La barca giusta, ben calafatata, armata di corde e di vele, la ciurma compatta, unita nello scopo dell’impresa, le anime affidate allo stesso Dio, il comando allo stesso uomo, che incarna lo spirito di tutta la paranza. Tutti per uno, uno per tutti. La nave, anzi la galea, va con il vento, e se c’è calma piatta e bonaccia imperterrita, tutti ai remi, rispettando il ritmo di voga, flettendosi nello sforzo in cadenza sincrona con i compagni. Se uno viene meno per un malore, si rema per due. Si leggono le stelle, si consulta la bussola, si annusa il vento, se ne ascolta la voce, poiché nella natura è il manuale di rotta, il portolano affidabile.
Volete uno stato perfetto, una società che vive e lascia vivere, che dà e prende valori? Trasferite sulla terraferma lo spirito di una galea, il suo andare per mare non per affondare nemici ma per trafficare con tutti i popoli, mercanteggiare senza opprimere, scambiare beni e costumi, lasciando a ciascuno la propria fede, gli ideali, le qualità creative, semmai adottandole, se migliori delle proprie.
E quando si scende a terra, osservare il mondo, i luoghi, la gente con l’occhio della fraternità umana, sapendo che in ogni essere vivente agiscono le stesse forze e sostanze che ci animano, i mali che affliggono lo straniero, il dolore e la gioia che lo esaltano, vibrano dell’identico nostro desiderio di vita. Soccorrere, allora, confortare, senza tener conto della forza e della fede che non sono le nostre, che potrebbero in un qualunque sciagurato momento di follia disumana nuocere al nostro spazio vitale. Ciò è molto bello, direte, auspicabile, ammirevole se realizzato, ma come ritenerlo fattibile? Eppure…
Nell’anno 1050, alcuni mercanti dell’antica Repubblica Marinara di Amalfi ottennero dal Califfo d’Egitto il permesso di costruire a Gerusalemme una chiesa, un convento e un ospedale per assistere i pellegrini di ogni etnia e fede. Era il tempo in cui, in Terrasanta, cristiani, musulmani e comunità di diverse altre fedi convivevano in un clima di piena tolleranza. La chiesa e l’ospedale, dedicati a San Giovanni Battista, ospitarono una comunità monastica, l’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme, alla cui guida venne designato, come Gran Maestro, Fra’ Gerardo Sasso, di Scala, proclamato poi beato. Sorsero in seguito, nella scia di devozione e fraternità dell’Ordine di Gerusalemme, sulla via di Giaffa e altrove in Palestina, ospedali e centri caritatevoli aperti a chiunque vi facesse ricorso, senza dover dichiarare fede e provenienza. Era il felice tempo della fratellanza al servizio della fede, l’evangelica semina del grano.
Il 15 febbraio dell’anno 1113, papa Pasquale II riconobbe i “Giovanniti” di Gerusalemme come un Ordine religioso autonomo a tutti gli effetti. Ma venne il tempo della zizzania. Un aristocratico francese, Raymond de Puy, nel 1120, succedette al frate amalfitano Gerardo Sasso. Il nuovo Gran Maestro armò i monaci, e accanto alle chiese e agli ospedali sorsero presídi militari e fortezze. Ai monaci, ormai sempre piú guerrieri, fu data una divisa: mantelli neri con una croce bianca. Cosí lo stemma. La croce a otto punte, detta “amalfitana”, richiamantele otto beatitudini della fede. Dopo la difesa di Malta, in cui gli Ospitalieri si distinsero, la croce fu disegnata sul fondo rosso. Con questo simbolo, sopravvive l’Ordine dei Cavalieri di Malta, nei presídi sanitari da loro gestiti.
Sopravvive il ricordo della prima Repubblica Marinara d’Italia, quella di Amalfi. Naviga su una galea la cui ciurma è animata ormai solo da spread, speranza e carità. È l’Italia di oggi. Forza, ai remi, fratelli!
Elideo Tolliani