non è un percorso dietetico ma etico.
Il non uccidere è presente non solo nella Legge mosaica, ma anche in altre dottrine e pratiche ascetiche, come l’astinenza carnea degli Esseni.
Giunto in Occidente sull’onda della colonizzazione dell’India da parte degli Inglesi, e rafforzato dal fenomeno hippy del Sessantotto, rara avis tra tante follie devianti, il vegetarianesimo sembrava aver aperto un varco nel massiccio bastione dell’alimentazione tradizionale europea, sfatando i pregiudizi dietetici soprattutto della medicina, che individuava nella carenza delle proteine della carne la causa di deperimenti, insufficienze, patologie metaboliche e mentali persino, nella dieta, di quella infantile soprattutto, se carente di alimenti carnei. Ad un certo punto, sembrava cosa fatta: ai bambini non si dava piú fegato crudo per i muscoli, sangue di bue appena macellato per la stamina, cuore di rondine per l’intelligenza, e cosí via, pochi esempi di tante pratiche nutrizionali, note o meno, al limite della magia, che vigevano nella tradizione di molte realtà etniche locali del nostro Paese. Quando si capí, proprio grazie ai contatti con popoli e costumi diversi, che il mondo vegetale era in grado di fornire le stesse sostanze della carne, e in maniera persino piú sottile ed efficace, la contesa tra alimenti vegetali e la carne, nelle sue varie declinazioni culinarie, sembrava essersi risolta a favore dei primi. A partire piú o meno dagli Anni Ottanta, essendosi l’Italia attardata nella scelta vegetariana, accolta altrove, specie nei Paesi del Nord Europa, già da tempo, chi chiedeva pietanze vegetali in un ristorante romano non doveva piú aspettarsi, a seconda dell’ubicazione del locale, commenti sarcastici di ogni tenore. Lentamente nei menu, anche in zone decentrate e disinformate, apparve la lista dei piatti veg.
Diedero una mano ai vegetariani in erba l’epidemia della “mucca pazza” dei bovini, la “lingua blu” degli ovini, l’ “aviaria” degli uccelli. Ma dopo qualche anno di austerità non per virtú ma per terrore, e con la discesa in tavola dei profeti della bistecca überalles, come Dukan, la carne è tornata in gioco. Un credo assolutista, che sfiora l’integralismo alimentare. E poiché gli assolutismi ne generano altri, in opposizione o in supporto, ecco nascere il veganesimo, che, dicono i superficiali, è la botta finale, il colpo segreto e invincibile che sbaraglierà per sempre le fiorentine con l’osso, il tournedos alla Rossini, la bistecca alla Bismarck, le animelle romanesche. Gli chef vegani ricordano, per ardore e veemenza nel parlare e proporre le loro idee, nel caso vegano i loro menu, il Savonarola e Calvino. Partiti da un proposito di far bene e predicare la morigeratezza, l’astinenza, la vita austera, il rifiuto dei beni di consumo in cui inglobavano abbigliamento, gioielli, quadri e sculture, s’inimicarono il primo Firenze, il secondo i ginevrini ai quali aveva vietato l’accesso a teatri, cabaret, sala da ballo e birrerie. Firenze senza l’arte e Ginevra senza la joie de vivre portarono il primo al rogo e il secondo a un rigore che suscitò la Controriforma e il Gesuitismo. In medio stat virtus dicevano i Romani, che di panem et circenses s’intendevano. Il vegetarianesimo può egregiamente mediare tra due opposti integralismi: il solo cibo animale di Dukan e il cibo integralmente vegetale, persino solo crudista, di alcuni vegani. Dicono i vegani perché la mucca se munta male soffre, se la gallina è in batteria si ammala, se il gallo è depresso in gabbia non canta e non feconda. Ma questi sono abusi e maltrattamenti da superare, ispirando nell’uomo che governi una fattoria, allevando polli e altri animali, la consapevolezza di essere un sacerdote della vita creata, opera divina da rispettare e tutelare.
Ci sono poi i detrattori del vegetarianesimo che dicono pretestuosamente che anche le cipolle piangono quando vengono affettate per essere cucinate. A costoro possiamo rispondere con le parole di un Maestro che sapeva di filosofia, di arte, di agricoltura e di medicina, un vero dottore di anime: «Alcuni scienziati moderni affermano che anche alle piante sia da attribuire direttamente la sensazione. È però solo un gioco con le parole. Per certe piante avviene senz’altro che reagiscano a delle sollecitazioni, se qualcosa viene loro vicino, se qualcosa agisce su di loro, ma questo non è ancora sensazione. Perché lo sia, occorre che nell’interiorità dell’essere sorga un’immagine, quale riflesso della sollecitazione. Se anche in certe piante avviene una reazione a seguito di un’azione esterna, questo non è ancora una prova che la pianta abbia portato interiormente la reazione a diventare sensazione, che essa interiormente senta. Quel che si sente interiormente ha la sua sede nel corpo astrale» (Rudolf Steiner, Il sangue è un succo molto peculiare – O.O. N° 55).
Possiamo dunque confutare ogni provocazione sia dei seguaci di Dukan sia dei praticanti di un animalismo di maniera, finanche pretestuoso, ispirandoci alle parole del Maestro dei Nuovi Tempi: le cipolle, se affettate, non piangono. Laddove, ed è cosa testimoniata, piangono i vitelli quando imboccano il corridoio della morte nei macelli cosiddetti ‘umanitari’. A nessun vivente, dotato di anima senziente, la morte risparmia il dolore dello strappo lacerante, del distacco dalla sostanza materica entro e per la quale si è espresso. Le cipolle fanno, semmai, piangere gli uomini che dissacrano, orchi maldestri, le forze della natura. Forze che sono in noi, intorno a noi e parlano di vita e non di morte. Credere che la morte risolva tutto è il diabolico errore in cui l’uomo è caduto quando, tentato, per sottrarsi alla tutela divina, si è improvvisato apprendista stregone. E allora, ecco la guerra, lo sterminio, la scienza materialistica, la medicina genetista che sopprime gli embrioni ‘genepesca’, relitti di avventate fecondazioni contro natura. Ipocrisie congelate che, se risvegliate e attivate, odorano di cupio dissolvi. Qualche giustizialista misantropo ripropone la pena di morte in Italia, come se non bastassero i fallimenti materiali e morali dei Paesi dove essa è applicata. E ritorna veritiero e tremendo per tutti i popoli il dettato dell’IoSono che impone di non uccidere. La morte non sconfigge il Male, soltanto la Virtú può farlo.
Se l’uomo osservasse i dettami della Legge di Natura, che sempre coincide con quella divina, insita in ogni individuo a qualunque realtà e stato sociale appartenga, cadrebbero la trasgressione e la delinquenza che filosofi e sociologhi unanimemente individuano ormai nelle motivazioni indotte dallo stato di necessità, dalle varie ingiustizie sociali, economiche, dalle condizioni ambientali. Legge che nel tempo sono state complicate con le mille e una disquisizioni di merito e valore. Il Cristo, che filosofo non era, e meno che mai sociologo, semplificò la questione riportandola al Sé. «Ama il prossimo tuo come te stesso», dove il “te stesso” è l’uomo che segue la Legge dell’Amore, oltre norme e codici, per il loro essere umani, non di rado fallaci, nella sostanza comunque disattesi. In quel “te stesso” c’è tutto il mistero della creazione che si perpetua, attraverso l’Uomo, ierofante della Natura, l’altare sul quale egli celebra, plasmandola, l’opera prima e ultima del progetto divino. Disegno sublime di immortalità per l’uomo, che nell’attesa di essere puro Spirito, assapora aleatorie sortite dalla gabbia della precaria carnalità, creandosene degli effimeri, tuttavia inebrianti surrogati. Come il giro di valzer del gran ballo in casa Ponteleone che il Gattopardo danza con Angelica Sedara.
«La coppia Angelica-don Fabrizio fece una magnifica figura. Gli enormi piedi del Principe si muovevano con delicatezza sorprendente, e mai le scarpette di raso della sua dama furono in pericolo di essere sfiorate. …Lui le stringeva la vita con vigorosa fermezza, il mento poggiava sull’onda letèa dei capelli di lei. …Ad ogni giro un anno gli cadeva giú dalle spalle: presto si ritrovò come a venti anni. Per un attimo, quella notte, la morte fu di nuovo ai suoi occhi “roba per gli altri”».
Quando il progetto divino sarà compiuto, la materia ottusa si eterizzerà, la corporeità umana trasfigurata avrà sostanza angelica, immune dal dolore e dalla morte. L’eternità sarà allora “roba per noi”.
Leonida I. Elliot