Salvando il rococò

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Salvando il rococò

Palazzo NapoliIl mensile di viaggi e moda “Vistaworld” veniva pubblicato a Milano, ma aveva una redazione distaccata a Napoli, dove lavorava Alberto. La parola redazione dava l’idea di essere chissacché, ma consisteva in un ingresso con un attaccapanni-portaombrelli con specchiera molata, residuo del vecchio mobilio, c’erano poi due grandi stanze che si aprivano sul corridoio. Nella prima c’era l’ufficio del direttore, con la finestra che dava sul cortile interno, dove, in un’aiuola risicata, una palma da datteri sognava di staccarsi dal terreno, scollinare oltre il palazzo di fronte, librarsi in volo sul mare del Golfo e raggiungere una qualunque oasi del Maghreb, dove fruttificare tra cammelli e beduini. Ma intanto era lí, radicata nell’aiuola perimetrata di cemento, e mortificava la sua linfa negli sbuffi di moto e di auto che parcheggiavano nel cortile. L’ufficio era in Via Chiatamone, in uno di quei palazzi del fu patriziato borbonico: scaloni d’onore, ballatoi con volte a vela, ampie balconate sul cortile interno, tutto ridimensionato per ospitare laboratori di sartoria, uffici commerciali, import-export e varie multinazionali.

La seconda stanza ospitava due scrivanie, ciascuna con PC; la stampante era in comune con Orietta, la segretaria. In fondo al corridoio c’era il bagno unisex. La mattina del 12 dicembre, il direttore Santesarti, ritornando dal bar, andò al bagno, lo sentirono fare un paio di gargarismi, azionare l’asciugamano elettrico, uscire, infilare la testa nel vano della stanza dove c’erano Alberto e Orietta e dire con un tono grave: «Giusti, tra cinque minuti nel mio ufficio». Quando ebbe di fronte il giovane oltre la scrivania, Santesarti, tormentando una biro, chiarí il motivo di quella convocazione: «Lei, Giusti, ha mai sentito parlare dell’affare Mantelloni?».

«Chi, il comico?» rispose candido Alberto.

«Ma no – rintuzzò Santesarti – non Mastelloni. Io mi riferisco al conte Emerio Mantelloni, quello del palazzo contestato, qui a Napoli, due anni fa. Ha fatto scalpore. Lei che è nel campo dell’informazione dovrebbe ricordarsene».

Alberto rimase interdetto, non ricordava.

Luca ed Eduardo De Filippo in “Natale in casa Cupiello”

Luca ed Eduardo De Filippo in “Natale in casa Cupiello”

«No? Allora le faccio un breve promemoria. Il conte Mantelloni, appassionato di donne, di musica e di teatro, abitava, finché era in vita, cioè fino a due anni fa, il palazzo avito in Via Solitaria, al Pallonetto. Aristocrazia decaduta ma sempre onorevole e dignitosa. Non per gli extra, però, e il conte ne aveva tanti. Amante del teatro, di quello aulico come di quello popolare, per arrotondare e pagarsi gli extra, ed essendo amico di Eduardo e di Scola, quello del cinema, con il beneplacito dei pochi inquilini dei piani alti, cui andavano cospicui indennizzi da parte delle produzioni cinematografiche, affittava alcune sale del palazzo per far girare le scene degli interni, come quelle di “Sabato, domenica e lunedí”, “Questi fantasmi”, “Filumena Marturano”, e non ultimo “Natale in casa Cupiello”, la commedia in cui il figlio non vuole dare soddisfazione al padre che gli domanda piú volte: «Te piace ’o presepe?».

«So che Eduardo è stato un grande commediografo e anche un eccezionale interprete. Le sue commedie sono una vera lezione di vita…» osservò Alberto.

«Ora però, caro Giusti, vengo al punto della storia del conte Mantelloni. Una società americana, la Dumlife, che produce accessori per apparecchi digi     tali, sta per acquisire la proprietà del palazzo, a mio avviso con la complicità del figlio del conte, mi faccia dire, ma resti tra noi, un gaudente che va da un casinò all’altro, da un panfilo all’altro. A partire dal 1° gennaio prossimo venturo, il palazzo Mantelloni apparterrà agli americani, che hanno ottenuto una prelazione rispetto ad altri possibili acquirenti».

«Mi scusi, direttore» intervenne cauto Alberto. «In che modo e fino che punto può interessare alla nostra rivista la sorte del palazzo del fu conte Mantelloni?».

«Bisognerebbe fare uno scoop, caro il mio Alberto, un colpo magistrale. Lei deve sapere che il palazzo Mantelloni è incluso tra gli edifici tutelati dalle Belle Arti, in quanto esempio del rococò napoletano. Ossia, mentre a Napoli e dintorni borbonici esempi di barocco ce ne sono molti, di rococò ce ne sono pochi, da contare sulle dita di una mano. Il che vuol dire che oltre allo stile architettonico il palazzo è famoso per gli stucchi e gli affreschi. Lei, armato di telefonino, andrà in Via Solitaria, che sta qui ma due passi da noi. Il portiere, Michele Mastrogiacomo, da me già prevenuto, la farà passare. Lei dovrà solo vedere, percepire, annotare e soprattutto fotografare. Non tutto quello che vede, che è tanto, forse troppo. Ma deve selezionare, ‘capare’, come dicono al mercato».

«E che ne facciamo poi, direttore, delle foto e degli appunti scritti?».

«Un articolone sul numero speciale che faremo uscire prima di Natale: “Salviamo il rococò, gloria della Napoli che fu e che sarà”, o qualcosa del genere. Lei che è bravo, sono sicuro che saprà confezionare un articolo che passerà alla storia».

«E quando dovrei agire, direttore?».

«Chi ha tempo non aspetti tempo, caro Giusti. Io direi subito, cotto e mangiato. Ma mi raccomando, Alberto, lei dovrà agire con cautela. Gli americani controllano ogni intervento esterno che possa pregiudicare il loro acquisto, che porterà al rifacimento integrale dello stabile al suo interno, lasciando solo l’esterno nello stile originale: un involucro senz’anima. Infatti, con una cattiva pubblicità, o con un servizio come quello che la nostra rivista farà, si potrebbe in qualche modo agitare la pubblica opinione e rallentare o rimandare la presa di possesso dello stabile in questione».

Il PallonettoAlberto si alzò per incamminarsi.

L’altro aggiunse: «Oh, dimenticavo: molli cinquanta euro al portiere!».

«Michele Mastrogiacomo» precisò Alberto.

«Quello! Ma è accomodante, vedrà. Mi raccomando, prudenza e attento agli americani!».

«Vado, allora» confermò Alberto. «A Via Solitaria, al Pallonetto…».

«Numero 55. Orietta le darà le indicazioni stradali e la bustina con i 50 euro. Funzionerà».

Da Via Chiatamone al Pallonetto, venti minuti a piedi nel ventre antico della Napoli greca. Sotto l’impianto stradale, il vuoto di caverne e grotte. Facile che il palazzo al numero 55 di via Solitaria vi affondasse per parecchi metri. Tutto si svolse come Santesarti aveva detto.

Michele, il portiere, prese la busta, la soppesò fingendo un certo rammarico: «Quanto non vorrei prendere questi soldi ma continuare a ricevere l’onorato stipendio che ho preso negli ultimi quarant’anni. Mah, che volete farci!».

«Mi dispiace» commentò solidale Alberto. Poi aggiunse: «Posso salire?».

«Dovete andare a piedi, l’ascensore non funziona da anni. Pazienza! Mi raccomando, non accendete fuochi, non fumate, non imbrattate i muri. Le stanze sono tutte chiuse, e quindi potete visitare e fotografare solo le scale, gli affreschi del soffitto e le statue. Fate attenzione, altrimenti se la pigliano con me e mi decurtano la liquidazione».

«Va bene, Michele, farò attenzione. Io rischio il licenziamento, quindi è interesse anche mio».

Man mano che saliva i gradini dello scalone, Alberto si stupiva per la bellezza degli stucchi e degli affreschi, pur se stinti dal tempo e dall’incuria, e maggiore era la sorpresa di trovare tanta rarità espressiva in un edificio sepolto nei meandri dei vicoli piú diseredati della città. Le statue sorridevano dalle balaustre e dai mancorrenti. Alberto ammirava, si fermava, scattava foto e appuntava le sue impressioni sul taccuino.

Al quarto piano si affacciò alla ringhiera di marmo e guardò giú. Il gioco spiraleggiante delle rampe era stupefacente. Aveva visto qualcosa del genere a Caserta e a Versailles, in Austria, in Baviera e a Stupinigi. Il barocco decorato in oro, ma piú fantasioso, piú giocondo, molto piú simile all’anima napoletana, capace di scherzare con il sublime.

«Posso aiutarvi?» chiese una voce alle sue spalle.

Si girò e nello spiraglio tra i battenti socchiusi dell’appartamento piú vicino, il viso di un uomo anziano lo stava osservando.

Lo stupore misto a imbarazzo impedí ad Alberto di rispondere subito.

«Chi vi ha fatto salire? E perché fotografate?». I battenti si aprirono di piú e una mano ossuta e nervosa indicò il telefonino che Alberto aveva in mano. «Chi siete, allora, e che volete?» insistette l’uomo.

E Alberto: «Voi siete americano? Vi comportate da padrone del palazzo… Michele mi ha fatto salire, sono un giornalista e mi interesso di arte e architettura. Vengo perciò in pace, armato di strumenti inoffensivi. Questo è solo un cellulare che fotografa».

«Vi occupate di arte e di architettura» ripeté l’anziano, uscendo dal vano della porta. «Quindi sembra che vi stiano a cuore Napoli e le sue bellezze. Come mai?».

«Sono un sognatore…» dichiarò Alberto, stupito lui stesso di quella uscita incongrua.

«Appassionato di arte e architettura, un sognatore amante di Napoli e delle sue bellezze. Ma allora, voi dovete accomodarvi in casa mia e vedere un presepe molto speciale. Entrate, e mi direte cosa ne pensate, se merita la vostra visita… Entrate, vi prego!».

Fu mentre l’uomo anziano spalancava la porta di legno lavorato e lo invitava sorridendo ad entrare, che Alberto mise a fuoco il rimando mnemonico: quell’uomo, dal volto scavato quasi di cartapesta, gli ricordava il protagonista di Casa Cupiello.

Dovette mostrarlo con evidenza nell’espressione che assunse, perché l’uomo anziano annuí, abbassando la testa, lo sguardo ammiccante. Ma non disse nulla. Solo si scostò per lasciarlo entrare con un largo gesto della mano.

Somigliava proprio a Cupiello, quello del Presepe, o a Mimí Soriano, di Filumena. Alberto passò mentalmente in rassegna gli altri ruoli che la quasi perfetta somiglianza dell’anziano sconosciuto poteva giustificare.

«E a voi piace il presepe?» chiese il vecchio signore, precedendolo in uno stanzone ingombro di mobili affastellati.

Alberto si affrettò a dichiarare quanto apprezzasse quella forma di arte, espressione di una devota religiosità.

L’altro, indicando quel bric-à-brac, sospirò: «Tutti questi mobili tra qualche giorno dovrebbero andare via. Cosa ci faranno non lo so». Tacque pensoso, poi riprese: «Ma non importa. Non valgono molto e possono finire anche dal rigattiere. Quello che si può trasportare, il ladro o il predatore lo rubano».

Poi il tono dell’anziano si fece grave, severo, quasi di sfida: «Ma ladri e predatori non potranno portare via quello che ora vado a mostrarvi…».

Percorse un lungo corridoio, poi altre stanze, i servizi, e alla fine, dove si apriva un salone sgombro di mobili, con un camino in marmo cipollino, il pavimento in cotto maiolicato, sul­l’enorme parete di fondo priva di finestre uno sconosciuto pittore, finissimo maestro del pennello, aveva dipinto un Presepe che mai Alberto avrebbe immaginato. Vivo, palpitante nei toni, l’af­fresco era, senza mezzi termini, un capolavoro.

 

Affresco rococò

 

Con una eccitazione che non aveva mai provato, Alberto eseguí un gran numero di scatti e un video che riprendeva ogni particolare. Quando staccò gli occhi dal dipinto, cercò l’anziano per avere spiegazioni. Ma chiunque fosse, era sparito.

Alberto ritornò in ufficio percorrendo Via Caracciolo. Guardava la città consumare il suo millenario amplesso con il mare. Ogni tanto palpava il telefonino in tasca, per assicurarsi che fosse ancora lí con le sue preziose immagini, specie le ultime, quelle dell’affresco che illustrava un presepe inedito, dalla strana vibrazione magnetica, magica, quasi arcana.

«Bravo, Giusti, te pasaste! direbbero gli spagnoli». Santesarti stava cliccando sul cellulare di Alberto facendo scorrere la sequenza delle riprese eseguite dal giovane in tutto il palazzo, e alla fine il mirabile affresco. «Un miracolo!» esclamava euforico il direttore. E poi ispirato: «Sa che le dico, Alberto? Abbiamo salvato il rococò!».

 

Fulvio Di Lieto