Il Giappone è in definitiva un arcipelago montuoso e accidentato immerso nel grande oceano Pacifico, un residuo del continente Mu inabissatosi migliaia di anni fa, insieme al suo confratello Atlantide, nel gioco della deriva globale delle terre emerse, un su e giú rallentato ma non del tutto esaurito. I figli del Sol Levante, non potendo in passato ricavare dal territorio difficile piú che riso e legumi, non riuscendo a farsi allevatori per ovvi motivi contingenti, la mancanza cioè di grandi spazi pianeggianti come le grandi pianure nordamericane e le pampas argentine, optarono per lo sfruttamento dell’assai piú vasta estensione territoriale a loro disposizione, l’oceano, e si fecero pescatori di tutta la fauna che quella immensa pianura liquida conteneva, dai giganteschi cetacei fino alle minuscole ostriche, che oltre a offrire una ricercatezza alimentare, sviluppavano all’interno del loro guscio, avviluppata dal molle e sapido frutto rosaceo del corpo, una perla. Nella comune accezione consumistica, un gioiello, nella cruda realtà biologica, una strategia di sopravvivenza. Non potendo espellerlo, il mollusco neutralizza, assimilandolo, l’agente intruso a valve aperte, che sia un granello di sabbia, una scheggia di conchiglia o un qualunque frantume biologico di cui le correnti oceaniche si caricano, in seguito alla dissoluzione continua, quasi frenetica, degli organismi che l’acqua nutre. Poi a Kobe, all’inizio del Novecento, qualcuno pensò di sostituirsi all’oceano e rendere intenzionale, non piú casuale, tutto il processo di formazione della perla.
Un haiku della dimenticanza recita: «Ora non duole piú, / si è fatto perla, / dentro di me il tuo nome». È il grido dell’innamorato che, lontano dall’amata, rassegnato, trasforma il proprio dolore in una perla, cosa rara e preziosa. Per equità, va messo in conto il dolore dell’ostrica, sottoposta, lei incolpevole, al trattamento di fecondazione che trasformerà un vile ingombro in una preziosità.
Con il metodo tuttora praticato, in appositi vivai con acqua marina, le ostriche vengono allevate nelle migliori condizioni possibili. Dopo il periodo necessario allo sviluppo dell’animale alla condizione adulta, viene inserito nel suo tessuto organico il seme infestante che il mollusco avvolgerà in una sofisticata guaina di madreperla con guizzi iridescenti, strato dopo strato, plasmando infine una perla. Le gentili portatrici di collane di perla, naturali o allevate che siano, regolari o scaramazze, non ignorino il travaglio organico, il dolore di essere oggetti alla mercé della vanità umana, per essere trasformati in parure o collier.
Vivai per allevare ostriche, perlifere e per il consumo di nicchia , vivai per allevare mitili destinati al piú vasto mercato alimentare di massa, vivai altresí per i cosiddetti pesci di pregio, da trote a salmoni in acqua dolce nella tradizione culinaria nordica e ormai estesa a tutti i paesi governati da masterchef, per orate, dentici o saraghi, allevati in riserve defilate, esclusive, per il sushi: oro a 18 carati. E allora, ecco di nuovo in azione i giapponesi, che in fatto di mare sanno il fatto loro, un po’ per la loro familiarità con l’elemento salso, un po’ per la loro geniale intraprendenza.
Un vivaio si trovava all’interno del territorio, lontano dal mare. I pesci catturati in mare aperto dovevano arrivare a destino e popolare vivi e vegeti la vasca di acqua salata dove sarebbero stati ammirati dal pubblico pagante, studiati da esperti ittiologi, da gastronomi e conduttori di food show.
Superfluo dire che dal punto di vista tecnico il trasporto dei pesci dal porto di sbarco dei pescherecci al vivaio di destinazione era ineccepibile, per i metodi di trattamento del pescato e per le attrezzature che ne garantivano la sicurezza. Container in acciaio e vetri infrangibili ospitavano un numero di pesci, determinato non a caso ma da un rigido protocollo di igiene e salvaguardia. Cernie, tonni rosa, naselli, cefali, alose, branzini, rombi, oltre ai già menzionati saraghi, dentici e orate, viaggiavano immersi in acqua salata a temperatura costante. Un dispositivo speciale, tipo giroscopio, regolava l’assetto dei container ammortizzando gli urti e le oscillazioni. Tutto previsto, dunque, tutto calcolato. Tuttavia all’arrivo un buon numero dei pesci arrivava già morto o agonizzante. Un esito infausto, una rovina. Che fare, considerando quei pesci essenziali per tenere in attività i costosi vivai?
Scartato il problema tecnologico, impeccabile, verificata con parametri e algoritmi la salute dei pesci, si passò a considerare la tenuta psichica delle varie creature in ammollo. E qui, la scioccante scoperta: i pesci morivano per abbandono dell’istinto di sopravvivenza. In poche parole, si lasciavano morire per inerzia morale. Essendo creature animali, e quindi in possesso di un’anima, niente escludeva che il male del container fosse di natura psichica. Come ovviare? Un esperto, in vena di sarcasmo, consigliò di immettere in ogni container un pesce pagliaccio, molto comune lungo le coste pacifiche, specie in presenza della barriera corallina. Scherzare, va bene, reagirono gli incaricati di risolvere il busillis, ma l’ironia non diverte nessuno in un simile rovello. I pesci avevano bisogno di un pungolo mentale, di qualcosa o di qualcuno che li svegliasse dall’abulia mortale che li coglieva durante il viaggio e li gettava nello sconforto totale. Che senso aveva quel viaggio, si dicevano forse i pesci, senza uno stimolo, senza un happening diversivo? Meglio farla finita, lasciandosi trasportare come i relitti di un naufragio.
Ed ecco la soluzione, arrivata per esclusione di ogni altra strategia: mettere nei container un catalizzatore di un sentimento estremo, capace di suscitare per riflesso condizionato l’istinto di sopravvivenza: la paura, la minaccia di qualcosa o qualcuno di terribile e letale, un fomentatore di primordiali reazioni istintuali. Sí, quella era la strada, e subito balenò nella mente di tutti la pinna dorsale di uno squalo. Quello era il deterrente per la noia e l’abbandono della lotta per vivere. Un bel pescecane, reperibile con una certa facilità, neppure tanto caro, sempre affamato e quindi sempre in movimento predatorio all’interno del container di sua pertinenza. Gli esperti di algoritmi comportamentali avevano calcolato che per un viaggio di tot chilometri uno squalo ordinario avrebbe divorato un numero di pesci sicuramente inferiore alla perdita di gran parte del carico, come avveniva quando i pesci si abbandonavano al loro destino senza lottare. La cosa funzionò. Non solo i pesci da sushi si coalizzarono, forse piú per antipatia che per timore dello smargiasso ammazzasette, ma il dato strabiliante fu che in qualche caso a rimetterci fosse il predatore, uscito dal container malconcio, incalzato dalle mancate vittime che sembravano persino sbeffeggiarlo.
Si può trarre una morale da un simile avvenimento? Certamente, e semmai piú d’una. La piú evidente è di non lasciare al male il campo d’azione ritenendolo vincitore in partenza, laddove contrastandolo lo si può costringere a ripiegare, quando persino costringerlo a fare il Bene suo malgrado.
È la grande lezione del Faust di Goethe, in cui Mefistofele, volendo fare il Male, finisce spesso per fare il Bene. La cosa peggiore è invece disertare il campo, isolarsi, fuggire, cercare isole felici, che a volte si rivelano tutt’altro che felici. Il 26 dicembre del 2004, nella placca indo-asiatica dell’Oceano Indiano, al largo della costa nord-occidentale di Sumatra, a una profondità di 30 Km, si verificò un potentissimo terremoto. Il sisma, di magnitudo 9.1 della scala Richter, liberò un’energia stimata in 52 miliardi di tonnellate di dinamite, equivalenti a 52.000 megatoni. Per farsi un’idea della sua devastante potenza, basta ricordare che le due bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki, il 6 agosto 1945, sommarono un potenziale esplosivo di 0,038 megatoni, ossia il terremoto dell’Oceano Indiano è stato un milione e mezzo piú dirompente dell’inferno nucleare che distrusse nel giro di minuti le due città giapponesi uccidendone all’istante la quasi totalità degli abitanti, condannando i superstiti a una morte piú atroce per il fallout.
Il sisma dell’Oceano Indiano, durato 8 minuti, venne avvertito in tutto il sud-est asiatico e in molti paesi costieri dell’Africa orientale. L’onda d’urto causò un maremoto che, alla velocità di 800 Km l’ora, raggiunse l’India, il Bangladesh, la Malesia, la Birmania, Singapore, la Thailandia, le Maldive, fino a toccare le coste della Somalia e del Kenya, con tsunami che distrussero gli insediamenti umani dalla linea costiera per decine di chilometri verso l’interno. Si calcola che il disastro abbia causato circa 270.000 vittime, un quarto delle quali bambini. Le autorità dei vari paesi colpiti dal sisma e dal susseguente maremoto non ebbero vita facile nel rilevare i danni e soprattutto accertare il numero e l’identità delle vittime e stilare quindi una mappa antropologica delle comunità autoctone, molte delle quali refrattarie a ogni contatto con ‘quelli di fuori’.
Una delle comunità aborigene piú ostiche a lasciarsi contattare per scambi e conoscenze è quella delle Isole Andamane. Cessata l’emergenza, a sisma terminato, le autorità indiane che hanno giurisdizione sull’arcipelago di centinaia di isole e atolli, non riuscirono a contare il numero delle vittime, che pure, è ipotizzato, costò la vita a piú di 300.000 persone. Un luogo, quello delle Andamane, per scelta dei nativi inarrivabile. Chi ci prova, nonostante i divieti categorici delle autorità indiane, rischia la vita. La verifica sul campo del rischio che corre chi tenti di rompere il tabú dell’autoisolazionismo dei mincopi, questo il nome dei negritos andamani, è costata la vita a John Allen Chau, un giovane missionario americano. Raggiunta in kayak l’isola di North Sentinel, all’estremo Nord dell’arcipelago, con l’intento di convertire al cristianesimo la tribú autoctona ivi residente secondo quanto affermano antropologi di spicco da migliaia di anni, l’intrepido evangelizzatore è stato raggiunto da un nugolo di frecce che lo hanno ucciso. Forse ai mincopi era pervenuta, per vie imperscrutabili, la notizia della triste sorte toccata secoli fa ai nativi maya, agli aztechi e ai mesoamericani in genere, convertiti a forza dai frati spagnoli a suon di nerbate e autodafé, provocandone l’estinzione di gran parte e lasciando la restante grama popolazione affetta da sifilide, vaiolo e miseria nera, di anima e di corpo. Nel bellissimo e drammatico film “Apocalypto” di Mel Gibson, il giovane amerindo scampato alla caccia forsennata dei sacerdoti maya che vogliono sacrificarlo al Sole malato, assiste con la sua donna e il figlioletto all’arrivo degli spagnoli che ancorano le loro caravelle sottocosta. «Chi sono?» chiede la donna. E il suo compagno: «Sono uomini», e senza attendere oltre si rifugiano nella foresta.
Salvi, certo, ma a quale prezzo! Rinunciando alla propria civiltà, dandola vinta allo squalo del container. Caricandosi cioè, con la rinuncia, di una responsabilità morale non certo inferiore e meno devastante per la civiltà umana della vessazione e dell’oltraggio perpetrati dall’evangelizzatore o colonizzatore di turno. Inganno, povertà, ed emarginazione sono gli squali che nel container della vita comune tentano di non farci arrivare a destino. Lavorano sulle miserie e le paure del nostro corpo fisico, essendo il nostro Io sovrano l’ambita preda della congiura dei nuovi Ostacolatori, che vogliono divorarne la sostanza divina.
Ultima tentazione che il Male mette in campo, arma letale, come avverte Massimo Scaligero in Meditazione e Magia: «L’uomo trasmette al corpo eterico la corruzione del corpo astrale, poiché mediante la responsabilità del pensiero ha la possibilità di un’azione di profondità, anche se indiretta, sulle forze eteriche, secondo una magia inferiore, o secondo un patto dal quale viene inconsciamente dominato. Si prepara in tal modo un guasto della razza umana, onde un tipo, per cosí dire, “animalizzato”, in quanto destituito dell’Io, seppur dotato di intelligenza, di “anima” e del raffinato dialettismo necessario alla sua etica, va eliminando in tutti i campi, anche in quello spiritualistico, l’“uomo spirituale”. Ogni giorno appaiono piú evidenti i segni di un simile fenomeno: il pericolo è che persino nei cultori di Scienze Spirituali si attutisca la percezione di ciò che simili segni vogliono dire: che vi sia un’assuefazione al livello dell’uomo animalizzato come al normale livello umano. Giova sottolineare a tale riguardo la responsabilità di coloro che si ritengono indicatori di una via secondo lo Spirito, in quanto permangono ignari di ciò che è imminente in relazione al guasto di quell’arto dello Spirito, la cui magicità affiora anche in essi, sotto forma di dinamismo pensante: sfuggendo ancora una volta ad essi come l’immediato segno dello Spirito».
Lunga è la via che porta al Grande Vivaio della sublimazione, con tali e tante insidie che è facile incappare in guru del pensiero forte. Questi, come il gallico David Benantar, predicano il verbo allucinante dell’antinatalismo: «La vita è male, meglio non nascere». Se poi uno, già nato, non sa come uscire dal dilemma, ecco il rimedio proposto da internet: «Stampa la tua pistola in 3D. Spara solo se riconosce il proprietario». Conforta e rassicura il presumere che l’arma, essendo di materia non soggetta alla precarietà fisiologica umana, non soffre di amnesie e non spari quindi a casaccio.
Per il tempo che si prepara, vale il fermo concetto che, terminato l’arduo viaggio, lo Spirito vincerà. Noi aspettiamo, tenendo accese le lucerne, ascoltando nel silenzio della notte i passi di Lui che viene.
Leonida I. Elliot